Gheddafi: un «buon» dittatore?
A differenza di quel che ci hanno fatto credere, la dittatura del Colonnello, pur feroce, ha portato alla Libia anche prosperità e benessere

La Libia: a guardarla ora, la si potrebbe definire, come ha fatto Herbert Avraham Haggiag Pagani in una lettera datata 1987, «una fabbrica di dune. Uno zero, un’amnesia, un sacco di sabbia sventrato e disperso su 1.759.000 chilometri quadrati di mancanza d’ispirazione del Creatore, una sala d’aspetto immemorabile dove non ha mai degnato fermarsi il treno di un’epopea, un vuoto, soffocante e torrido che separava, come una punizione, l’Egitto dalla Tunisia […], l’anticamera delle Piramidi, il retrobottega dei gelsomini». Insomma, la si potrebbe definire col nome che porta il deserto che da millenni la ricopre: Sahara, ovvero «il Vuoto».

Vuoto come tutte le popolazioni che vi hanno vissuto, e che sono state l’una dopo l’altra cancellate, cominciando dalle minoranze etniche o religiose, berbere, cristiane ed ebraiche, chiamate «dhimmi», cioè cittadini «protetti», in realtà ostaggi in attesa di conversione. Oppure costretti a lasciare quel Paese che avevano contribuito ad edificare, come gli Ebrei, l’indomani della Guerra dei Sei Giorni, la cui presenza in Libia risaliva ad oltre duemila anni prima. Come i ventimila Italiani espulsi nel 1970 dopo essere stati privati di ogni bene, in risarcimento alla guerra del 1911 con la quale avevamo occupato e accorpato le regioni della Tripolitania e della Cirenaica nell’unica provincia di Libia (nome latino, altisonante, un termine dalle suggestive reminiscenze imperiali romane); in risarcimento ad un colonialismo che, se ha fomentato la tensione tra le diverse popolazioni libiche, tra le tribù chiamate «kabile», ha però anche trasformato un Paese arretrato in una regione moderna, con la costruzione di strade, ferrovie, porti, l’aeroporto e la Fiera Campionaria di Tripoli, scuole, banche, assicurazioni, strutture commerciali e turistiche, edifici religiosi, case private. Un colonialismo benedetto da molti Libici. Ancora oggi, la lingua italiana è usata accanto all’inglese a livello economico per i commerci.

La Libia era, allora, molto diversa da oggi, quando il sapone si chiamava olio di mandorle e l’aria era pregna dell’odore di cammun, di felfel, di atar e gelsomino; quando potevi vedere i capretti appesi nei giorni di mercato, le montagne di cipolle viola, di datteri lucenti, di peperoni dai colori fluorescenti. Quando si poteva essere felici con due gerani, un ramoscello di menta, un oleandro, la cui acida linfa, ad ogni fiore colto, si attaccava alle dita. Quando si poteva cantare la monotonia del cielo azzurro, i rapidi ed insanguinati tramonti, le notti crivellate di stelle – stelle così vicine che il canto dei grilli sembrava la loro voce; notti di rugiada, che facevano gonfiare i cocomeri a scatti, imitando il gracidare dei ranocchi; albe di madreperla che annunciavano l’inizio di un nuovo giorno.

Poi, dal suolo della Libia è sgorgato il petrolio, tanto, lucente petrolio, un oceano di petrolio scoperto da Ardito Desio ma che l’Italia non ha potuto sfruttare per mancanza di tecnologia adatta, e forse anche per mancanza di volontà.

