Storia dell’Etiopia
Un Paese molto antico, scrigno di una grande civiltà ancor oggi troppo poco conosciuta

L’Etiopia: questo nome fa delineare alla nostra mente le immagini di grandi monti che incorniciano vasti laghi, ma anche di torridi deserti; di estese piantagioni di frumento, miglio, legumi, frutta, ortaggi, mais, caffè, ma anche di folte foreste di palme, felci, bambù, tamarindi, acacie, euforbie; di pastori avvolti in lunghe tuniche bianche, di pescatori su leggere imbarcazioni fatte di canne legate in fascio come appaiono in antichissimi bassorilievi egizi, ma anche di medaglioni in argento finemente modellati. Immagini di una terra esotica abitata da un popolo insieme povero, fiero ed attaccato alle proprie tradizioni.

L’Etiopia è tutto questo, certo, ma non è solo questo: è anche una terra di antica civilizzazione, con le sue leggende, le sue usanze, una cultura sua peculiare che non ebbe nulla da invidiare a quella dell’Egitto faraonico o delle altre civiltà ad essa coeve.


Il «terzo Regno del mondo»

L’Etiopia è una delle più antiche terre abitate dai diretti antenati dell’uomo, usciti dall’ombra delle foreste verso il sole della savana. Già 3,7 milioni di anni fa, svariate ossa e tracce di orme di «Australopithecus afarensis» ad Hadar testimoniano la presenza di ominidi in Etiopia: sempre ad Hadar viene ritrovato lo scheletro fossile di «Australopithecus afarensis» AL 288 chiamato Lucy e vissuto forse 3,4 milioni di anni fa; a 2,3 milioni di anni fa risale l’utensile di ciottolo scheggiato di Shungara nella valle dell’Omo; 1,7 milioni di anni fa, nel sito di Melka Kunturè aree delimitate da grossi blocchi e da ciottoli si alternano a zone destinate allo squartamento degli animali. Dipinti preistorici di epoca assai più recente, in grotte o al riparo di rocce, raffigurano animali selvatici e figure umane stilizzate, prova del passaggio dell’uomo e della vita che qui conduceva.

Il termine «Aithiopes», letteralmente «facce bruciate», appare per la prima volta nell’Odissea di Omero (I, 22, 23; IV, 84; V, 282, 287): il poeta greco afferma che gli Etiopi erano divisi in due popoli, uno ad Occidente (Sudanesi?), l’altro ad Oriente (forse i negri della costa somala); anche Erodoto (VII, 70) divide gli Etiopi in due gruppi, gli Orientali dai capelli lisci e gli Occidentali dai capelli crespi. Ma bisogna considerare che per gli antichi il termine «Etiopi» designava tutte le popolazioni dell’Africa Nera conosciute nel Mediterraneo, e in particolare gli abitanti del «Paese di Kush» o Nubia.

Una leggenda etiope che risale all’VIII secolo dopo Cristo narra che la Regina di Saba (un Regno situato nello Yemen mille anni prima di Cristo), recatasi da Salomone con un grande corteo e ricchi doni per aver prova della sua saggezza, lo sposò ed ebbe da lui un figlio: fu questi Menelik, che la Regina volle riportare nella sua terra e che divenne il primo Sovrano di Axum, la città santa dell’Etiopia; ma in realtà, i primi Sovrani della città erano pagani. Tutti gli Imperatori d’Etiopia, fino all’ultimo, Hailè Selassiè, si fregiarono del titolo di Re dei Re e vantarono d’essere gli eredi del Trono dei Salomonidi.

Situata nel Tigray, ad oltre duemila metri di altezza, nei pressi di un affluente dell’Atbara, all’inizio dell’Era Cristiana Axum divenne la splendida capitale di un Regno che estese il suo dominio politico e religioso dalla regione a Nord di Keren e Alagui a Sud, e dalla città costiera di Adulis al fiume Takazzè ad Ovest. Il nome «Aksum» compare per la prima volta nel Periplus Maris Erythraei, una guida navale e commerciale compilata da un mercante egiziano, probabilmente alla fine del I secolo dopo Cristo, quando il Regno iniziava la sua ascesa.

Regno di Axum

Axum e l'Arabia Meridionale al termine del regno di Gadarat, III secolo dopo Cristo

La prossimità con il Mar Rosso favorì importanti correnti d’immigrazione fra le due rive e permise alle popolazioni che abitavano la costa etiopica di intrecciare intensi commerci e scambi culturali con tutto l’Oriente Antico. Inizialmente emporio per il commercio dell’avorio, frequentato da mercanti egizi e greci, Axum si consolidò come stazione di passaggio sulla via tra l’Oceano Indiano e il mondo ellenistico, e come centro di raccolta dei prodotti provenienti dall’interno dell’Africa: in cambio dei prodotti africani, fra cui vi erano – oltre al già ricordato avorio – ebano, piume di struzzo, pelli e schiavi, l’Oriente forniva perle, seta, smeraldi, spezie, incenso che venivano poi smistati lungo le vie carovaniere verso la valle del Nilo, a Meroe. Grazie alla fondazione del grande porto di Adulis (presso l’attuale Massaua), gli Axumiti divennero i detentori del commercio lungo tutto il Mar Rosso ed entrarono assai presto in contatto con il mondo greco-romano.

La nostra conoscenza della civiltà axumita è basata su notizie raccolte da autori classici, da cronisti arabi, ma soprattutto dal materiale archeologico. I resti monumentali di Axum furono studiati per la prima volta da una missione tedesca nel 1906; nel 1939-1941, nel periodo dell’occupazione italiana in Etiopia, la Missione Archeologica Italiana di Axum intraprese ricerche sistematiche, riprese dall’Istituto Etiopico di Archeologia di Addis Abeba.

I Re di Axum erano potenti Monarchi che parlavano greco e coniavano monete d’oro; avevano dato vita ad una tradizione scritta in una lingua propriamente africana, il ge’ez, e in una scrittura propria che è altrettanto antica quanto l’uso della lingua greca: si tratta di una lingua semitica derivata in epoca molto antica dal Sud arabico o sabeo, ancora oggi utilizzata dal clero etiope. L’economia era basata sull’agricoltura e l’allevamento di bovini e ovini; la popolazione usava aratri trainati da buoi, costruiva dighe, canali e cisterne, produceva un artigianato di alto livello tecnico ed artistico. Gli antichi Etiopi furono maestri soprattutto nell’edilizia e nella lavorazione della pietra: la regolare alternanza tra superfici aggettanti e superfici rientranti, i muri «a testa di scimmia» (così detti per la sporgenza delle due estremità delle travi di sostegno), e le fondamenta a gradoni sono le caratteristiche principali delle imponenti costruzioni axumite.

