Etnia e politica nella storia dell’Afghanistan
Come le distinzioni etniche hanno determinato la storia politica afghana

In Afghanistan la debolezza delle Istituzioni statuali si lega ad una leadership politica fondata quasi esclusivamente sul carisma dei leader e sulla loro appartenenza etnica. Le difficoltà attuali dell’Afghanistan traggono la loro origine da una storia nazionale in cui la rivalità etnica si è trasposta nell’arena politica, determinando uno Stato debole, oggetto delle interferenze dei Paesi confinanti.

Donald Horowitz sostiene, in Ethnic Groups in Conflict, che praticamente tutti gli eventi politici hanno conseguenze etniche nelle società in cui l’appartenenza tribale permea la vita organizzativa. Horowitz continua affermando che dove i partiti si dividono secondo linee etniche le elezioni sono divisive, le forze armate sono frammentate etnicamente, avvengono sovente colpi di Stato militari, e interi sistemi di relazioni economiche sono cristallizzati intorno alle opportunità offerte e imposte dalla politica governativa, in particolare, dalle etnie dominanti. Questo è sicuramente il caso dell’Afghanistan.

Il presente contributo intende studiare le dinamiche etniche e politiche che hanno caratterizzato la storia dell’Afghanistan e che ancora oggi rendono difficile la sua trasformazione in un Paese dotato di solide strutture statuali.

Per una comprensione della storia politica dell’Afghanistan è opportuno analizzare primariamente la composizione etnica del Paese. L’Afghanistan ha al suo interno decine di gruppi etnici, di cui quattro rappresentano la maggioranza della popolazione: pashtun, tagichi, uzbechi e hazara. Ogni gruppo etnico ha una propria storia, cultura, esperienza e percezione unica della sua condizione nel suo territorio di appartenenza.

I pashtun sono la comunità etnica più grande, raggiungendo il 32-42% dell’intera popolazione, seguiti dai tagiki, al 27%. Gli uzbechi e gli hazara rappresentano il 9% della popolazione, il restante 13% è diviso tra comunità più piccole. Le stime sulla popolazione differiscono ampiamente a causa delle politiche governative e delle controversie tra i diversi gruppi etnici.

Vi è una correlazione sostanziale tra la dimensione demografica del gruppo e il suo controllo sullo Stato, infatti, maggiore è la dimensione del gruppo, maggiore è la possibilità di mantenere il potere sull’amministrazione e sulle istituzioni politiche. Contrariamente, minore è la dimensione del gruppo, tanto meno è probabile che il gruppo etnico ricopra posizioni amministrative e governative. Per esempio, i pashtun sono il più grande gruppo etnico in Afghanistan e detengono posizioni governative chiave, compresa la Presidenza.

L’Afghanistan non ha avuto dei conflitti su base religiosa, nonostante alla diversità etnica si accompagni una difformità religiosa; infatti, circa l’80% della popolazione afghana è musulmana sunnita, il 19% è sciita, e l’1% è rappresentato da indù ed Ebrei. L’Islam in Afghanistan abbraccia una vasta gamma di credenze. I principali gruppi etnici sono prevalentemente sunniti, ad eccezione degli hazara che sono sciiti. Una parte degli Afghani segue la tradizione Sufi, una tradizione islamica che favorisce i valori della tolleranza e della coesistenza pacifica con le altre religioni.

A livello comunitario, questi gruppi religiosi non hanno mai combattuto l’uno contro l’altro. Tuttavia, a livello statale, Abdurrahman Khan (1880-1901) iniziò una lotta contro alcune tribù pashtun e gli hazara.

I pashtun sono il più grande gruppo etnico in Afghanistan. Storicamente, i pashtun erano divisi in tribù, tra le quali le più importanti furono le tribù Durrani e Ghilzai. Dal punto di vista linguistico, la lingua utilizzata è il pashtu. Vi è un ampio consenso tra gli storici sulla patria originaria dei pashtun, che si trovava tra il fiume Indo nel Nord dell’India e i fianchi dell’Himalaya. In un primo tempo, i pashtun si erano mossi verso le aree a Sud e a Sud-Est, poi nel XVIII e XIX secolo si stabilirono nelle zone Nord e Nord-Orientali dell’attuale Afghanistan. Il nazionalismo, inteso come una forte concezione dell’identità etnica pashtun, è molto forte, infatti l’obbedienza e la fedeltà ai leader tribali sono sempre state più importanti della lealtà verso il Governo Centrale.

Nonostante non rappresentino la maggioranza della popolazione, i pashtun hanno da sempre svolto un ruolo principale nel panorama socio-politico del Paese. Nel corso della storia dell’Afghanistan, i pashtun hanno avuto la forte convinzione di essere gli unici governanti del Paese, per questo hanno favorito la formazione di uno Stato centralizzato.

I tagichi costituiscono il secondo gruppo etnico del Paese e sono tradizionalmente rivali dei pashtun per il potere e il prestigio. Essi non sono organizzati in tribù e si riferiscono a loro stessi a seconda delle regioni e delle provincie da cui provengono. A differenza dei pashtun, il nazionalismo non è molto forte tra i tagichi. Generalmente, vivono nella città di Kabul, nel Nord e nel Nord-Est delle provincie dell’Afghanistan. Molti tagichi si trovano nelle montagne centrali, ed anche nel Sud, come nella città di Kandahar, e nel Sud-Est, nelle provincie di Hellmand. I tagichi parlano la lingua persiana dari, che è la lingua comune più utilizzata dai gruppi etnici afghani. Solitamente, il termine tajik è stato utilizzato nelle interazioni sociali solo in senso negativo per definire qualcuno che non appartiene ad un categoria etnica definita, non un pashtun, non un hazara. In pratica, la categoria etnica dei tagichi si applica al gruppo residuo di tutti gli abitanti sunniti di lingua persiana, abitanti dei villaggi o delle città, senza una conoscenza genealogica e senza una storia condivise. La mancanza di un passato condiviso si è rivelata essere il principale ostacolo ai tentativi politici di creare una identità e una coscienza tagiche.

Il terzo più grande gruppo etnico è quello degli uzbechi, un gruppo etnico turco, che vive nelle aree settentrionali e nel Nord-Est dell’Afghanistan. Il gruppo sociale degli uzbeki ha una struttura patriarcale e i dirigenti hanno il titolo di Beg, Arbab o Khan e godono di un notevole potere.

Il gruppo degli hazara parla una lingua persiana, il dari. La maggioranza degli hazara è musulmana sciita. Alcuni studiosi affermano che gli hazara hanno un’ascendenza mongola, a causa della somiglianza delle caratteristiche fisiche e culturali con quelle mongole, mentre altri propendono per l’origine persiana. Essi hanno una grande percezione della propria identità etnica.

In generale, tutti i gruppi etnici hanno legami culturali o religiosi al di là dei confini dell’Afghanistan. Gli uzbechi, che hanno dei legami con gruppi etnici turchi come turkmeni e kazaki, sono concentrati nella regione dell’Afghanistan Settentrionale chiamata Turkistan. Prima del 1880, gli uzbechi vivevano in modo semi indipendente sotto i propri beg, governanti, fino a che non furono gradualmente conquistati dagli emiri pashtun dell’Afghanistan che estesero il loro dominio sul Turkistan. Nell’Afghanistan Settentrionale, gli uzbechi avevano stretti legami culturali e linguistici con l’Uzbekistan, e i turkmeni condividevano la stessa lingua e relazioni etniche con il Turkmenistan, tuttavia nessuno dei due gruppi etnici aveva stretti contatti con questi due Stati, che rimasero lontani dall’instabilità politica e dal complesso contesto interno dell’Afghanistan. La stessa situazione riguardava i tagiki sul confine Nord Occidentale del Tagikistan. Con l’accordo di Durand, i pashtun, il più grande gruppo etnico del Paese, furono divisi sulle frontiere orientali tra Afghanistan e Pakistan. Quando l’Inghilterra creò lo Stato dell’Afghanistan utilizzò la nobiltà pashtun come parte integrante del progetto di rendere omogeneo, dal punto di vista etnico, il Paese.