Gheddafi il 1° settembre 1969, dopo un colpo di Stato contro il Re Idris I, ha preso il potere mettendosi a capo del Consiglio del Comando della Rivoluzione e proclamando la Libia una Repubblica, in realtà instaurando un regime «forte» che, col tempo, si è trasformato in un vero e proprio regime dittatoriale. Ha abolito le elezioni e tutti i partiti politici; però, ha anche emanato una nuova Costituzione da lui definita «araba, libera e democratica», ispirandosi all’Egiziano Nasser e introducendo nella politica uno spirito militante e rivoluzionario. Ha nazionalizzato la maggior parte delle proprietà petrolifere straniere e chiuso le basi militari statunitensi e britanniche, cercando di coniugare i principi del panarabismo con quelli della socialdemocrazia ed esponendo i suoi principi politici e filosofici nel Libro Verde, pubblicato nel 1976, nel quale tenta di tracciare una «terza via» rispetto al comunismo e al capitalismo. Ha saputo trasformare il petrolio in dollari[1]. Così, se fino agli anni Cinquanta del secolo scorso la Libia era considerata uno dei Paesi più poveri del mondo, soprattutto a causa dell’improduttività del territorio, già nel 1977 registrava il reddito annuo pro capite più elevato del continente africano (posizione che conserva tuttora, con 14.192 dollari nel 2010). Anche se le sanzioni economiche in vigore dal 1991 al 1999 hanno fortemente ridotto gli scambi commerciali, la bilancia libica è sempre in forte attivo grazie all’esportazione di greggio, destinato innanzitutto all’Italia (39%) e quindi a Germania, Spagna, Turchia, Francia, Svizzera. Vengono in cambio importati beni industriali e alimentari, anche in questo principalmente dall’Unione Europea, Italia in testa.

Gheddafi ha usato i dollari derivati dal petrolio e dal gas naturale per sviluppare il Paese: nuove strade, scuole, ospedali, università, case popolari a bassissimo prezzo, industrie, sviluppo agricolo con l’acqua tirata su nel deserto anche da una profondità di mille metri! Si è dotato di armi (provenienti da Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e soprattutto Unione Sovietica) nel tentativo di far diventare la Libia una potenza regionale, cosa che gli è riuscita solo in parte (sia per la cattiva gestione di queste, sia per il fallimento dei progetti panafricani). Ha investito anche nello sviluppo dell’industria leggera e delle infrastrutture, e nella modernizzazione dell’agricoltura, favorendo nel contempo l’immigrazione per sopperire alla scarsità di manodopera. Però, ha deciso (come già ricordato) di espropriare tutti i beni delle comunità italiana ed ebraica, espellendole dal Paese. Con il decreto di confisca del 21 luglio 1970, emanato per «restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori», gli Italiani sono stati privati di ogni loro bene, compresi i contributi assistenziali versati all’INPS e da questo trasferiti all’istituto libico corrispondente, e poi sottoposti a progressive restrizioni che sono culminate con la costrizione a lasciare il Paese entro il 15 ottobre dello stesso anno.

Per portare l’acqua dal deserto alle città costiere di Tripoli, Bengasi, Sirte e Tobruch (dove risiede il 70% della popolazione), novecento chilometri più a Nord, è stato costruito da un’impresa sudcoreana il Grande Fiume Artificiale, l’acquedotto più grande del mondo: quattromila chilometri di condutture di calcestruzzo del diametro di quattro metri; le condutture sono sepolte nella sabbia ed hanno una portata complessiva di sei milioni di metri cubi d’acqua al giorno[2].

L’acqua strappata alle profondità della terra ha permesso la fioritura del deserto: un lago di trentacinque chilometri di lunghezza e campagne coltivate e cittadine, dove vent’anni fa non c’era nulla. La città di Sebha, capitale della regione, conta ottantamila abitanti; vi abita un sacerdote medico italiano, don Giovanni Bressan di Padova, che è stato uno dei fondatori dell’Ospedale Centrale e che ha riunito i molti Africani profughi dai Paesi a Sud del deserto (Nigeria, Ghana, e via dicendo) fondando per essi una parrocchia, una scuola, un centro di riunioni e di gioco.