Sorprendenti sono i resti delle stele monolitiche di basalto, circa un centinaio, che secondo le iscrizioni risalgono al periodo pagano e rappresentano i più alti blocchi di pietra mai usati nell’antichità (il più grande, ora infranto in quattro pezzi, raggiungeva un’altezza di 33,5 metri, un metro in più del più alto degli obelischi egiziani): indicavano la sepoltura ed erano la parte emergente della tomba. La decorazione delle facce delle maggiori stele rappresenta un edificio di tipo etiope; si nota in basso la sagoma di una porta e, sopra, quella di numerose finestre indicanti altrettanti piani: 9 nella Grande Stele, 13 nella Stele Maggiore; la sommità è a forma di mezzaluna. Ai piedi di ciascuna stele vi è una lastra di pietra che fungeva da ara per i sacrifici. L’erezione di tombe monumentali (pensiamo alle piramidi egizie, o ai mausolei greci) e di monumenti dedicati al culto degli antenati è una costante, nelle civiltà antiche, e testimonia il forte legame delle persone con la morte e il mistero del soprannaturale. (Si potrebbe aprire, a questo punto, un breve paragrafo sulla vicenda – per molti aspetti surreale – della «grande stele» di Axum: quando gli Italiani invasero l’Etiopia, nel 1935, la famosa stele giaceva in terra, divisa in tre pezzi tra i tukul di Axum, fra altre steli molto più piccole – aveva un’altezza di 23 metri ed era molto bella. Due anni dopo venne trasportata a Roma, restaurata ed eretta nell’area del Circo Massimo, davanti al palazzo che ospitava il Ministero delle Colonie del regime fascista, attuale palazzo della F.A.O. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Imperatore d’Etiopia, Hailè Selassiè, richiese la restituzione della stele, però come la vide eretta nella sua grandiosità, decise di lasciarla in Italia in cambio di un ospedale nel suo Paese che fu presto fatto. Invece, il Governo Etiope l’8 gennaio 2001 richiese ancora una volta la restituzione della famosa stele e il Governo Italiano, dopo anni, ubbidì. Si tratta dell’unico caso al mondo della restituzione di un «bottino di guerra», un fatto contrario a tutte le convenzioni internazionali).

Stele di Axum

La stele di Axum ricostruita nel suo luogo d'origine (febbraio 2009)

I Re di Axum raggiunsero il Sudan, la Nubia, il Darfour con le loro campagne militari e l’Arabia con spedizioni navali: il Corano parla di una spedizione axumita contro la Kaaba, detta «Guerra degli elefanti» (intorno al III secolo). Quando nel 336 l’Imperatore Romano Costantino fondò Costantinopoli, la sua nuova capitale, scrisse una lettera «ai potentissimi fratelli Ezanà e Sezanà, Re di Axum».

Fu sotto il Regno di Ezanà (dal 325 al 350 circa) che l’Etiopia fu evangelizzata da un monaco siriano, Frumenzio, detto dagli indigeni «Abba Salama» («Padre Pace»), naufragato sulla costa eritrea e poi condotto alla Corte di Axum. Verso il 345 Frumenzio andò ad Alessandria per farsi consacrare Vescovo d’Etiopia da Sant’Attanasio e, da allora, la Chiesa Etiope restò strettamente legata a quella di Alessandria e seguendo il suo esempio aderì al monofisismo. Pur professando un Cristianesimo ortodosso, gli Axumiti furono sempre propensi al sincretismo, sensibili alle reminiscenze giudaiche legate alle loro origini leggendarie, e in seguito accoglienti nei confronti dell’Islam: secondo la tradizione islamica alcuni compagni del Profeta si sarebbero rifugiati ad Axum circa nel 615.

Intorno al 335 gli eserciti axumiti invasero ed annientarono il vicino Regno di Kush, che era stato prospero e potente per dieci secoli, e ne distrussero la capitale, Meroe: in tal modo si risolveva con la forza delle armi una rivalità commerciale. Il massimo splendore il Regno Axumita lo raggiunse nel corso del VI secolo quando conquistò i territori dello Yemen e di parte dell’Arabia: il Greco Alessandrino Cosma Indicopleuste, che viaggiò intorno al 520, racconta nella sua Topografia cristiana il suo ritorno dall’India passando per Adulis, Axum e la via carovaniera fino alle cateratte del Nilo: egli esprime la sua ammirazione per lo splendore e la ricchezza delle città etiopi. A quel tempo, l’Etiopia era considerata il «terzo Regno del mondo», pari all’Impero di Bisanzio e a quello dei Persiani.

Il declino del Regno Axumita iniziò nel 572, quando i Persiani invasero l’Arabia e poi l’Egitto. Le conquiste arabe, nel VII secolo, lo isolarono completamente dalle civiltà del Mediterraneo: una sorta di vasta isola cristiana circondata da musulmani o pagani. Nel X secolo la città di Axum fu distrutta da un personaggio misterioso, una Regina Ebrea conosciuta con il soprannome etiope di Essato, la distruttrice, che massacrò la famiglia reale e condusse una terribile persecuzione contro i Cristiani. Approfittando di questi disordini, l’Islam si impiantò sulle coste del Mar Rosso e decretò la fine di questo antico e glorioso Regno.


Le guerre contro l’Islam

L’Islam, con il sorgere dell’Impero Arabo dei Califfi, determinò l’esclusione dell’Etiopia dalla politica mondiale: la conquista araba dell’Egitto da una parte e quella della Siria e dell’Impero Persiano dall’altra posero entrambe le vie dell’India, la terreste e la marittima, sotto il dominio del Califfato, e la funzione che l’Etiopia aveva esercitato per secoli nell’Evo Antico venne a cessare; inoltre l’occupazione delle isole Dahlach consentiva all’Impero Arabo la sorveglianza del Golfo di Adulis, sbocco al mare dell’Etiopia. Sulla stessa costa etiopica meridionale si vennero a formare principati musulmani, che gradualmente si estesero verso l’interno dell’altopiano costituendo poi a Sud del Regno dell’Etiopia Cristiana una vera catena di sbarramento, che ne impedì l’espansione e si preparò anzi a minacciarlo. Si posero così le premesse di quella grande lotta con l’Islam che costituirà fino all’Età Moderna la nuova caratteristica della storia dell’Etiopia, dando anche motivo in Europa alla leggenda poetica del potentissimo e ricchissimo Prete Gianni, Sovrano Cristiano che poteva essere alleato degli Occidentali contro i musulmani nelle guerre delle Crociate e nella difesa del Mediterraneo. Lo citò anche l’Ariosto col nome di Senapo: «Senapo imperator della Etïopia, / ch’in loco tien di scettro in man la croce, / di gente, di cittadi e d’oro ha copia / quindi fin là dove il mar Rosso ha foce» (Orlando Furioso, XXXIII, 102); si ritiene che sia da identificare con il Negus (Imperatore) ‘Amda Syon I, che regnò dal 1314 al 1344 e che concluse vittoriosamente ben tre guerre contro i musulmani – trionfi resi memorabili dalla Cronaca reale e dai canti dei soldati. Le conseguenze di quest’isolamento furono l’«africanizzazione» dell’Etiopia, che assorbì nuove popolazioni locali, lo spostamento della capitale politica da Axum verso la zona montuosa centrale, la perdita di contatti con la cultura greca, le relazioni con il mondo mediterraneo – assai ridotte – assicurate solamente dal legame della Chiesa Etiope col Patriarcato di Alessandria e dal tradizionale pellegrinaggio a Gerusalemme ed agli altri Luoghi Santi della Palestina.