Gli hazara erano l’unico gruppo etnico che risiedesse nei confini dell’Afghanistan, negli altipiani di Bamyan e dintorni. Tuttavia, gli hazara hanno sempre avuto forti e stretti legami con il regime sciita in Iran.

La popolazione del Paese è in gran parte di religione musulmana sciita e sunnita, ma segmentata in modo complesso su basi etniche, regionali e settarie. L’Afghanistan è una Nazione estremamente differenziata, a causa dei molteplici gruppi etnici. Storicamente, il Paese è stato il collegamento tra l’Asia Centrale, il Medio Oriente e il Sub-Continente Indiano, pertanto esso è composto da nazionalità diverse. Ogni gruppo etnico ha la propria lingua e i membri dei gruppi etnici possono essere facilmente riconosciuti dal loro linguaggio. Vi sono due lingue ufficiali, pashtu e dari, ma dato che il pashtu è molto difficile da pronunciare e leggere, è raro che i non pashtun riescano a capirlo bene. Nonostante ciò, è una lingua ufficiale a causa della predominanza del gruppo etnico pashtun nella guida del Paese. Il dari, d’altra parte, è stato da sempre il linguaggio interetnico dell’Afghanistan, una lingua che tutte le etnie possono usare facilmente per comunicare. Inoltre, il dari è servito come lingua franca della regione sia negli istituti educativi sia in quelli amministrativi. Oltre al pashtu e al dari, l’uzbeko, il turkmeno e il baluchi sono lingue riconosciute dell’Afghanistan nei territori in cui sono parlate.

Una particolare importanza riveste il contesto geografico regionale. I Paesi vicini, come Pakistan, Iran, India, Russia, Arabia Saudita e Tagikistan hanno da sempre giocato un ruolo chiave nell’instabilità dell’Afghanistan, poiché hanno manipolato le questioni etniche, religiose, linguistiche e tribali a loro vantaggio.

La nascita di un Afghanistan indipendente è tipicamente datata dall’inizio del potere di Ahmad Shah Abdali. La morte improvvisa e violenta di Nadir Shah Afshar nel 1747, ultimo Re della tribù turca Afshar, fornì l’opportunità al suo comandante di fiducia di etnia pashtun, Ahmad Khan Abdali o Durrani, di creare un Governo indipendente a Qandahar. L’esperto antropologo Nazif Shahrani ha sottolineato come l’emergere dell’Afghanistan come soggetto politico autonomo a metà del XVIII secolo sia stato contiguo all’aumento del potere tribale pashtun nella scena nazionale. Shahrani sostiene che la sociologia della dominazione pashtun, rispetto alle altre comunità etniche, abbia costituito la sostanza stessa degli sviluppi politici della formazione statuale in Afghanistan.

Durante l’era di Ahmad Shah Durrani (1747-1772), lo Stato Afghano ha preso forma come un sistema monarchico basato su una confederazione tribale, un sistema governativo durato per due secoli, tuttavia, è importante notare che per la maggior parte del XVIII secolo lo Stato Afghano era nella fase pre-moderna, infatti le tasse erano considerate un omaggio e raccolte sotto forma di beni materiali piuttosto che in denaro, e i governanti, il più noto tra questi è stato Shah Shuja (1803-1809, 1839-1842), dipendevano da patronati esterni. La fine del XIX secolo ha visto il consolidamento del potere statuale sotto Amir Abdul Rahman Khan (1880-1901), specialmente per quanto concerneva la tassazione e il controllo del territorio.

Le frontiere politiche dell’Afghanistan furono stabilite dalla Gran Bretagna e dalla Russia Zarista nel 1893, con l’accordo della linea Durand. All’inizio del XIX secolo l’Impero Britannico e quello Russo cominciarono a mostrare interesse per il Paese, dando inizio a quello che è stato definito il «grande gioco». La rivalità tra Gran Bretagna e Russia costrinse Abdul Rahman Khan (1880-1901) ad intraprendere dei negoziati con gli Inglesi per concordare la demarcazione del confine orientale che separava l’India Britannica, l’attuale Pakistan, dall’Afghanistan. Khan e una delegazione britannica decisero di stabilire una linea di confine denominata linea Durand; sebbene i confini fossero stati concordati con un governante pashtun, in seguito i governanti di tale etnia rifiutarono di riconoscerne la validità. La linea ha separato i pashtun e gli altri gruppi etnici, generando una diffidenza in relazione alla demarcazione del confine tra Afghanistan e Pakistan. Si può affermare che i confini dell’Afghanistan siano stati manipolati per dividere i membri dei diversi gruppi etnici tra Stati differenti; ad esempio, lungo le frontiere settentrionali, le popolazioni musulmane del Turkistan che parlavano il turco o il tajik dell’Asia Centrale come uzbechi, turkmeni, kazaki e tagichi, furono divise.

L’etnicità ha da sempre svolto un ruolo importante, infatti, fin dalla instaurazione della monarchia è stato favorito un singolo gruppo etnico, quello pashtun, in modo da stabilire un Governo unitario. Shahrani sostiene che la trasformazione della struttura tribale e le differenze etniche abbiano frammentato i gruppi secondo direttrici etniche, linguistiche, e settarie, conseguenza diretta delle politiche governative di centralizzazione.

Le radici di questa politica etnica di discriminazione dei gruppi non pashtun non è coincisa con il regno di Abdul Rahman Khan dal 1880 al 1901, bensì è iniziata quando il Paese è divenuto uno Stato indipendente con Ahmad Shah Durrani. La strategia di Ahmad Shah per controllare il Turkistan, la regione del Nord, e l’Hazarajat, in cui vivevano gli hazara, era spingere i nomadi kuchi, di etnia pashtun, ad emigrare in questi territori e creare nuovi insediamenti. La politica di Ahmad Shah è divenuta il centro dell’azione politica dei Governi successivi, in particolare di Abdul Rahman Khan. Durante il regno di Abdul Rahman Khan, l’intolleranza etnica e l’oppressione degli altri gruppi etnici hanno raggiunto il loro culmine, con l’utilizzo di uomini delle tribù pashtun per reprimere la resistenza dei gruppi antagonisti, attraverso la confisca delle terre, i saccheggi e l’abbattimento del bestiame. Inoltre, grandi gruppi nomadi Durrani furono mobilitati dal Sud per occupare le ampie terre da pascolo appartenenti agli hazara nell’Afghanistan Centrale.

Al fine di stabilire un forte Stato centralizzato e mantenere la sovranità del Paese, l’Emiro utilizzò sia la religione sia l’etnia come strumenti di potere. Per esempio, si appoggio alla scuola dell’Islam sunnita per sopprimere gli hazara sciiti. Inoltre, si avvalse del codice tribale dei pashtun, pashtunwali, per prendere il controllo dei territori non pashtun. Abdul Rahman Khan reinsediò decine di migliaia di membri delle tribù pashtun dal Sud nelle aree strategiche del Turkistan Afghano, lungo i confini con i khanati dell’Asia Centrale sotto controllo russo zarista. In questo modo, gettò le basi per l’applicazione di una prassi politica che non era altro che una forma rudimentale di colonialismo interno gestito da un gruppo etnico dominante.

Le stesse politiche e prassi discriminatorie sono state seguite dai governanti successivi, anche se questi non disponevano della capacità e della determinazione di Rahman Khan. Infatti, il successore Habibullah fu assassinato nel 1919. Il figlio Amanullah, un riformatore molto più impegnato, cercò di attuare una rapida modernizzazione del Paese, ma di fronte all’opposizione crescente fu rovesciato nel 1929. Dopo un breve Governo non pashtun, il trono fu riconquistato da un aristocratico pashtun, Nadir Shah, e mentre il suo regno ebbe una durata esigua, dato che fu assassinato nel 1933, suo figlio di diciannove anni, Zahir Shah, occupò il trono per quasi quarant’anni prima di essere rovesciato da un colpo di Stato organizzato dal cugino Mohammad Daoud nel 1973. L’uccisione di Daoud durante il colpo di Stato comunista del 1978 pose fine al Governo dinastico.