Gheddafi ha fatto molto per il suo popolo: ha mandato le bambine a scuola e le ragazze all’Università, ha abolito la poligamia e varato leggi in favore della donna anche nel matrimonio; ad esempio, ha proibito di tener chiuse le ragazze e le donne in casa e nel cortile cintato di casa. A Tripoli, ha fondato una scuola per addestrare donne poliziotto, che hanno potuto raggiungere anche alti gradi nella gerarchia militare, come quello di colonnello. Da sempre molto sensibile al fascino femminile, si è circondato di avvenenti ragazze, e la sua guardia del corpo era formata da amazzoni che portavano un vistoso basco rosso e indossavano una divisa militare (si pensava che le donne fossero poco inclini a ribellarsi al loro capo-uomo): erano armate fino alle unghie e pronte, per giuramento, a sacrificarsi pur di salvargli la vita (salvo abbandonarlo durante la recente guerra e accusarlo di ripetute violenze carnali); è nel 1981 che le amazzoni debuttarono in pubblico, in Siria, scortando il loro capo durante una visita a degli impianti industriali.

Le condizioni socio-sanitarie sono migliorate sotto il governo di Gheddafi: con una speranza di vita di settantasette anni, una mortalità infantile dell’1,9% e un analfabetismo al 17,4%, la Libia si è collocata tra i Paesi a sviluppo umanitario intermedio e, grazie al reddito relativamente elevato, davanti agli altri Paesi Nordafricani.

In politica estera, Gheddafi ha finanziato e sostenuto l’OLP di Yasser Arafat nella sua lotta contro Israele, l’IRA irlandese, il gruppo terrorista palestinese Settembre Nero, la rivoluzione islamica in Iran, alcuni regimi dittatoriali; e si è fatto propugnatore di un’unione politica (mai avvenuta) tra i tanti Stati islamici dell’Africa. È stato sospettato di coinvolgimento nella misteriosa scomparsa in Libia, nel 1978, dell’imam sciita Musa al-Sadr (di cui non ha apprezzato i tentativi di pacificazione del Libano) e nel sostegno al combattente palestinese Abu Nidal e alla sua organizzazione para-militare, organizzatori, tra l’altro, della Strage di Fiumicino nel 1985; però non si sono mai trovate prove decisive. Come rappresaglia per il bombardamento della Libia da parte degli Stati Uniti nell’operazione «El Dorado Canyon», lanciò due missili SS-1 Scud contro Lampedusa; i missili fortunatamente non provocarono danni, cadendo in acqua a due chilometri dalle coste siciliane.

La crisi nelle relazioni internazionali ha raggiunto l’apice nel 1988, quando un aereo passeggeri è esploso sopra la cittadina scozzese di Lockerbie: è stato l’attacco terroristico più grave mai avvenuto prima dell’11 settembre 2001. L’ONU ha attribuito alla Libia la responsabilità dell’attentato, chiedendo l’arresto di due cittadini libici accusati di esservi direttamente coinvolti. Al netto e insindacabile rifiuto di Gheddafi, le Nazioni Unite hanno sancito un pesante embargo economico contro la Libia. Solo nel 1999, con la decisione da parte libica di cambiare atteggiamento nei confronti della comunità internazionale, Gheddafi ha accettato di consegnare i sospettati di Lockerbie: sono state così sospese le sanzioni internazionali imposte dall’ONU[3].

Dai primi anni del nuovo secolo, Gheddafi si è progressivamente riavvicinato a Stati Uniti ed Unione Europea, ha stipulato un Trattato di Amicizia fra Italia e Libia (anche se gli incontri tra il Colonnello e il premier italiano Silvio Berlusconi hanno fatto notizia più per il folklore, per il circo beduino e per le amazzoni del raìs, che per la sostanza, un’occasione di investimenti reciproci che hanno visto in primo piano ENI, Fincantieri, Impregilo, Unicredit e che erano stimati intorno ai quaranta miliardi di euro) e ha controllato e tenuto a freno – sul suo territorio – l’estremismo islamico: un comitato di saggi islamici a Tripoli preparava in anticipo il testo dell’insegnamento religioso del venerdì e lo mandava a tutte le moschee del Paese; l’imam doveva leggere quel testo senza aggiungere né togliere nulla, pena la perdita del posto.