Non dobbiamo però pensare ad un periodo di lenta, inesorabile decadenza: anzi, i secoli del Medioevo sono i più importanti per l’arte etiopica. Nei pressi di Lalibelà, nell’Etiopia Centrale, tra il XII e il XIII secolo il Re Etiope da cui la zona prese il nome (onorato come Santo dalla Chiesa Copta) fece costruire un gruppo di dieci caratteristiche chiese monolitiche. Esse sono interamente ricavate dalla roccia, vere e proprie sculture architettoniche: a pianta rettangolare con abside quadrata, come nelle basiliche siriache, sono lavorate tanto esternamente quanto internamente, sì da possedere tetto, facciata e pareti in cui sono intagliate porte e finestre; la chiesa costituisce così un unico blocco di roccia traforata e unita al suolo roccioso dal quale è stata ricavata. Sculture a bassorilievo ne ornano due: sono scene di caccia sulla facciata di Zemeda Mariam, una deposizione e figure di Santi a grandezza naturale su quella di Golgota. La pittura etiopica è soprattutto sacra o di ispirazione sacra e si trova per lo più in edifici di culto, come gli affreschi – di un sapore decisamente arcaico – nelle chiese della zona di Lalibelà: gli angeli e Santi a Genneta Mariam; i Santi Re di Yedibba Mariam; scene della visitazione a Zemeda Mariam.

Chiesa monolitica

La chiesa monolitica di San Giorgio a Lalibelà

I musulmani tentarono più volte di occupare l’Etiopia, invano: arroccati sulle loro montagne, gli Etiopi resistettero con valore. Finché, narra una leggenda etiope, agli inizi del XVI secolo il Negus Lebna Denghel, rattristato per non avere alcun nemico da vincere, fece flagellare la terra perché gli partorisse un avversario. «La terra gemette e Dio ne udì il gemito» e fece sorgere Ahmad ibn Ibrāhīm, cui gli Etiopi Cristiani daranno il nomignolo di «Mancino», mentre i musulmani lo chiameranno «il primo conquistatore». Dal 1529 al 1540, Ahmad ibn Ibrāhīm passò di vittoria in vittoria, incalzando il Negus di regione in regione, incendiando conventi, distruggendo santuari e monasteri. Pareva che il destino dell’Etiopia fosse ormai segnato.

Ma, proprio in quegli anni, la scoperta della via alle Indie per il Capo di Buona Speranza aveva riportato, dopo quasi un millennio di pausa, l’Impero Etiopico nel gran gioco della politica mondiale. Il Portogallo aveva interesse a proteggere la sua nuova rotta di navigazione eliminando quella propria della Repubblica di Venezia, dall’Egitto per il Mar Rosso all’India: perciò le squadre navali portoghesi cominciarono a compiere crociere nel Mar Rosso per combattere il naviglio egiziano. Già dal 1520 erano ambasciatori alla Corte d’Etiopia Rodrigo de Lima e Francisco Alvarez (la sua Verdadera Informaçáo sarà la prima relazione di viaggio nella terra del Negus nel Cinquecento): parve quindi naturale che Lebna Denghel chiedesse aiuti al Portogallo contro l’invasore musulmano, e che il Portogallo li concedesse per evitare che la gloriosa Cristianità Etiopica fosse sommersa e uno Stato Islamico alleato dell’Impero Turco (già possessore dell’Egitto e dell’Arabia) dominasse la costa africana.

Nel giugno del 1541 sbarcò a Massaua un reparto di 400 fucilieri ed artiglieri comandato da Cristoforo da Gama, figlio del grande navigatore Vasco da Gama. Lebna Denghel era morto e sul Trono Etiope sedeva il Negus Claudio. L’arrivo dei Portoghesi ebbe una notevole ripercussione anche sul morale delle forze etiopi: sebbene Cristoforo da Gama venisse catturato e decapitato, nel febbraio del 1543 il Negus passò audacemente all’offensiva. Ahmad ibn Ibrāhīm, il «Mancino», all’inizio della battaglia fu colpito a morte da un archibugiere portoghese, l’esercito musulmano si sbandò e l’Etiopia fu salvata.

Dopo una lunga pausa le guerre ripresero finché i Galla, un popolo che abitava lungo l’Oceano Indiano (dalla costa della Somalia Meridionale fino all’interno verso le pendici dell’altopiano etiope), premuti sempre più dai Somali, approfittarono dello stato di estrema debolezza cui Cristiani e musulmani si erano ridotti, e si gettarono sull’altopiano. I loro successi furono immediati e continuarono per anni. La capitale dell’Impero Etiopico, per ragioni di difesa, fu spostata nella regione del lago Tana, a Gondar; gli imponenti castelli di Gondar sono il frutto dell’influenza portoghese, grazie alla quale gli Etiopi impararono la fabbricazione e l’uso dei mattoni, la costruzione dell’arco e della volta. Ma i «Re di Gondar», così tradizionalmente chiamati in Etiopia, furono poco più che personaggi effimeri, mentre il potere era diviso e suddiviso tra i vari «masafent» (i signori di palazzo), i feudatari e i capi di truppa delle varie regioni.