Il sistema statuale di controllo da parte di un unico gruppo etnico o di una singola tribù rimase in vigore fino agli anni Sessanta, quando si aprì un breve intermezzo per una sperimentazione democratica, risultato dei cambiamenti istituzionali avvenuti tra il 1964 e il 1973. Fu durante questo periodo limitato che, per la prima volta nella storia del Paese, vi fu una qualche libertà di stampa e fu concesso ai partiti di svolgere una rudimentale forma di attività politica.

Nel tempo, l’Afghanistan divenne uno Stato «rentier», il cui bilancio era troppo dipendente da fonti di reddito instabili come gli aiuti esteri e i proventi derivanti dalla vendita di risorse naturali esauribili. Quando Zahir Shah divenne Re, una fetta importante delle entrate dello Stato proveniva dalle imposte sui terreni e la maggior parte delle spese era finanziata da fondi interni. All’inizio della cosiddetta «nuova democrazia» nel 1964, il 49% della spesa statale era finanziata da aiuti esteri. Il pericolo che si pone con la dipendenza da tali flussi di reddito deriva dalla loro instabilità; se le priorità dei donatori si spostano, le entrate possono diminuire. Allo stesso modo, se il prezzo mondiale di un’esportazione chiave diminuisce, le entrate provenienti della sua vendita possono decrescere drasticamente. Quando questo accade, è improbabile che lo Stato sia in grado di soddisfare le aspettative generate nella popolazione, il risultato può essere un declino della tenuta del Governo e della sua piena legittimità. Se ciò avviene, uno Stato deve avere una notevole forza per arginare la situazione di crisi, attingendo anche alla coercizione e ad altre forme di dominio non legittime per sopravvivere.

Lo Stato Afghano era fondamentalmente uno Stato debole: era una presenza onnipresente in molte parti del Paese, ma passiva e inefficiente. A volte, lo Stato centrale poteva concentrare il suo potere per conseguire degli obiettivi: ad esempio, la soppressione della rivolta dei pashtun safi nel 1947 o la repressione dell’insurrezione nel Purdah. Ma questa era l’eccezione piuttosto che la regola. Vi era una sostanziale separazione tra lo Stato e i suoi soggetti. I funzionari di Kabul non desideravano essere inviati nelle provincie, e molti abitanti delle zone rurali ritenevano i burocrati urbani impreparati sui loro modi di vita e sulle strutture tradizionali che servivano a regolare le relazioni sociali. La costruzione dello Stato Afghano non era stata pensata per penetrare e controllare le complesse aree rurali, un fatto che divenne dolosamente evidente con la crisi del 1978-1979.

Lo Stato Afghano era in qualche misura conforme all’ambiente geopolitico conflittuale che lo circondava. La linea Durand del 1893 suddivideva i pashtun dell’Asia Sud-Occidentale tra l’Afghanistan e l’India Britannica. Quando si verificò la partizione del Sub-Continente nel 1947, la richiesta di autodeterminazione dei pashtun dell’India non ebbe ascolto. Di conseguenza, l’Afghanistan fu l’unico Paese a votare contro l’ammissione del Pakistan alle Nazioni Unite, creando delle relazioni molto tese tra i due Stati per i successivi trent’anni. Per i pianificatori militari pakistani, lo scenario peggiore vedeva il loro Paese accerchiato da un’India e da un Afghanistan ostili, quindi, cercavano ogni opportunità per intervenire nello Stato vicino più debole, l’Afghanistan. In questa ottica, il rovesciamento della Presidenza di Daoud, e persino l’invasione sovietica dell’Afghanistan, fornivano l’opportunità che stavano cercando.

Il colpo di Stato comunista dell’aprile del 1978 sprofondò l’Afghanistan in un abisso sociale e politico da cui deve ancora emergere. Le sue cause furono diverse, ma è importante notare che all’inizio non era stato il prodotto di alcuna richiesta di cambiamento rivoluzionario da parte della popolazione afghana. Piuttosto, esso rifletteva una severa divisione nell’élite politica di Kabul. La genesi di questa divisione fu l’emergere di gruppi politici radicali durante la «nuova democrazia» nel periodo 1964-1973. Due gruppi marxisti, Khalq e Parcham, si erano consolidati e, nonostante la rivalità esistente, si erano uniti per formare il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan. Queste formazioni politiche si ispiravano al modello sovietico, e sebbene non vi siano prove credibili che l’Unione Sovietica abbia orchestrato il colpo di Stato di aprile, sembra che abbia ricevuto un preavviso; ciò non sorprende, dato che molti membri delle forze armate afghane erano stati addestrati in URSS. Il regime di Daoud non era riuscito a soddisfare le grandi aspettative che la sua retorica su una «rivoluzione» aveva fornito alla popolazione ed era sufficiente una causa scatenante anche minima per mettere in difficoltà il regime.

Questa causa scatenante avvenne con l’assassinio il 17 aprile del 1978 di un prominente attivista Parcham, Mir Akbar Khayber. L’identità degli assassini rimase ignota, anche se molti accusarono Hafizullah Amin, un esponente di rilievo del Khalq, per l’uccisione. Migliaia di persone si presentarono al funerale di Khayber, gettando nel panico il regime di Daoud che arrestò un certo numero di attivisti comunisti. Gli arresti indiscriminati portarono al colpo di Stato del 27 aprile, guidato essenzialmente dai ranghi militari. Le quattro figure chiave del colpo di Stato furono Abdul Qadir e Muhammad Rafi, del Parcham, e Aslam Watanjar e Sayid Muhammad Gulabzoi, del Khalq. Tuttavia, dopo ucciso Daoud e la sua famiglia la mattina del 28 aprile, i politici civili marxisti crearono un gruppo di comando costituito da: Nur Mohammad Taraki e Hafizullah Amin, del Khalq, e Babrak Karmal, del Parcham. Taraki fu il leader designato della cosiddetta «rivoluzione di Saur», che prese il nome dal mese del calendario afghano in cui avvenne il colpo di Stato.

Da una parte, l’uso del termine rivoluzione era inopportuno: la maggior parte degli Afghani fu sorpresa dal colpo di Stato comunista, che non era frutto di un movimento di massa. D’altra parte, meritava questo appellativo dato che i nuovi governanti marxisti si erano mossi rapidamente per cercare di produrre una rivoluzione, un passo che scatenò un sostanziale conflitto tra lo Stato e i suoi soggetti.

Il periodo dall’aprile del 1978 al dicembre del 1979 fu di incessante turbolenza, per una serie di ragioni. La più importante fu che le politiche dei nuovi governanti si erano dimostrate profondamente offensive nei confronti degli atteggiamenti e dei valori di un gran numero di Afghani. L’ateismo li separò immediatamente dalla popolazione, e riforme come quella della proprietà terriera furono ritenute sconsiderate e provocatorie.

Dopo il 1978, alcuni diritti politici furono concessi ai gruppi etnici non pashtun. Durante il regime marxista (1978-1982), le iniziative del regime per sostenere i gruppi non maggioritari furono intraprese con il patrocinio dell’Unione Sovietica. Il regime comunista attuò diverse riforme nell’ambito della lingua, dell’educazione e della cultura. Per la prima volta, per esempio, fu distribuito da parte del Ministero dell’Istruzione del materiale didattico in lingua locale nelle varie regioni del Paese.

Al fine di controllare il territorio nazionale, il regime comunista cercò di legare a sé alcuni gruppi etnici innalzandoli al livello di nazionalità. Un membro del gruppo etnico turco, Abdul Hakim Shara’i Jauzjani, fu nominato Ministro della Giustizia e Procuratore Generale nel 1978. Inoltre, alcuni membri non pashtun fecero parte del Consiglio e del Governo rivoluzionari. Tuttavia, la linea politica del regime era imporre la filosofia comunista ad una società musulmana, e per raggiungere tale obiettivo non esitò ad usare la violenza.