E ha tutelato la libertà religiosa: i centomila Cristiani (tutti stranieri, in maggioranza lavoratori copti egiziani), pur con molti limiti, godono di libertà di culto e di riunione. La Caritas libica è un organismo stimato e richiesto di interventi. Nel 1986 Gheddafi ha scritto a Giovanni Paolo II chiedendo suore italiane per i suoi ospedali: costruiva ospedali e dispensari, ma non aveva ancora infermiere libiche; la richiesta veniva dal buon esempio delle due infermiere francescane italiane che avevano assistito il padre di Gheddafi fino alla morte. Oggi in Libia ci sono circa ottanta suore cattoliche (soprattutto indiane e filippine, ma anche italiane) e diecimila infermiere cattoliche filippine e indiane, oltre a molti medici filippini, indiani, libanesi, italiani. Il Vescovo Martinelli testimoniò che «la presenza di queste giovani donne cristiane, professionalmente preparate, gentili, attente alle necessità del malato che curano con amore, sta cambiando l’immagine del Cristianesimo fra i musulmani»[4].

In visita di Stato in Italia, l’11 giugno 2009 Gheddafi affermò che «le dittature non sono un problema se fanno il bene della gente». Frase non condivisibile, ma molto significativa per comprendere il suo pensiero.

Poi, scoppiò la guerra a spazzare via tutto: una guerra fomentata da rivalità tribali che da sempre oppongono la Tripolitania alla Cirenaica, dalla persecuzione dell’etnia berbera e poi dall’oppressione di una dittatura che non lasciava spazi di crescita politica e di coinvolgimento popolare nella guida del Paese. La povertà, causa di tante guerre nel Nordafrica, non c’entra nulla con la rivolta del 2011: la Libia non ha masse di disperati urbani, in parte perché il regime ha adottato un sistema paternalistico/assistenziale che evita gravi forme di miseria (per esempio, acqua, luce e gas sono gratuiti), ed in parte perché mancano proprio le masse, dato che si sta parlando di un Paese spopolato, in cui anche la cifra ufficiale di quattro milioni di abitanti risulta da stime demografiche piuttosto gonfiate per ciò che concerne le zone desertiche[5].

E non dimentichiamo che c’è stata un’accurata «regia» dietro le migliaia di manifestanti libici che in poche ore occuparono Bengasi ed altre città della Cirenaica. Si disse che si sarebbero trovati addirittura sotto bombardamenti aerei e di razzi (un particolare che risulta alquanto irrealistico, perché solo una rivolta molto bene armata ed organizzata potrebbe reggere a lungo ad un tale tipo di trattamento). Si mostrarono le foto di un comune cimitero e le si spacciò per «fosse comuni» piene di cadaveri di civili. Si parlò di «stupri di massa» compiuti dai militari di Gheddafi (notizia che si rivelò poi in gran parte falsa, anche perché i soldati che combattevano per i ribelli utilizzavano gli stessi sistemi). Insomma, si è fatto di tutto perché i cittadini occidentali accettassero di buon grado l’intervento dei loro Paesi nella guerra libica[6]. Un intervento volto a tracciare nuove sfere di influenza energetiche e a sottrarre ogni controllo all’Italia, un controllo che ha già comportato mezzo secolo di guerra senza esclusione di colpi tra l’ENI da una parte e le multinazionali anglo-americane dall’altra, in particolare la British Petroleum. Persino il colpo di Stato di Gheddafi contro il Re Idris, considerato un Sovrano fantoccio dell’Italia, fu favorito dalle multinazionali anglo-americane, anche se in pochi anni l’ENI recuperò in Libia il terreno perduto; e la Libia resta tuttora la principale fonte di petrolio dell’ENI. Ma anche la Francia, prima di voltargli le spalle, ha corteggiato il raìs: secondo Paese europeo per importazioni di gas e petrolio dalla Libia, già da due anni vedeva la sua compagnia Total far manovre per allargare il proprio raggio d’azione in terra libica.