Castello di Gondar

Il Castello di Ghebbi a Gondar, fatto costruire dall'lmperatore Fasilide

L’Etiopia e l’Italia

L’Etiopia uscì dalla triste condizione di decadenza soltanto a metà del XIX secolo grazie al Negus Teodoro II, tragica figura di Sovrano Africano di nascita umile, audace guerriero. Raggruppato intorno a sé un buon nucleo di armati, non si diede tregua per affermare con le armi il suo diritto di Sovrano per l’intera Etiopia contro le pretese di autonomia dei capi feudali; l’intensità di guerre che condusse attraverso insidie, resistenze ed opposizioni di ogni genere ne inasprì il carattere già fiero, inducendolo ad incrudelire contro i ribelli ed avversari infliggendo orribili supplizi e condanne che sprofondarono il Paese nel terrore. Arrivò ad imprigionare tutti gli Europei, Inglesi, Francesi e Tedeschi, che si trovavano sul suo territorio; questo provocò la reazione della Regina Vittoria: le forze britanniche, aiutate anche dalla popolazione ormai stanca della ferocia di Teodoro II, entrarono nella capitale, Magdala; il Negus si uccise con un colpo di pistola per non cadere prigioniero e questa fine gli diede figura epica in un popolo di fieri guerrieri come gli Etiopi – dimenticate le feroci repressioni, si composero in suo onore canti e strofe incisivamente celebrativi. Era il 1868.

Tra coloro che erano stati suoi prigionieri c’era Menelik, figlio del Re dello Scioa. Fuggito e tornato sul Trono del padre, già nel 1872 aveva avuto, per sua iniziativa, uno scambio di lettere col Re d’Italia Vittorio Emanuele II; quattro anni dopo, aveva ricevuto una prima missione italiana, guidata dal marchese Orazio Antinori, cui era stata concessa la stazione geografica di Let Marefià. L’apertura del Canale di Suez nel 1869 aveva causato la necessità ancora una volta, per le Potenze Europee, di prendere posizione nelle vicende dei Paesi del Mar Rosso lungo quella che, dopo più di tre secoli, tornava ad essere la via dell’India: per questo Italia, Inghilterra e Francia cominciarono ad acquistare possedimenti sulla costa africana. Il 21 maggio 1883 il conte Pietro Antonelli, inviato del Re Umberto I, stipulava un primo trattato di amicizia e di commercio con Menelik, Re dello Scioa, riconoscendogli così una personalità internazionale indipendente dall’Imperatore d’Etiopia.

Divenuto a sua volta Imperatore, Menelik II si assicurò meglio l’appoggio dell’Italia stipulando col conte Antonelli il Trattato di Uccialli (2 maggio 1889): con questo documento veniva riconosciuta la sovranità italiana su di una notevole parte dell’altopiano eritreo. L’articolo 17 del Trattato, però, nella redazione in lingua italiana diceva che l’Imperatore Etiope «consente di servirsi» del Governo Italiano per tutte le trattazioni di affari che abbia con altre Potenze o Governi (implicava quindi il protettorato dell’Italia sull’Etiopia), mentre nella redazione in lingua amharica diceva che l’Imperatore «potrà servirsi» (non implicava quindi alcun protettorato). Dopo sei anni di polemiche e tentativi di conciliazione, si giunse alla guerra. Il 13 e il 15 gennaio 1895 le truppe italiane, comandate dal Generale Oreste Baratieri, sconfissero gli Etiopi ed occuparono il Tigray; ma già nel dicembre l’esercito etiope passò alla controffensiva fino alla battaglia di Adua del 1° marzo 1896 dove gli Italiani, a causa di erronee indicazioni topografiche della carta distribuita ai comandi e per una serie di altri equivoci e sbagli, furono sconfitti dopo una strenua resistenza dalle soverchianti forze etiopi. Il 26 ottobre dello stesso anno venne firmato ad Addis Abeba da Menelik II e dal plenipotenziario italiano Nerazzini il trattato di pace col quale veniva riconosciuta ai possedimenti italiani in Eritrea la linea provvisoria di confine dei corsi d’acqua Mareb, Belesa e Muna.

Battaglia di Adua

La battaglia di Adua raffigurata da un celebre dipinto etiopico, 1965-1975

La vittoria sugli Italiani, la sottomissione dei Galla e dei vari feudatari (o «ras»), diedero all’Imperatore Menelik II un prestigio indiscusso ed un totale potere sull’intera Etiopia. A questa situazione corrispose un consolidamento del Paese nella politica internazionale, fissando le frontiere con le confinanti colonie e i protettorati britannici, italiani e francesi; la costruzione della ferrovia francese Gibuti-Addis Abeba garantì le comunicazioni tra la capitale (fondata proprio da Menelik II) ed il mare.

Il Negus morì nel 1913; il 14 dicembre 1925 l’Italia e la Gran Bretagna stipularono un accordo in cui si riconosceva all’Italia una zona esclusiva di influenza economica nell’Etiopia Occidentale ed alla Gran Bretagna un interesse preminente alle opere da compiere sul lago Tana ed il Nilo Azzurro con patto di reciproco appoggio. Era un accordo lesivo dell’indipendenza etiope.

Salito al trono nel 1930, il Negus Hailè Selassiè perseguì una politica di riforme da una parte diminuendo l’autorità dei grandi feudatari rimasti al potere, dall’altra favorendo l’istruzione pubblica, anche inviando in scuole ed università europee ed americane dei giovani che potessero poi cominciare a costituire una nuova classe dirigente. In realtà, il Paese – governato da un regime assolutista e da un clero ignorante e superstizioso – era povero ed arretrato, vi si praticavano il latifondo e la schiavitù.

Ma gli avvenimenti internazionali stavano precipitando. Il 7 gennaio 1935, a Roma, veniva firmato tra Italia e Francia un gruppo di accordi che regolavano, tra le altre cose, lievi rettifiche di confine a vantaggio della Libia e dell’Eritrea (colonie italiane) e l’impegno francese di non avere in Etiopia che l’obiettivo di difendere gli interessi economici connessi con il traffico della ferrovia di Gibuti. Intanto era accaduto, il 4 dicembre 1934, un accanito combattimento tra la scorta etiope della Commissione anglo-etiopica per la delimitazione della frontiera in Somalia ed il presidio italiano del fortino di Ual ual. Una commissione arbitrale appositamente costituita e presieduta dal giurista greco Nicola Politis attribuì nel settembre successivo l’intera responsabilità alle bande etiopi.

Il 3 ottobre 1935 le truppe italiane comandate da De Bono (poi sostituito dal Maresciallo Badoglio) varcarono i confini tra Eritrea ed Etiopia, mentre dalla Somalia si mosse il Generale Graziani; il 5 maggio, il tricolore sventolava su Addis Abeba mentre il Negus fuggiva in Europa e lanciava alla Società delle Nazioni a Ginevra un appello, rimasto inascoltato.