Di fronte alla resistenza della popolazione, il nuovo regime adottò dei metodi brutali per rafforzare la sua posizione. Nella prigione di Pul-e-Charkhi, vicino a Kabul, un gran numero di prigionieri fu condannato a morte. La coercizione ebbe l’effetto opposto a quello che il regime si attendeva, portando sempre più persone nel campo dell’opposizione, che a sua volta tendeva ad armarsi contro il Governo. Le turbolenze causate dalle deficienze politiche furono aggravate dalla divisione tra il Parcham e il Khalq. Le prime vittime furono Karmal e i suoi associati, che erano stati inviati all’estero come ambasciatori tre mesi dopo il colpo di Stato. In seguito, vi fu un’ulteriore purga dei componenti del Parcham, anche se alcuni sopravvissero grazie alla protezione sovietica. Ma questa non era l’unica divisione. Nel settembre del 1979, Amin riuscì ad estromettere e poi assassinare Taraki, dando l’avvio ad una feroce repressione che ebbe effetti più ampi. Taraki era stato ricevuto dal leader sovietico Leonid Brezhnev poco prima della sua esautorazione, e Brezhnev e i suoi colleghi erano estremamente irritati dal corso degli eventi in Afghanistan.

La dirigenza sovietica era stata per lungo tempo turbata dalla situazione in Afghanistan, ma la reazione iniziale era stata quella di mantenere le distanze. Il 15 marzo del 1978, la 17a divisione dell’esercito afghano si era ammutinata a Herat, rappresentando una grave sfida per il regime. Taraki aveva richiesto l’assistenza sovietica, ma il Presidente del Consiglio dei Ministri, Aleksei Kosygin, aveva risposto che il dispiegamento delle forze sovietiche in territorio afghano avrebbe irritato la comunità internazionale, con sfavorevoli conseguenze. Inoltre, Kosygin sottolineava come l’entrata delle truppe in territorio afghano avrebbe peggiorato la situazione invece che migliorarla. Il dirigente sovietico paventava anche i rischi di una guerra civile.

Alla fine del 1979, Kosygin aveva abbandonato la politica a causa delle sue cattive condizioni di salute e l’uccisione di Taraki spinse la leadership sovietica in un’altra direzione. Il 12 dicembre del 1979, un’assemblea del Politburo dei Soviet, presieduta dal Ministro degli Esteri, Andrei Gromyko, accettò la raccomandazione dei quattro principali leader sovietici e membri del Politburo – il Segretario Generale del Partito Comunista, Brezhnev, il Presidente della commissione per la sicurezza dello Stato, Iurii Andropov, il Ministro della Difesa, Dmitrii Ustinov e Gromyko stesso – che l’Afghanistan dovesse essere invaso. Il 27 dicembre Amin fu ucciso dai comandanti sovietici nel palazzo di Tajbeg a Sud di Kabul e alle 20.45 una stazione radio sovietica soverchiò il segnale radio di Kabul con una registrazione di Babrak Karmal in cui annunciava il rovesciamento di Amin.

L’Afghanistan stava per entrare non solo in un nuovo decennio, ma in una nuova era; infatti, l’invasione sovietica trasformò il Paese da un remoto avamposto ad un teatro chiave delle rivalità della Guerra Fredda.

L’Agenzia Centrale di Intelligence (CIA) statunitense non aveva previsto l’invasione e l’Amministrazione Carter fu colta di sorpresa da ciò che stava accadendo. Le motivazioni sovietiche apparivano imperscrutabili e il Presidente Carter vide nell’invasione la possibilità per l’Unione Sovietica di impedire il flusso di petrolio dal Golfo Persico, tanto che definì l’aggressione come la minaccia più grave per la pace nel mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale. La risposta dell’Amministrazione Carter, e della successiva Amministrazione Reagan, fu quella di armare dei gruppi locali contro l’Unione Sovietica con la finalità di segnalare alla comunità internazionale l’inaccettabilità di tale aggressione. Questo approccio si rilevò un successo quando i Sovietici ritirarono definitivamente le loro forze nel 1989, ma ebbe delle conseguenze non volute e non previste.

L’invasione sovietica dell’Afghanistan creò delle condizioni politiche profondamente paradossali. La presenza di forze sovietiche era apparentemente sufficiente a sostenere lo Stato Afghano, ma tale dipendenza limitò la sua capacità di ottenere un supporto generalizzato. Il sostegno sovietico non offriva una strategia per un Governo di lungo termine, ma piuttosto un appoggio al sistema circoscritto dal punto di vista temporale, infatti, quando questo cessò alla fine del 1991, il regime comunista di Kabul crollò rapidamente. In effetti, lo Stato Afghano come struttura autonoma per la gestione e la mobilitazione delle risorse fu disintegrato a seguito dell’invasione sovietica; la gravità del problema era oscurata dalle sovvenzioni sovietiche, quando queste scomparvero decadde anche il regime. È importante ricordare che ciò fu possibile anche per la diffusa resistenza al regime. La dirigenza sovietica aveva sperato di vincere rimuovendo l’odiato Amin, ma il sostituto, Babrak Karmal, era ampiamente disprezzato, e coloro che avevano un forte senso della storia afghana lo paragonavano ad un secondo Shah Shuja.

La resistenza all’occupazione sovietica proveniva da diversi settori della società afghana; i resistenti armati, conosciuti come mujaheddin cioè praticanti della jihad, avevano molte componenti, tra cui partiti politici con base in Pakistan, comandanti dotati di diversificati gradi di influenza all’interno dello stesso Afghanistan, e comunità di supporto. Il loro carattere disparato era un punto di forza negli anni Ottanta, quando ciò li rese molto difficili da cooptare e da sopprimere, ma una debolezza dopo il 1991, quando si mostrarono deficitari della coerenza necessaria per esercitare efficacemente il potere statuale.

L’etnia divenne una forza politico-militare nel momento in cui scoppiò la guerra. Anche se il conflitto fu dominato dalla dicotomia Comunismo versus Islam per quanto concerneva i paradigmi della Guerra Fredda, i partiti belligeranti adoperarono sempre più una retorica fondata sull’etnia per rafforzare le proprie posizioni. I dirigenti comunisti speravano di legare a sé i gruppi etnici più vicini elevandoli allo status di nazionalità. Ancora più importante fu la creazione di milizie basate sull’appartenenza etnica; molto nota fu la milizia uzbeka di Rashid Dostum. Anche il Pakistan e l’Iran usarono il potenziale etnico per i conflitti. Sulla base della lealtà sciita, l’Iran fondò l’Hizb-i wahdat, attivo tra gli sciiti hazara. Durante gli anni Ottanta, il Jamiat-e-Islami, il più antico partito della resistenza, divenne un luogo di rappresentanza per i tagichi.

I mujaheddin riflettevano, dunque, la complessità della società afghana – che è ancora oggi differenziata in maniera significativa in termini etnici, settari, spaziali, economici e di genere – manifestando, inoltre, una serie di distinzioni ideologiche. Il Partito Herzb-e-Islami, un Partito islamico, era guidato da Gulbuddin Hekmatyar, mentre il Jamiat-e-Islami da Burhanuddin Rabbani. Vi erano anche formazioni politiche più piccole, guidate da Pir Sayid Ahmad Gailani e Sibghatullah Mojadiddi, che riflettevano le influenze Sufi e sostenevano il ritorno di Zahir Shah, e da Abdul Rab al-Rasoul Sayyaf, molto più condizionato dalle tendenze wahabite provenienti dalla Penisola Arabica.

Questi partiti divennero dei canali per gli aiuti internazionali, ma sul terreno erano meno importanti di comandanti come Haji Abdul Latif a Kandahar, Ismail Khan a Herat, e Ahmad Shah Massoud nella valle del Panjsher, a Nord di Kabul. I mujaheddin non erano in grado di tenere e occupare una città, ma riuscirono a sbandare le forze sovietiche e del regime in tutto il territorio nazionale, negando loro qualsiasi apparenza di vittoria.