Gheddafi è stato ucciso a sangue freddo a Sirte il 20 settembre 2011, mentre, ferito e ormai vinto, tentava di nascondersi, tradito da un suo seguace. Il Consiglio Nazionale Libico di Transizione, che guiderà la Libia post-Gheddafi, ha annunciato che introdurrà la Sharia, la legge islamica fondata sul Corano, e che ogni legge che la contraddice sarà abolita: si è iniziato reintroducendo la poligamia e le limitazioni alla libertà femminile, col pretesto che «sotto Gheddafi la Sharia non era applicata ufficialmente, ma nelle nostre case la seguiamo, dunque le nostre mogli sono già abituate». E l’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha già parlato di abusi, torture ed uccisioni commesse dai vincitori nei confronti dei vinti, perché la Libia ha per tradizione lo scannamento delle tribù avversarie, attività ripresa con vigore dopo la fine della «pax gheddafiana». Uno Stato moderno, in pochi giorni è tornato al Medioevo!

Gheddafi non fu certo un uomo buono: non si può nemmeno definirlo un «buon» dittatore, a prescindere dalle infrastrutture che ha costruito (una dittatura non è mai un sistema di governo da augurarsi). Purtroppo, sembra che ora la Libia stia facendo molti passi indietro… come succede a tutti i popoli che hanno preteso la democrazia senza chiedersi prima se l’avrebbero saputa gestire!


Note

1 Per approfondire: La Libia e la cooperazione allo sviluppo, Massimiliano Cricco in Gli aiuti allo sviluppo nelle relazioni internazionali, a cura di L. Tosi e L. Tosone, CEDAM.
Matteo Pistilli, Lo sviluppo della Libia: il ruolo di Gheddafi, «Eurasia», 22 febbraio 2011.

2 Per approfondire: Matteo Pistilli, Lo sviluppo della Libia: il ruolo di Gheddafi, «Eurasia», 22 febbraio 2011.

3 Sulla storia recente della Libia, vedi: La Libia dall’indipendenza agli anni Novanta, in Autori Vari, La Storia (volume 14: Dalla Guerra Fredda alla dissoluzione dell’URSS), De Agostini Editore, pagine 576-577.

4 Vedi «AsiaNews», agenzia del PIME. Citato in: Ercolina Milanesi, Gheddafi, dittatore controverso.

5 Vedi anche: Biancamaria Scarcia Amoretti, Il paradosso degli Stati islamici, in Autori Vari, La Storia (volume 14: Dalla Guerra Fredda alla dissoluzione dell’URSS), De Agostini Editore (aggiornata a giugno 2004), pagina 597: «Si tratta di Paesi [la Libia e l’Arabia Saudita] che hanno una popolazione alquanto ridotta e che il regime può controllare attraverso meccanismi che permettono la spartizione dei redditi (petroliferi) in modo tale da eliminare quanto prima un disagio endemico, evitando nel contempo divari troppo vistosi tra dirigenza e masse. Questo punto comune offre, a chi promuove in questi Paesi un qualunque progetto politico ed economico, una certa garanzia di successo nell’ambito limitato del corpo sociale cui lo Stato concede diritto di cittadinanza. Sono dunque […] le tribù libiche che vivono dentro i confini dell’attuale Jamāhiriyya – e in particolare quelle legate per vincoli di parentela a Gheddafi – a beneficiare di tale politica».
Matteo Pistilli, Lo sviluppo della Libia: il ruolo di Gheddafi, «Eurasia», 22 febbraio 2011: «[…] la gestione lungimirante fatta dal 1969 in poi di alcune risorse del Paese, unita al raggiungimento della piena sovranità militare e politica, sono stati i passi fondamentali per un eccellente miglioramento della situazione per la popolazione libica».

6 «La guerra poteva essere evitata. Qualche giorno prima che Sarkozy [il Presidente della Repubblica Francese] decidesse di bombardare, si erano aperti spiragli veri di mediazione. Ma le bombe hanno compromesso tutto» (monsignor Giovanni Martinelli, Vescovo di Tripoli, su «AsiaNews», 25 marzo 2011).
Vedi anche: Ercolina Milanesi, Libia: una guerra volta a tracciare le nuove sfere di influenza energetiche e sottrarre ogni controllo all’Italia.
Ercolina Milanesi, Quando muore un dittatore.

(marzo 2012)

Tag: Simone Valtorta, Gheddafi, Libia, dopoguerra, Africa, Ebrei in Libia, Italiani in Libia, guerra di Libia.