L’Etiopia venne dichiarata annessa all’Italia già il 9 maggio, e subito iniziarono i lavori per una rapida modernizzazione del Paese: abolizione del latifondo e della schiavitù, coltivazione di migliaia di ettari di terreno prima inutilizzati, costruzione di 4.500 chilometri di strade camionabili (tuttora in uso), oltre ad importanti edifici pubblici, scuole, chiese, ospedali, abitazioni, impianti industriali, centrali elettriche. Sporadiche, ma violente rivolte di bande locali furono represse con brutalità.

Tuttavia il Governo ebbe breve durata, perché il 5 maggio 1941, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, le autorità militari inglesi reinsedieranno sul trono Hailè Selassiè, che introdusse nuovamente la schiavitù riportando il Paese all’assolutismo di un tempo.


Dall’Impero al «Terrore rosso»

Gli ultimi quattordici anni del Regno dell’Imperatore Hailè Selassiè si contraddistinsero per una crescente opposizione al suo Governo. Dopo un fallito colpo di Stato del 1960, l’Imperatore aveva cercato di accattivarsi il favore dei simpatizzanti il golpe attraverso una serie di riforme, concretizzatesi soprattutto nel trasferimento di proprietà terriere agli ufficiali della polizia e dell’esercito, senza un coerente modello di sviluppo sociale ed economico.

Nel 1966 il Governo progettò l’applicazione di un moderno sistema di tassazione, che avrebbe comportato la registrazione di tutte le terre, con la finalità di indebolire il potere della nobiltà terriera. Alla fine degli anni Sessanta il Parlamento, composto prevalentemente da proprietari terrieri, bocciò la riforma, adottando, invece, una tassa sulla produzione agricola. Nonostante l’imposta approvata dal Parlamento divergesse totalmente dalla proposta iniziale dell’Esecutivo, essa provocò la rivolta dei proprietari terrieri nel Gojam, sollevazione che si concluse solo nel 1969, dopo che il Governo Centrale ebbe ritirato le sue truppe, disapplicato la nuova tassa e cancellato gli arretrati dovuti per il mancato pagamento delle imposte dal 1940.

All’interno del Paese si innescò un aspro confronto tra le forze tradizionali refrattarie al cambiamento, tra cui l’Imperatore, e le forze che premevano per una profonda trasformazione della società etiope, come gli studenti e i contadini. Sviluppatesi a partire dal 1965, le dimostrazioni studentesche focalizzavano le loro richieste sulla necessità di ampliare la riforma sulla proprietà terriera per combattere la corruzione e il rialzo dei prezzi. Allo stesso tempo, le rivolte dei contadini furono particolarmente numerose nelle province meridionali, dove il Governo Imperiale aveva tradizionalmente ricompensato i propri sostenitori con donazioni di terreni.

Hailè Selassiè

Il Negus Hailè Selassiè, circa 1971

All’inizio del 1974, l’Etiopia attraversò una fase di profondo cambiamento che sconvolse il suo assetto politico, economico e sociale.

All’instabilità sociale, accresciuta nella prima metà degli anni Settanta, si erano aggiunte la carestia e la siccità. Nel contempo, l’Imperatore era ritenuto responsabile degli squilibri politici e sociali.

La mancata riforma agraria, la corruzione dilagante, la crescente povertà, l’inefficienza amministrativa della rigida burocrazia, le inconsistenti promesse dell’Imperatore di concedere riforme istituzionali ed economiche per liberalizzare il Paese divennero elementi fondamentali per il deflagrare della rivoluzione.

Dal punto di vista delle relazioni internazionali, è interessante notare come gli Stati Uniti, intenzionati a prendere le distanze dalla complicata situazione del Corno d’Africa, avessero interrotto la fornitura di aiuti finanziari e militari all’Etiopia.

Il ruolo dei militari nella rivoluzione fu molto importante, infatti essi si posero alla guida di un movimento che soppiantò le élite cittadine favorevoli all’instaurarsi di una moderna democrazia parlamentare.

Alla vigilia della rivoluzione le forze armate etiopi erano divise in svariate fazioni, frazionamento favorito dall’Imperatore per prevenire che una persona o un gruppo divenissero troppo influenti. Le forze armate si differenziavano in questo modo: la Guardia Imperiale, ricostituita dopo il fallito colpo di Stato del 1960; l’esercito territoriale, al suo interno diviso in svariate fazioni, di cui la più influente era quella denominata degli «Esiliati», costituita dagli ufficiali che avevano seguito l’Imperatore dopo l’invasione italiana; le forze aeree. Inoltre, gli ufficiali diplomati all’Accademia Militare di Harer si opponevano a quelli del Centro di Addestramento di Holeta.

La rivoluzione ebbe inizio con l’ammutinamento della quarta armata dell’esercito territoriale a Negele, nella provincia meridionale di Sidamo, il 12 gennaio del 1974. I soldati protestavano per la difficile condizione economica, soprattutto per la scarsità di viveri e acqua potabile. In un breve lasso di tempo il malcontento esistente nella società etiope prese il sopravvento, coinvolgendo, oltre i militari di altre province dell’Impero, i lavoratori, gli studenti e gli insegnanti, particolarmente questi ultimi premevano per una riforma dell’educazione, migliori condizioni di lavoro e aumenti salariali. È interessante osservare come la richiesta di un diverso sistema politico, che desse maggiori garanzie di partecipazione alla vita politica, fosse l’ultima delle richieste delle opposizioni.

I progressivi ammutinamenti delle forze armate e il malcontento incontenibile della popolazione spinsero il Primo Ministro Aklilu a rassegnare le dimissioni, sostituito nel febbraio dello stesso anno da Mekonnenen Endalkatchew, il cui Governo sarebbe durato solamente fino al 22 luglio. Il nuovo Governo rifletteva la decisione dell’Imperatore di minimizzare il cambiamento; il nuovo Gabinetto, per esempio, rappresentava tutte le famiglie nobili dell’Etiopia.

Inoltre, l’Assemblea Costituzionale non comprendeva nessun rappresentante dei gruppi che premevano per il rinnovamento. Il Governo palesava una base piuttosto fragile, capace di assicurare solo momentaneamente una continuità politica.

L’Esecutivo evitò di introdurre delle riforme sostanziali sia nel campo dell’educazione sia in quello dell’economia, limitandosi ad aumentare i salari dei militari, di cui cercava di ottenere l’appoggio, e a controllare maggiormente i prezzi e l’inflazione.