Dal punto di vista geopolitico, i mujaheddin furono sostenuti attivamente nella loro resistenza, durante la maggior parte degli anni Ottanta, dagli Stati Uniti, guidati dal Presidente Reagan, e dal Pakistan, sotto la leadership del Generale Zia ul-Haq. Ognuno di questi Stati, tuttavia, aveva interessi distinti. Gli Stati Uniti erano intenzionati a colpire alle basi il potere sovietico, e vedevano nei mujaheddin uno strumento che poteva essere utilizzato per questo fine. Il Pakistan, per contro, aveva un complesso insieme di interessi regionali. Avendo affrontato una controversia sui confini con l’Afghanistan negli ultimi decenni dopo il 1947, non aveva interesse a rafforzare un Governo afghano secolarizzato e nazionalista, preferendo sostenere radicalisti islamici come l’Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar, che era stato a lungo un sodale del Consiglio direttivo dei Servizi di informazione pakistano. Questo era un fatto che gli Stati Uniti, il principale finanziatore di armi per i resistenti, erano disposti a tollerare, anche se l’Hezb-e-Islami era nettamente anti-occidentale. Tale fatto rappresentava, comunque, un problema per comandanti come Massoud, che mettevano in dubbio la lotta che l’Herzb stava effettivamente portando avanti, ritenendo che si stesse creando una specie di «mostro di Frankestein» con cui un giorno avrebbero dovuto confrontarsi. Esprimendo queste preoccupazioni, i militanti afghani si mostravano molto più accorti dei politici di Washington e del personale della CIA a Islamabad.

L’inizio del ritiro delle forze sovietiche dall’Afghanistan coincise con una nuova leadership, quella di Mikhail Gorbachev, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica nel marzo del 1985. Al 27° Congresso del Partito nel febbraio del 1986, Gorbachev fece riferimento all’Afghanistan come ad «una ferita sanguinante», e, il 5 maggio, Babrak Karmal fu sostituito dal Segretario Generale del Comitato Centrale del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, Najibullah, che aveva guidato la polizia segreta del regime dal 1980 al 1985. Il 13 novembre del 1986, il Politburo sovietico prese la decisione di ritirare le forze armate in un arco temporale di due anni. Najibullah fu incoraggiato ad impegnarsi nel tentativo di ampliare le basi di consenso del regime attraverso una riconciliazione nazionale, ma le ferite della guerra erano troppo profonde e il suo background nella polizia segreta lo rendeva inadatto per la guida di una pacificazione del Paese. Attraverso le forniture di materiale sovietico, Najibullah riuscì a restare in carica dopo il ritiro delle truppe sovietiche del 1989, ma come divenne chiaro in seguito, la sua sopravvivenza dipendeva dalla disponibilità delle risorse sovietiche con cui acquistare la lealtà degli attori chiave del Paese. Non appena le risorse finirono, il suo regime cominciò a decadere, nel contempo gli attori chiave dell’Afghanistan si riposizionarono; nell’aprile del 1992, il regime collassò completamente.

Gli effetti della guerra in Afghanistan erano stati devastanti. Fra il 1978 e il 1987, in media ogni giorno erano stati uccisi 240 civili; tale elevatissimo tasso di mortalità fu accompagnato ad un’estesa violazione dei diritti umani e da veri e propri crimini di guerra. A ciò si accompagnò anche una migrazione forzata della popolazione, dando origine a problemi di agitazione sociale a lungo termine. Nel periodo dell’anteguerra l’Afghanistan aveva una popolazione di 13,05 milioni di abitanti, all’inizio del 1990 circa 6,2 milioni vivevano all’estero come rifugiati, soprattutto in Pakistan e in Iran. I campi profughi in Pakistan avevano uno status ambiguo, poiché non servirono solo per proteggere i rifugiati ma anche per l’addestramento dei combattenti, e, in definitiva, furono un terreno fertile per il movimento dei talebani, una forza che non rifletteva la tradizionale società afghana, ma era il risultato di decenni di disfacimento della vita civile del Paese.

La disgregazione del regime di Najibullah portò alla presa della capitale, Kabul, da parte di elementi dei mujaheddin afghani. Tuttavia, questi dovettero affrontare due problemi. Il primo era che ereditavano i simboli di uno Stato, in particolare una capitale, ma non meccanismi statuali funzionanti: i burocrati erano fuggiti, l’esercito si era diviso lungo linee etniche e settarie, e non esistevano più Enti governativi per l’estrazione e la ridistribuzione delle risorse. Nel contempo, le divisioni all’interno del movimento dei mujaheddin si erano intensificate. Mentre la maggior parte dei leader musulmani sunniti aveva firmato un accordo il 14 aprile del 1992 per formare un Consiglio di comando sotto la guida del professor Mojadiddi, Gulbuddin Hekmatyar rifiutò di partecipare; il suo portavoce aveva già dichiarato che Hekmatyar non avrebbe accettato nulla che includesse Ahmad Shah Massoud. Nonostante i tentativi successivi per risolvere queste divisioni, esse rimasero fonte di acuta tensione. Quando finalmente Hekmatyar tornò a Kabul come Primo Ministro nel giugno del 1996, la sua stessa presenza fece scendere la reputazione del Governo, che in quel periodo era guidato da Burhanuddin Rabbani. Rabbani si riferiva a Hekmatyar come ad un pericoloso terrorista che doveva essere espulso dal Paese.

Una delle ragioni principali di un contesto politico così esacerbato erano le rivalità all’interno del movimento dei mujaheddin che stavano provocando un brutale conflitto armato nella stessa capitale, infatti, diverse zone della città erano sotto il controllo di milizie: lo sciita Hezb-e-Wahdat nell’area Ovest della città, forze fedeli a Massoud nel Nord, una milizia associata al comandante Abdul Rashid Dostam nella zona di Bala Hissar, e fedelissimi di Abdul Rab Al-Rasoul Sayyaf nel Paghman. I combattimenti tra l’Hezb-e-Wahdat e le forze di Sayyaf esplosero nel giugno del 1992. Al culmine del conflitto, le milizie di Hezb-e-Islami, situate a Sud, sferrarono degli attacchi missilistici sulla città, utilizzando le attrezzature militari accumulate nel corso degli anni Ottanta per cercare di impedire a qualunque fazione di prendere il potere.

Le conseguenze umane del conflitto furono atroci, i crimini di guerra furono commessi su vasta scala dalle milizie coinvolte nello scontro armato. Fu solo nel marzo del 1995 che Massoud riuscì a mettere in sicurezza la città e i suoi dintorni, ma la pausa nel conflitto fu di breve durata.

Fu in tale contesto che il movimento talebano emerse sulla scena nel 1994, conquistando prima la città di Kandahar, poi Herat nel 1995, e infine Kabul nel settembre del 1996. Il termine talebani è il sostantivo plurale persiano di una parola araba che significa studenti, e vari fronti talebani esistevano in Afghanistan dai primi anni Ottanta. Tale movimento, tuttavia, era diverso, infatti era molto di più di una forza militare convenzionale. La sua comparsa rifletteva il desiderio del Pakistan di avere un surrogato che potesse ottenere porzioni significative di territorio, attuando ciò che l’Hezb-e-Islami di Hekmatyar non era riuscito a fare. Il Ministro dell’Interno del Pakistan, il Generale in pensione Nasseerullah Babar, era solito riferirsi ai talebani come ai «nostri ragazzi». Il ruolo del Pakistan nel sostenere i talebani è stato fondamentale per la loro crescita; Human Rights Watch rilevava che, di tutte le potenze straniere coinvolte nello sforzo di manipolare i combattimenti in corso, il Pakistan si distingueva per la vasta scala dei suoi obiettivi e dei suoi interessi, che comprendevano: il sollecitare finanziamenti per i talebani, il sostegno diplomatico, la formazione dei combattenti, il reclutamento di manodopera qualificata per l’esercito, la pianificazione delle offensive militari, la spedizione di armi, munizioni e combustibile, e, infine, diretto supporto durante i combattimenti.