L’operato del Governo per ingraziarsi i militari non fu totalmente vano, poiché tra le forze armate si formò una frangia che ne appoggiava l’azione politica, alla cui guida vi era il colonnello Zewd Alem che, con il beneplacito del Primo Ministro, costituì l’Armed Forces Coordinating Commitee (AFCC). Agendo con l’approvazione del Primo Ministro, il colonnello Alem arrestò un numero considerevole di ufficiali scontenti delle Forze dell’aeronautica.

Nel giugno del 1974, molti giovani ufficiali, che non approvavano l’operato del colonnello Alem e intendevano fare pressioni per ottenere maggiori riforme, lasciarono l’AFCC, chiedendo, inoltre, che ogni unità militare e di polizia inviasse tre rappresentanti ad Addis Abeba per organizzare ulteriori iniziative politiche. Alla fine di giugno, un gruppo di 120 militari, nessuno dei quali aveva un grado superiore a quello di maggiore e la cui maggioranza rimase anonima, si organizzò in un nuovo corpo, il Coordinating Commitee of the Armed Forces, Police and Territorial Army, presto conosciuto come Derg, una parola amarica che significa Comitato o Consiglio. I maggiori Hailè Mariam Menghistu e Abate Atnafu furono eletti rispettivamente Presidente e Vicepresidente.

Menghistu

Menghistu Hailè Mariàm

Questo gruppo di uomini mantenne una forte posizione di potere per quanto concerneva l’assetto politico e militare dell’Etiopia per gli anni a seguire. L’identità del Derg non subì cambiamenti dopo l’incontro del 1974, sebbene l’insieme dei membri diminuisse drasticamente negli anni successivi per l’eliminazione fisica di alcuni ufficiali, poiché non vi furono mai nuove ammissioni nei suoi ranghi. Oltre a ciò, i suoi componenti e le sue deliberazioni rimasero quasi completamente sconosciute.

All’inizio, gli ufficiali del Derg esercitarono il loro potere dietro le scene, solo più tardi, durante la fase del Provisional Military Administrative Concil, i leader emersero dall’anonimato esercitando «de facto» un potere personale.

Dato che i suoi componenti rappresentavano l’intero establishment militare, il Derg riuscì ad esercitare un potere reale e a mobilitare le truppe su suo ordine. La prima finalità del Derg era privare il Governo dell’Imperatore di ogni strumento per esercitare il potere esecutivo; furono così arrestati esponenti dell’aristocrazia, militari e politici strettamente collegati al Monarca e al vecchio ordine.

Nel luglio del 1974, il Derg ottenne cinque concessioni dall’Imperatore: il rilascio di tutti i prigionieri politici; il rientro degli esiliati; la promulgazione di una nuova Costituzione; l’assicurazione che il Parlamento si sarebbe riunito in sessione per completare le azioni sopra menzionate; la garanzia che il Derg avrebbe coordinato, in stretta collaborazione con il Governo, tutte le operazioni. Il Derg aveva assunto la leadership dell’azione politica, in ciò largamente influenzato da un acceso dibattito pubblico sul futuro della Nazione, facendo anche in modo che il Primo Ministro Endalkatchew si dimettesse, sostituito da Imru Mikael, un aristocratico con la reputazione di liberale.

L’agenda politica del Derg non prevedeva una Monarchia Costituzionale, infatti la nuova Costituzione che ne presumeva l’istituzione fu rigettata prima dell’approvazione.

Dal punto di vista della propaganda, il Derg delegittimò la figura del Sovrano, accusandolo di aver coperto la drammatica carestia che aveva colpito le province di Welo e del Tigray agli inizi degli anni Settanta. Nello stesso tempo, il Derg fece in modo di isolare il Monarca arrestando il comandante della Guardia Imperiale e privandolo di ogni strumento politico.

L’Imperatore, ufficialmente deposto e arrestato il 12 settembre, era troppo anziano e malato per resistere.

Tre giorni dopo la deposizione di Hailè Selassiè, il Derg si trasformò nel Provisional Military Administrative Council (PMAC), la cui Presidenza fu affidata al Generale Aman Mikael Andom.

Il PMAC si auto-proclamò Organo di Governo della Nazione.

La figura del Generale Aman merita un approfondimento; uomo conosciuto, comandante popolare ed eroe della guerra contro la Somalia del 1960, egli si impegnò fortemente per riformare il sistema imperiale, trovandosi immediatamente in disaccordo con i componenti del Derg su tre importanti questioni: la composizione e il ruolo del Derg; l’insurrezione in Eritrea; il destino dei prigionieri politici. Andom riteneva che il Derg fosse troppo numeroso per funzionare efficacemente come Organo di Governo; in quanto Eritreo, egli era favorevole ad una riconciliazione con gli insorti; era contrario alla pena di morte per i componenti del Governo precedente e per gli ufficiali arrestati dall’inizio della rivoluzione.

Il Derg fu immediatamente osteggiato da quei gruppi di civili, specialmente studenti e lavoratori, che chiedevano la formazione di un Governo di unità nazionale in cui tutte le varie organizzazioni del Paese fossero rappresentate. Queste richieste trovarono ascolto presso un gruppo di ingegneri dell’esercito e ufficiali dell’aeronautica, successivamente arrestati su ordine del Derg.

Nella fazione più radicale del Derg era emersa con forza la figura del maggiore Hailè Mariam Menghistu che, accusato il Generale Andom di «tendenze dittatoriali», lo destituì e ne organizzò l’eliminazione fisica con l’assalto alla sua abitazione.

Il 23 novembre 1974, il «sabato di sangue», vide la morte non solo del Generale Andom, ma anche dei precedenti Primi Ministri Aklilu, Endalkatchew, del colonnello Alem Zewd e del Generale Abiye Abebe, genero dell’Imperatore e Ministro della Difesa sotto Endalkatchew, e di 60 prigionieri politici.

Dopo gli avvenimenti del «sabato di sangue», il Generale Taferi Bante, una figura esterna al Derg di cui era solo portavoce, divenne Presidente del PMAC e nuovo Capo di Stato.

Il vecchio Imperatore, che viveva sotto una strettissima sorveglianza, fu sottoposto ad una indagine sulle sue ricchezze personali da parte di una Commissione militare; la stima esagerata di un patrimonio complessivo di 15.693.297.000 dollari fu redatta ad arte per screditarne la figura agli occhi della popolazione. Hailè Selassiè morì in circostanze rimaste misteriose il 27 agosto 1975, dopo un’operazione alla prostata.

A livello formale, il maggiore Menghistu divenne Vicepresidente del PMAC, ma nella realtà aveva intrapreso un percorso per allargare e potenziare la sua base di potere.

Alla fine del 1974, il Derg dichiarò pubblicamente il nuovo orientamento socialista rivoluzionario dello Stato Etiopico, annunciando una riforma agraria, la nazionalizzazione di tutte le terre, il divieto del lavoro salariato e l’istituzione di associazioni contadine. Tale dichiarazione portava il Paese nell’orbita sovietica.

È interessante osservare come i problemi legati all’integrità del territorio etiope non scomparvero con la rivoluzione, ma si aggravarono, infatti, anche se il Derg aveva rovesciato l’Impero, riaffermò con forza le ragioni dell’integrità territoriale contro le aspirazioni secessioniste, riproponendo un tema cardine dell’ideologia politica imperiale. È importante ricordare che l’Eritrea era stata annessa nel 1962 da Hailè Selassiè con un colpo di mano come quattordicesima provincia dell’Impero Etiopico.

Non persisteva, tuttavia, solo il problema dell’Eritrea, giacché in 8 delle 14 province in cui era diviso il Paese vi erano agitazioni da parte di movimenti autonomisti o secessionisti. La situazione sfociò ben presto in una guerra civile; alla metà del 1976 si formò il Partito Rivoluzionario del Popolo Etiopico (PRPE), di ispirazione marxista ma in opposizione alla dittatura del Derg. La decisione del PRPE di aprire le ostilità armate, provocò, tra il 1976 e il 1978, l’azione repressiva del Derg che eliminò sistematicamente gli oppositori. Una dura repressione colpì anche la Confederation of Ethiopian Labor Unions (CELU), colpevole di aver richiesto maggiori libertà democratiche. Il CELU fu sostituito dall’AETU, All-Ethiopia Trade Union, sotto il pieno controllo governativo.

Tale periodo ebbe il nome di «Terrore rosso». Non c’è un giudizio unanime sul numero delle vittime del «Terrore rosso», tuttavia la stampa internazionale denunciò migliaia di esecuzioni e fra gli 80 e i 100.000 prigionieri politici.

Nel 1977, dopo aver eliminato gli oppositori all’interno del Derg, Menghistu conquistò tutti i poteri, grazie anche agli aiuti di Cuba e dell’Unione Sovietica.

Riguardo ai rapporti con i Paesi Africani confinanti, l’intransigenza verso la questione eritrea aveva inasprito le relazioni con il Sudan e la Somalia, entrambi facenti parte della Lega Araba, che sosteneva apertamente i diritti all’autodeterminazione dell’Eritrea, nella prospettiva di un’egemonia araba sulla regione.

L’anno 1977 vide l’emergere di un nuovo problema per il regime di Menghistu, infatti la Somalia invase l’Ogaden, territorio di confine con l’Etiopia, abitato in larga parte da popolazioni nomadi e di lingua somala. Strumento di lotta era il Western Somali Liberation Front (WSLF) che, dagli inizi di febbraio, aveva cominciato ad attuare una guerriglia nella regione approfittando dei dissidi e delle lotte all’interno del Derg. Il WSLF era supportato, per quanto concerneva la logistica e l’equipaggiamento, direttamente dal Governo Somalo di Siad Barre.

Grazie al diretto appoggio della Somalia, il WSLF era riuscito ad impadronirsi della maggior parte del territorio dell’Ogaden già nella prima metà del 1977.

Nel settembre dello stesso anno, l’intensificarsi delle ostilità nella città di Jijga spinse il Governo Etiope a denunciare apertamente il supporto dell’esercito regolare somalo (SNA – Somali National Army) al WSLF, ottenendo come risposta dalla Somalia un’ammissione ufficiale del suo sostegno morale, materiale e logistico alla guerriglia.

La caduta della città di Jijga portò il regime di Menghistu a chiedere, ed ottenere, l’aiuto dell’Unione Sovietica, desiderosa di ampliare la propria influenza nell’area. Il supporto dell’Unione Sovietica, insieme a quello cubano, cambiò lo svolgimento delle ostilità, conducendo alla sconfitta delle forze del WSLF nell’Ogaden. Nel processo di eliminazione della guerriglia del WSLF, Addis Abeba era divenuta un cliente delle forniture militari di Mosca e dell’Avana, causando un disequilibrio nel complesso gioco delle parti nel Corno d’Africa, poiché gli Stati Uniti avevano sostenuto indirettamente la Somalia durante il conflitto dell’Ogaden.

La decelerazione del processo di distensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica stava favorendo il nascere di conflittualità periferiche, con un aggravamento delle crisi, sempre più tendenti a divenire croniche. Il contesto internazionale lasciava intravedere la difficoltà di ricomporre un ordine mondiale stabile.

Nel 1977, il regime di Menghistu si trovò ad affrontare nuove insurrezioni in Eritrea e nel Tigray, non riuscendo, nonostante l’aiuto militare sovietico, a mantenerne a lungo il controllo, tanto che alla fine del 1987 le organizzazioni secessioniste si erano insediate sul 90% del territorio di entrambe le regioni.

È importante osservare come, nonostante Addis Abeba avesse sviluppato una relazione molto stretta con l’Unione Sovietica, quest’ultima riscontrasse delle difficoltà nel lavorare con Menghistu e con il Derg. Queste difficoltà erano dovute alla costante preoccupazione del Derg per i problemi interni e alle variazioni pratiche che l’Etiopia applicava alla teoria marxista-leninista per la formazione di uno Stato Socialista. Un’altra questione aperta era la natura militare del Governo del Derg.

Per mantenere l’appoggio dell’Unione Sovietica, nel 1979 il Derg formò la Commission to Organize the Party of the Workers of Ethiopia (COPWE), con Menghistu come Presidente. Durante il secondo congresso del COPWE, nel gennaio del 1983, fu annunciato che tale organo sarebbe divenuto un vero Partito Comunista. In effetti, nel settembre del 1984, fu annunciata la formazione del Workers’ Party of Ethiopia (WPE).

Menghistu non era stato sempre favorevole alla costituzione di un Partito Comunista, tuttavia l’instabile situazione politica e militare del suo regime lo aveva spinto ad accettarne la formazione per ottenere un più forte controllo sulla popolazione e assicurarsi una maggiore legittimazione.

La formazione di organizzazioni di massa come l’All-Ethiopia Trade Union, l’All-Ethiopia Urban Dwellers’ Association, l’All-Ethiopia Peasants’ Association, precedette la formazione del COPWE, divenendo utile strumento per neutralizzare un nazionalismo troppo rigido.

Il primo compito del WPE fu ridisegnare la Costituzione dell’Etiopia. Nel marzo del 1986, una Commissione Costituzionale formata da 343 membri si riunì per redigere una Carta Costituzionale ispirata ai principi del socialismo.