Contrariamente ai progetti del Pakistan, il movimento dei talebani superò il suo status di paria; a parere del Ministro degli Esteri Pakistano Abdul Sattar, Islamabad aveva fallito non prevedendo che i talebani sarebbero stati percepiti a livello internazionale come una creazione del Pakistan.

Sotto il profilo etnico, il movimento talebano era sorto dal cuore conservatore del territorio pashtun, la città di Kandahar, e rimase completamente dominato da tale gruppo etnico. Il movimento era guidato dal Mullah Mohammed Omar, l’auto proclamatosi comandante dei fedeli, e la sua strategia fondata sulla brutalità, l’oppressione e il terrore furono similari a quelli dell’Emiro Abdul Rahman, sostenuto dalla Gran Bretagna. Le somiglianze tra i fatti di sangue della fine del XIX secolo sotto l’Emiro di ferro e l’Afghanistan dei talebani furono la conquista militare, la sottomissione dei territori autonomi non pashtun, e l’uso di un’interpretazione estremista dell’Islam per sottomettere i nemici. La brutalità dei talebani nell’usare sia l’etnia sia un’ideologia estremista portò gli hazara, gli uzbechi e i tagichi a dimenticare le rivalità precedenti ed ad unirsi.

Sebbene il movimento talebano fosse di base un movimento religioso, l’identità etnica ha svolto un ruolo prominente al suo interno e nella sua politica. La linea politica di esclusione etnica dei talebani, che erano soprattutto pashtun, ha caratterizzato il loro regime per tutta la sua durata, dal 1996 al 2001. A questo proposito, è importante ricordare che nell’agosto del 1998 più di 2.000 hazara furono uccisi in soli tre giorni a Mazar-e-Sharif.

I talebani hanno governato l’Afghanistan con un misto di intolleranza teocratica, etnocentrismo, anarchia e brutalità. Nigel Allen sottolinea come, contrariamente alla credenza popolare, i talebani siano stati un movimento etnico, non un gruppo religioso. È estremamente difficile disapprovare le dichiarazioni di Allen perché, su ventisette membri della leadership di governo talebana, ventisei erano pashtun. Molti di loro avevano una fortissima aderenza al codice dei pashtun, il pashtun wali, che presupponeva l’assoggettamento degli altri gruppi etnici alla cultura conservatrice, etnocentrica e rurale del loro gruppo. La pulizia etnica si rivolse contro gli hazara, gli uzbechi e i tagichi, e altre popolazioni nel centro, nell’Ovest e nel Nord dell’Afghanistan. Non minore fu l’oppressione delle donne, sottoposte a pesantissime forme di discriminazione, come l’esclusione da ogni professione e da ogni forma di istruzione.

La fine del regime dei talebani avvenne abbastanza rapidamente. Mentre la rete terroristica di Osama Bin Laden riuscì ad assassinare il comandante Massoud il 9 settembre del 2001, gli attentati su suolo americano l’11 settembre spinsero gli Stati Uniti ad attaccare i talebani e Al Qaeda nel mese di ottobre all’interno dell’operazione «Enduring Freedom». Entro la metà di novembre, Kabul si era arresa alle forze anti talebane, e dalla metà di dicembre la maggior parte della leadership talebana era fuggita in Pakistan.

Nel momento in cui la sconfitta dei talebani fu certa, il 5 dicembre del 2001 fu organizzata una conferenza a Bonn sul futuro del Paese. L’obiettivo era quello di gettare le basi per i successivi processi politici e costruire le Istituzioni di Governo dell’Afghanistan, affinché il Paese potesse determinare liberamente la propria politica in conformità ai principi dell’Islam, della democrazia, del pluralismo e della giustizia sociale.

L’accordo di Bonn richiedeva l’istituzione di una struttura di Governo ad interim e l’impostazione di un calendario per una transizione ad un Esecutivo rappresentativo con un’ampia base sensibile al genere e alla multietnicità. Attraverso i colloqui sostenuti dalle Nazioni Unite fu raggiunto un compromesso per istituire un Governo ad interim di sei mesi, conosciuto come Autorità Provvisoria Afghana (AIA). Hamid Karzai, un pashtun della provincia di Kandahar, fu eletto come Presidente.

Karzai fu scelto come Presidente dell’Amministrazione ad interim perché la sua figura comportava diversi vantaggi dal punto di vista degli Stati Uniti. In primo luogo, era un membro del gruppo etnico dei pashtun, la tradizionale etnia di Governo. In secondo luogo, non aveva forti legami con le fazioni in esilio o i potenti gruppi mujaheddin, potenzialmente era quindi una figura unificante nel diviso panorama politico afghano e ciò lo rendeva dipendente dai protettori esteri e, per questo, molto cooperativo. In terzo luogo, la sua permanenza per lungo tempo negli Stati Uniti rendeva facile la comunicazione interculturale con Washington.

Durante il decennio governativo di Karzai la discriminazione contro certi gruppi etnici fu abbandonata. Tuttavia, il sistema centralizzato non riuscì a bilanciare la condivisione dei poteri tra le etnie e a fornire una «governance» a livello sub-nazionale. Rob Aitken ha sottolineato come i recenti interventi internazionali e i processi di pace abbiano enfatizzato la riconciliazione nazionale, tuttavia le divisioni etniche non sembravano essere state ridotte nel periodo post-conflitto, al contrario, l’Afghanistan è divenuto sempre più diviso etnicamente dall’invasione del 2001.

Tre importanti Ministeri del Gabinetto furono assegnati a tagiki facenti parte dell’Alleanza del Nord che controllava la milizia in possesso di Kabul dalla sconfitta dei talebani. A Younis Qanooni, che aveva guidato la delegazione dell’Alleanza del Nord alla Conferenza di Bonn, fu assegnato il Ministero dell’Interno. Il Generale Mohammad Fahim, comandante in capo dell’Alleanza del Nord, divenne il Ministro della Difesa, e il dottor Abdullah fu scelto come Ministro degli Esteri. I trenta membri del Governo ad interim includevano undici pashtun, otto tagichi, cinque hazara e tre uzbechi, il rimanente era costituito da rappresentanti delle altre minoranze. Più di 1.500 delegati della Loya Jirga, una assemblea deliberativa di notabili tribali tradizionalmente riunita su ordine del Re o del Presidente, elessero Karzai come Presidente di transizione nel giugno del 2002. Con un margine schiacciante, la Loya Jirga scelse Karzai per guidare il Paese fino alle elezioni nazionali in programma per il giugno del 2004. I pashtun non erano soddisfatti della rinuncia a tre Ministeri chiave, aspettandosi che la Loya Jirga correggesse questo sbilanciamento; in realtà, i pashtun avevano già espresso il loro malcontento durante la conferenza di Bonn, inoltre, le loro rimostranze erano aggravate dalla crescente influenza delle fazioni armate non pashtun durante l’Amministrazione ad interim.

Ci si aspettava che Karzai spostasse nuovamente l’equilibrio dei poteri a favore dei pashtun e desse all’ex Sovrano Zahir Shah un ruolo nazionale di primo piano. Non fu una sorpresa che Karzai fosse scelto come Presidente di transizione della Loya Jirga nel giugno del 2002. Karzai aumentò la rappresentanza pashtun nella nuova amministrazione di transizione, da undici membri a sedici, mantenendo costante la rappresentanza degli altri gruppi etnici. Ciò fornisce un esempio evidente della progressiva etnicizzazione delle Istituzioni in Afghanistan. Con la nomina di altri cinque membri pashtun, Karzai aumentò anche il numero dei Ministri pashtun, diminuendo, contemporaneamente, i Ministri di altre etnie; questa trasformazione del Governo, in favore dei pashtun, aumentò il divario tra i diversi gruppi etnici del Paese. Alcune élite pashtun non erano ancora soddisfatte, poiché pensavano che il Presidente avesse tradito la sua etnia, dimostrando come solitamente un gruppo etnico che ha sempre dominato il contesto politico di un Paese difficilmente accetta la condivisione del potere con altre etnie, inoltre, documenta quanto la mentalità tribale sia diffusa in Afghanistan.

Il favoritismo e la discriminazione su base etnica furono fortemente visibili nei Ministeri e nella «governance» locale. Ad esempio, la maggior parte delle nomine nel Ministero della Difesa nel 2002 fu sbilanciata verso un altro gruppo etnico, quello dei tagichi. L’ex Ministro della Difesa e Vice-Presidente Qasim faceva parte del gruppo etnico dei tagichi; nel suo Ministero, vi furono trentotto Generali scelti per costituire lo Stato Maggiore dell’esercito afghano e trentasette erano tagichi e uno uzbeco. Questo non avvenne soltanto nel Ministero della Difesa.

Risulta importante soffermarsi anche sul nuovo testo costituzionale. Il progetto della Costituzione fu preparato da un team di 35 esperti degli Stati Uniti, dell’Europa e dell’Africa. Essa prevede parità di diritti tra uomini e donne.

La nuova Costituzione racchiude pesi e contrappesi tra una Presidenza forte e un’Assemblea Nazionale composta da due Camere con ampi poteri di indagine. Il Presidente è designato come Capo dello Stato, eletto a maggioranza diretta per un periodo di cinque anni con due Vice-Presidenti, con il limite di due mandati. Il Presidente è il comandante in capo delle forze armate e nomina Ministri e membri della Corte Suprema, ma solo con l’approvazione del Parlamento, che non può essere sciolto dato che la Costituzione prevede un chiaro processo di impeachment.

Il Parlamento, o Assemblea Nazionale, è composto da due Camere: la Camera bassa, o Wolesi Jirga, e il Senato superiore, o Meshrano Jirga. Per assicurare che il 25% dei membri della Camera bassa sia di sesso femminile, la Costituzione richiede che due delegati donna siano eletti da ciascuna delle 34 provincie. Il Presidente nomina un terzo dei senatori e di questi il 50% deve essere donna.

La Costituzione prevede una magistratura indipendente. La Corte Suprema è composta da nove membri in carica per dieci anni. La creazione di una nuova Corte Suprema avviene quando si è insediato il Governo appena eletto.

La nuova cornice istituzionale istituisce la Legge Civile in Afghanistan. La giurisprudenza islamica è applicata solo se non esiste una norma che si occupa della questione in discussione. La Costituzione protegge la libertà di religione e proibisce la formazione di partiti politici basati sull’appartenenza etnica, linguistica o sulle scuole di pensiero islamico.

Nel testo costituzionale afghano si fa menzione anche del diritto alla libertà, alla vita privata, e al diritto di riunione. Lo Stato è obbligato ad aderire alla Carta delle Nazioni Unite, ai trattati e alle convenzioni internazionali. Inoltre, si fa menzione specificamente della protezione dei diritti dei milioni di disabili, portatori di handicap e vittime di guerra.

La Commissione indipendente per i diritti umani stabilita dall’accordo di Bonn è ulteriormente autorizzata e istituzionalizzata dall’articolo 58. La Commissione ha il diritto di riferire i casi di violazione dei diritti umani alla magistratura. Nonostante il valore delle norme stabilite nella Costituzione, esse sono rimaste prettamente teoriche, infatti la maggior parte degli Afghani non ha mai goduto dei diritti stabiliti per Legge. Inoltre, un sistema politico e decisionale così centralizzato in un Paese frammentato etnicamente e socialmente come l’Afghanistan può condurre ad un indebolimento dell’Esecutivo e ad una mancanza di integrazione dei poteri locali nel sistema statuale, sebbene siano previste delle strutture decentrate.

L’attuale Costituzione dell’Afghanistan istituisce un sistema presidenziale, con un Presidente e un Parlamento eletti separatamente. Secondo la Costituzione, il Presidente è eletto direttamente dalla popolazione; l’articolo 61 specifica che il Presidente è eletto ricevendo oltre il 50% dei voti, nel caso che nessuno dei candidati raggiunga tale percentuale, il ballottaggio si tiene entro due settimane. Il Presidente eletto dura in carica cinque anni e non può ottenere più di due mandati.

Le elezioni e i sistemi elettorali sono strumenti importanti per analizzare la pratica politica in Afghanistan, data la difformità etnica del Paese. Donald Horowitz sostiene che il sistema elettorale è di gran lunga la più potente leva di ingegneria costituzionale per l’assestamento e l’armonizzazione di società fortemente divise. Secondo gli accordi di Bonn, libere elezioni dovevano essere tenute a non più di due anni dalla convocazione della Loya Jirga di emergenza. Le elezioni per la Presidenza, l’Assemblea Nazionale e i Consigli Provinciali si tennero nella primavera del 2004.

Il sistema elettorale parlamentare in Afghanistan si basa sul voto singolo non trasferibile; questo sistema elettorale favorisce i candidati indipendenti, piuttosto che i partiti politici, e, secondo la maggioranza dei politologi, non è adatto per un Paese frammentato come l’Afghanistan. La popolazione vota per singoli candidati, non per i partiti, in quanto, a causa della elevata etnicizzazione delle elezioni, i gruppi etnici sono considerati partiti politici sia dai candidati sia dagli elettori. Il voto singolo non trasferibile è inutile come strumento per promuovere l’unità in una società plurale come l’Afghanistan, essendo più idoneo un sistema di rappresentanza proporzionale.

Il 9 ottobre del 2004, le elezioni presidenziali si sono svolte con la partecipazione di diciotto candidati. Le elezioni presidenziali e parlamentari dovevano tenersi in giugno, ma furono posticipate dato il contesto di insicurezza in alcune zone del Sud e dell’Est del Paese, aree abitate da gruppi etnici pashtun. Tra i diciotto candidati, otto erano pashtun, sei tagichi, due uzbechi e uno hazara. La composizione etnica rifletteva le divisioni politiche esistenti all’interno della società afghana.

Hamid Karzai era il candidato più potente e favorito a livello internazionale. I principali avversari di Karzai erano il tagico Yunus Qanooni, l’hazara Mohammed Mohaqiq e l’uzbeko Abdul Rashid Dostum. Karzai ricevette il maggior numero di voti dai pashtun dell’Est e del Sud, così come la maggioranza dei voti nei multietnici centri urbani dell’Ovest, tra cui Kabul, ottenendo il 55,4%. L’ex Ministro dell’Istruzione, Younous Qanooni, ottenne il 16,3% dei voti. Mohammed Mohaqiq ricevette l’11,7%, soprattutto dalle province prevalentemente hazara e tra i rifugiati in Iran, mentre l’uzbeco Abdul Rashid Dostum ottenne il 10%, derivante soprattutto dalla parte centro-settentrionale del Paese.

Dato che l’Afghanistan non ha un gruppo etnico maggioritario, tutti i candidati sono costretti ad entrare in contatto con altre comunità per essere eletti, non potendo fare affidamento esclusivamente sull’etnia di appartenenza. Il sistema elettorale presidenziale ha posto diversi ostacoli per i candidati non pashtun; infatti, per un candidato di altra etnia è difficile vincere le elezioni, perché il proprio gruppo etnico è minoritario e deve entrare in contatto con molteplici gruppi etnici, mentre un candidato pashtun per vincere deve entrare in contatto con un solo gruppo etnico. Per questa ragione, con la nomina di due Vice-Presidenti, l’uno tagico e l’altro hazara, Karzai raggiunse altri due gruppi etnici. Inoltre, i candidati hanno ricevuto più voti nelle regioni sedi delle loro etnie. Per esempio, Qanuni ha ricevuto il 95% dei voti nella sua provincia natale, il Panjshir, ma ha ottenuto meno del previsto voto tagico in altre province. Abdul Rashid Dostum e Mohammed Mohaqiq hanno ottenuto la maggioranza dei loro voti rispettivamente dall’elettorato uzbeco e hazara.