La nuova Costituzione fu sottoposta a referendum il 1° febbraio del 1987, ottenendo l’approvazione del 96% degli aventi diritto al voto.

La Costituzione fu effettiva dal 22 febbraio, quando fu proclamata la People’s Democratic Republic of Ethiopia (PDRE), la Repubblica Popolare Democratica d’Etiopia.

La Costituzione si componeva di 17 capitoli e 119 articoli; il preambolo tracciava la storia dell’Etiopia dalle origini, esaltando lo storico eroismo della sua popolazione. Alcuni critici argomentarono che la nuova Costituzione etiopica non era altro che una versione abbreviata della Costituzione sovietica del 1977, con l’unica eccezione del forte potere assegnato all’Ufficio del Presidente. Un’altra differenza concerneva la dichiarazione di unitarietà dello Stato Etiopico rispetto alla Confederazione di Repubbliche dell’Unione Sovietica; il problema delle nazionalità era stato fortemente dibattuto all’interno della Commissione Costituzionale, ma il regime non aveva abbandonato l’idea di creare un singolo Stato multietnico invece che uno Stato Federale.

Le sezioni più importanti della Costituzione riguardavano l’organizzazione e l’operato del Governo Centrale. In queste sezioni si descrivevano i vari Organi dello Stato e le loro relazioni reciproche.

Il supremo Organo dello Stato era l’Assemblea Nazionale, conosciuta anche come National Shengo. Le sue prerogative concernevano la possibilità di emendare la Costituzione; determinare la politica estera e la difesa; stabilire i confini e lo status delle Regioni; approvare i piani economici. L’Assemblea Nazionale era, inoltre, responsabile della formazione del Consiglio di Stato; della nomina del Consiglio dei Ministri, delle Commissioni statali e delle Autorità statuali; della nomina dei componenti della Corte Suprema; dell’Ufficio del Procuratore Generale; del National Workers’ Control Committee; dell’Ufficio del Revisore Contabile Generale. Il National Shengo eleggeva il Presidente e gli Ufficiali del Consiglio di Stato.

Il Consiglio di Stato, composto dal Presidente della Repubblica, da alcuni Vicepresidenti e da un Segretario, era un Organo del National Shengo e svolgeva un ruolo legislativo quando l’Assemblea Nazionale non era riunita in sessione. Inoltre, in circostanze di particolare instabilità e tra una sessione e l’altra del National Shengo, il Consiglio di Stato poteva proclamare lo stato di emergenza, la guerra, la Legge Marziale, la mobilitazione o la pace.

La figura del Presidente merita una particolare attenzione, poiché, anche se teoricamente avrebbe dovuto esercitare un potere legislativo insieme al Consiglio di Stato, costituiva la parte più influente del Governo, potendo agire con una considerevole autonomia dal National Shengo.

Sebbene la Costituzione affermasse che il Presidente era responsabile davanti all’Assemblea Nazionale, Menghistu dimostrò ripetutamente come non vi fosse alcuna autorità superiore alla sua. La Legge stabiliva che dovesse presentare i membri del suo staff esecutivo e la Corte Suprema al National Shengo per l’elezione, tuttavia in particolari circostanze di pericolo il Presidente poteva nominare o far dimettere il Primo Ministro, gli altri Ministri e i Membri del Consiglio dei Ministri; il Presidente, il Vicepresidente e i Giudici della Corte Suprema; il Procuratore Generale; il Presidente del National Workers’ Control Committee; il Revisore Contabile Generale.

Il Presidente era comandante in capo delle forze armate, responsabile per la politica interna ed estera, per la stipula di trattati e l’invio di missioni diplomatiche.

Nella pratica, il Presidente Menghistu sceglieva liberamente gli uomini per gli incarichi senza alcun input da parte del National Shengo o del WPE o del Consiglio di Stato.

La carica presidenziale aveva una durata di cinque anni, senza alcun limite per le rielezioni.

Verso la fine degli anni Ottanta, lo Stato Etiopico dovette affrontare importanti crisi, quali la carestia e la siccità del quadriennio 1984-1988, il collasso economico, le sconfitte militari in Eritrea e Tigray, che portarono inesorabilmente alla fine del regime di Menghistu.

È importante riflettere anche su un altro elemento, di politica estera, che fu determinante per la fine della dittatura del Derg: la fine dell’incondizionato supporto militare ed economico dell’Unione Sovietica. Il cambiamento fu in buona parte causato dalla nuova politica estera inaugurata da Michail Gorbaciov, che non presupponeva più un incondizionato appoggio al regime di Menghistu, di cui disapprovava la conduzione degli affari interni e la cattiva gestione degli aiuti economici forniti. Inoltre, «i venti di democrazia» che spiravano nella maggior parte dei Paesi Comunisti facevano presagire che l’Etiopia non avrebbe potuto contare ancora a lungo sul sostegno di Mosca e dei Paesi Comunisti dell’Europa Orientale.

I mancati aiuti sovietici si rilevarono essenziali per accelerare la fine della dittatura, infatti senza di essi era impossibile per il regime fronteggiare l’insurrezione in Eritrea e le altre opposizioni interne.

Dalla fine del 1989 era evidente che il Governo aveva fallito nel consolidare il suo ruolo; la siccità e la carestia, gestite disastrosamente, congiunte ad una pesante sconfitta militare in Eritrea e Tigray avevano fatto sì che il suo controllo sul territorio nazionale fosse molto limitato.

In aggiunta, numerose opposizioni, tra le quali primeggiavano l’Eritrean People’s Liberation Front (EPLF) e il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) che operavano insieme ad altre organizzazioni anti-governative nell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front, avevano intrapreso una dura lotta armata contro il regime.

Nel 1991, l’EPLF riuscì a scacciare dai confini dell’Eritrea le truppe etiopi, unendosi successivamente con gli altri gruppi per rovesciare la dittatura di Menghistu che cadde nello stesso anno.

Menghistu, fuggito in Zimbabwe dove risiede ancora oggi grazie all’appoggio del Presidente Robert Mugabe, è stato condannato a morte in contumacia nel 2008 dalla Corte Suprema dell’Etiopia per il reato di genocidio.

L’Eritrea divenne quindi uno Stato Indipendente, anche se persistettero delle questioni territoriali irrisolte con l’Etiopia, che nemmeno il Trattato di Algeri del 2000 è riuscito a definire risolutivamente.

Negli anni successivi, l’Etiopia ha iniziato, ma non ancora completato, un difficile cammino per divenire uno Stato realmente democratico, in cui libertà fondamentali, come quella di stampa, siano effettivamente garantite e rispettate.

L'Etiopia

L'Etiopia oggi

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(ottobre 2015)

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