I poteri esterni hanno avuto una grande influenza nel favorire il pashtun Hamid Karzai. La comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, riteneva che Karzai sarebbe stato il candidato migliore per controllare e unire il Paese. Per questa ragione, è stato l’unico candidato che ha usufruito dell’accesso agli aeromobili militari statunitensi durante la campagna elettorale e ha goduto della protezione di una società privata americana di sicurezza. L’Unità afghana di ricerca e valutazione ha anche riscontrato il versamento di trenta milioni di dollari per la registrazione di rifugiati afghani in Pakistan, prevalentemente pashtun, con la finalità di migliorare le possibilità di vittoria di Karzai. La comparsa del favoritismo nel clima etnicamente carico della politica afghana sembrava far sì che l’obiettivo fosse eleggere un Presidente ad ogni costo, soprattutto agli occhi dei gruppi etnici non maggioritari.

I tagichi, gli hazara e gli uzbechi erano contrari all’adozione di una Presidenza forte, temendo che questa li avrebbe esclusi dal potere. Dato che i pashtun non rappresentano la maggioranza della popolazione, i candidati sono costretti ad entrare in contatto con altre comunità etniche per essere eletti, partendo dal presupposto che le votazioni hanno luogo secondo linee etniche. Questa realtà ha costituito per Karzai una buona opportunità per divenire Presidente. Con la creazione di due Vice- Presidenti, Karzai ha giocato una «carta etnica» di successo in entrambe le elezioni presidenziali. Nelle prime elezioni del 2004, per esempio, Karzai nominò un tagiko, Ahmad Zia Massod, e un hazara, Karim Khalili, come suoi compagni di corsa. Come risultato dell’aiuto internazionale e del favoritismo etnico, Karzai vinse le elezioni del 2004. Per le seconde elezioni presidenziali, nel 2009, si ripeterono i precedenti giochi di potere su base etnica.

L’Afghanistan ha tenuto le sue prime elezioni parlamentari nel 2005 e le seconde nel 2010. Secondo la Legge elettorale adottata nel 2004, i 249 seggi della Camera bassa, Wolesi Jirga, furono assegnati attraverso l’elezione diretta. La Legge elettorale dell’Afghanistan adottava il sistema del solo voto non trasferibile per le elezioni parlamentari. Questo sistema permetteva agli elettori di esprimere un voto unico per singoli candidati, non per i partiti politici. Nella scheda elettorale non vi erano né liste di partito né segni di appartenenza politica dei singoli candidati. Ad ogni provincia furono concessi dei seggi parlamentari in proporzione alla popolazione stimata. Nonostante molti osservatori argomentassero che il sistema di voto adottato non avrebbe portato la democrazia in Afghanistan, Karzai resistette e il Governo lo adottò definitivamente nel febbraio del 2005.

La Legge elettorale ha garantito la presenza femminile attraverso un certo numero di seggi riservati; la Camera bassa deve avere almeno il 28% dei rappresentanti di genere femminile, in media due donne per ciascuna delle 34 provincie.

In un Paese come l’Afghanistan, dove la maggior parte della popolazione è impiegata nell’agricoltura, ogni comunità ha dei gruppi nomadi, chiamati kuchi, a cui sono riservati dei seggi.

La Legge elettorale non prevedeva alcuna restrizione attraverso i titoli di studio, per questo vi furono centinaia di candidati analfabeti o semianalfabeti.

Indubbiamente, il Parlamento era diviso su base etnica. Il risultato delle consultazioni indicò che dei 249 seggi disponibili, i pashtun avevano ottenuto 118 seggi, i tagichi 53, gli hazara 30 e gli uzbechi 20, gli altri gruppi minoritari 28. A causa del sistema elettorale e della distribuzione dei seggi in base alla popolazione stimata di ogni provincia, i risultati finali delle consultazioni non riflettevano il successo politico dei gruppi etnici. Ad esempio, a causa del sistema elettorale, una persona di Kabul con 2.000 voti poteva essere eletta, mentre un’altra di Faryab che ne avesse ottenuti 3.000 non poteva sedere in Parlamento. Inoltre, spettava alla volontà del Governo centrale designare quanti seggi assegnare ad ogni provincia. La mancanza di conoscenza della situazione demografica di ogni provincia e la politicizzazione delle elezioni ponevano l’Esecutivo nella posizione di assegnare più seggi ad una provincia più piccola e meno seggi ad una più grande.

L’Afghanistan si è dimostrato un Paese debole nella progettazione delle sue nuove Istituzioni politiche. L’accordo di Bonn del dicembre 2001 prevedeva un massimo di 29 dipartimenti di Governo, quando ne sarebbero bastati sei o otto, diminuendo in questo modo la rivalità tra gli Enti governativi controllati dalle diverse fazioni politiche. Inoltre, la Costituzione del 2004, attraverso la definizione di un forte sistema presidenziale, ha creato un sovraccarico nel cuore dell’Esecutivo, e ha fatto sì che le questioni chiave dipendessero strettamente dall’attenzione prestata dal Presidente. Al di là di questo, il blocco da parte degli Stati Uniti dell’espansione oltre Kabul della International Security Assistance Force, ISAF, nel 2002, ha costretto Karzai a offrire posizioni di potere nelle province e nei distretti ad attori armati, emarginando le legittime dirigenze locali, soprattutto quelle basate sulle strutture tribali pashtun, inquinando la reputazione del nuovo Stato nel lungo periodo e incoraggiando il nepotismo e la cattiva amministrazione.

Il malgoverno e la corruzione sono problemi endemici, alimentati dalla rinascita dell’industria dell’oppio e dall’incapacità di ricostruire un sistema giudiziario in grado di garantire il rispetto delle norme. Lo Stato di diritto rimane pateticamente debole, conseguentemente per la maggior parte degli Afghani le impressionanti garanzie di diritti di cui è dotata la Costituzione e i diversi Statuti esistono solo sulla carta. La corruzione è una delle principali cause di questo problema: i giudici possono essere facilmente corrotti e la corruzione è alimentata dai profitti derivanti dalla vendita dell’oppio.

Dal punto di vista del contesto geopolitico, lo spostamento di attenzione degli Stati Uniti dall’Afghanistan all’Iraq negli ultimi mesi del 2002 ha privato il teatro afghano di un supporto che appariva vitale, incoraggiando la ripresa di un sostegno attivo ai talebani da parte del Pakistan. L’errore politico e strategico degli Stati Uniti è stato quello di credere che un Paese come l’Afghanistan, che aveva sperimentato decenni di turbolenze, potesse raggiungere la stabilità nel giro di pochi mesi.

Mentre la corruzione e il malgoverno hanno scoraggiato molti Afghani dall’appoggiare fermamente il Governo Karzai, e le vittime civili sono divenute un grave problema di pubbliche relazioni per la NATO, l’insurrezione talebana si è rivelata essere la difficoltà principale per il nuovo Stato. Uno dei primi segnali di recrudescenza dell’attività dei talebani è avvenuto il 27 marzo del 2003, appena una settimana dopo l’invasione americana dell’Iraq, quando Ricardo Munguia, un dipendente della Croce Rossa, fu assassinato dai talebani nei pressi di Kandahar. L’insurrezione riflette la disposizione del Pakistan ad interferire nella transizione afghana nel modo più distruttivo possibile. L’Afghanistan è stato governato malamente dal 2001, ma è chiaro che ha dovuto subire un’invasione strisciante da parte del suo vicino orientale.

L’attuale Presidente Ashraf Ghani ha in più occasioni cercato di instaurare, senza successo, un dialogo politico con le fazioni talebane, correndo il rischio di destabilizzare il Governo di unità nazionale.

È difficile prevedere quale sarà il futuro dell’Afghanistan, uno Stato fiaccato dalla corruzione, dal malgoverno e dall’insurrezione dei talebani, il cui processo di costruzione statuale non si è ancora compiuto, ma certamente molto dipenderà dalla volontà e dalla forza del suo Governo di affrontare i problemi derivanti da una storia politica nazionale gravata dall’etnicità.


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(gennaio 2018)

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