La Guerra dei Sei Giorni ne «La Stampa»
«Dovettero insegnare a se stessi l’arte di vivere in tempi catastrofici per poter rinascere, e poi combattere apertamente contro l’istinto di morte che è all’opera nella nostra storia» (Albert Camus, dal discorso di accettazione del premio Nobel, 1957)

Durante la Guerra dei Sei Giorni[1], combattuta tra il 5 e il 10 giugno 1967, che permise ad Israele di occupare la penisola del Sinai, la striscia di Gaza, la Cisgiordania e le alture del Golan, ed infine, ma non meno importante, la città vecchia di Gerusalemme, l’opinione pubblica e la maggioranza delle forze politiche italiane[2] si schierarono a fianco dello Stato Ebraico, in contrasto con quanto avvenne in Francia, dove non fu solo il Partito Comunista ad assumere una posizione ostile ad Israele[3].

L’atteggiamento delle forze politiche italiane fu tuttavia diversificato: la maggioranza del Partito Socialista e il suo leader Pietro Nenni si schierarono su posizioni filoisraeliane, così come le forze laiche e il Movimento Sociale Italiano. All’interno della Democrazia Cristiana, il Ministro degli Esteri Fanfani[4] dichiarò pubblicamente di seguire una linea di «equidistanza attiva», nella realtà più vicina alle posizioni dei Paesi Arabi. Per questa ragione, si aprì una polemica[5] molto aspra all’interno del Governo tra Fanfani e il Vicepresidente del Consiglio Nenni, aperto sostenitore delle ragioni dello Stato Ebraico[6], che riteneva l’atteggiamento del Ministro degli Esteri «una assurda posizione terzaforzista di marca gollista»[7]. Nel Partito della Democrazia Cristiana si stava affermando, fin dagli anni Cinquanta, il neoatlantismo[8] di Giovanni Gronchi ed Enrico Mattei[9], propugnatore di uno stretto rapporto politico ed economico tra Italia e mondo arabo[10]. Da non sottovalutare la vicinanza fra il Partito della Democrazia Cristiana e il Vaticano, che non aveva ancora riconosciuto Israele, tale riconoscimento sarebbe avvenuto formalmente solo nel 1994[11], e che premeva per una internazionalizzazione dei Luoghi Santi[12].

Il Partito Comunista, che già all’inizio della crisi diplomatica aveva assunto una posizione favorevole alle rivendicazioni egiziane, pur appoggiando un generico diritto alla sopravvivenza di Israele, sostenne la tesi fanfaniana dell’equidistanza fra i contendenti[13].

La politica estera italiana mantenne, dunque, durante la Guerra dei Sei Giorni, una linea di «equidistanza», leggermente sbilanciata verso i Paesi Arabi, linea politica adottata sin dalla nascita di Israele[14]. L’apice dell’equidistanza[15] italiana fu raggiunto quando Aldo Moro rappresentò l’Italia al dibattito tenutosi alle Nazioni Unite sul conflitto arabo-israeliano il 21 giugno: Moro riaffermò il diritto di ogni Stato all’indipendenza politica, all’integrità territoriale e alla protezione dalla minaccia e dall’uso della forza, ma ritenne necessario affrontare la questione del ritiro israeliano dai territori occupati in vista di un assetto territoriale stabile condiviso dalle parti[16]. A differenza della Francia, che schierandosi apertamente a favore dei Palestinesi portava a compimento una svolta rispetto alla posizione assunta durante la crisi di Suez del 1956[17], il 1967 non rappresentò una cesura nella tradizionale politica estera italiana.

È interessante altresì rilevare come in una parte dell’opinione pubblica italiana si stesse formando un fronte compatto, costituito da partiti politici, sindacati, studenti e alcuni settori della Chiesa Cattolica[18], che non considerava più lo Stato Ebraico come un alleato nella comune lotta antifascista e alla luce della memoria della persecuzione razziale, bensì come la «longa manus» dell’imperialismo americano in Medio Oriente.

La stampa italiana fu in maggioranza a favore di Israele[19]; «L’Unità» fu il solo quotidiano a sostenere le rivendicazioni di Egitto e Siria, accusando di «furibonda canea razzista»[20] sia la stampa legata agli altri partiti, dal «Popolo» alla «Voce Repubblicana», all’«Avanti»[21], sia il «Corriere della Sera».

«La Stampa» si schierò apertamente a fianco dello Stato Ebraico, come è possibile rilevare attraverso i numerosi articoli che i suoi maggiori collaboratori, fra i quali Carlo Casalegno, Arrigo Benedetti, Luigi Salvatorelli e l’inviato a Gerusalemme Francesco Rosso, dedicarono al conflitto. L’analisi ha preso in considerazione i contributi ritenuti più significativi, tralasciando volutamente di stilare una cronistoria degli avvenimenti bellici.

È importante soffermarsi inoltre sull’atteggiamento della cittadinanza torinese verso lo Stato Ebraico, che può essere ben sintetizzato dal titolo di un articolo apparso nelle pagine interne del quotidiano, Il cuore di Torino per il popolo d’Israele; infatti, le pagine de «La Stampa» ci riportano della grande solidarietà che i cittadini torinesi, Ebrei e non, seppero esprimere verso Israele, attraverso manifestazioni pubbliche di appoggio, donazioni di sangue e di medicinali, la partenza di volontari medici ed infermieri[22].

Carlo Casalegno, futuro vicedirettore del quotidiano, parlò a favore di Israele durante una manifestazione all’Università di Torino[23], tale intervento fu pubblicato successivamente, nelle sue parti salienti, nella terza pagina del giornale[24]. Casalegno iniziava il suo contributo affermando che contro «il piccolo, grande Stato d’Israele, piccolo come territorio, grande come popolo, dove gli Ebrei sono approdati con un fardello pesante di tragedia», riecheggiavano in questo momento drammatico le frasi della propaganda razzista di trent’anni prima, frasi dettate dal «fanatismo razziale e religioso». Tutti gli uomini liberi dovevano sentire il bisogno morale di sostenere lo Stato Ebraico, con l’unica arma a disposizione, la solidarietà. «Soltanto il rispetto delle garanzie internazionali può assicurare la sopravvivenza di Israele, difendere il suo diritto ad una patria che si è conquistata e creata. Tutto ha creato: la terra comprata a pezzo a pezzo e strappata al deserto; il popolo, risultato prodigioso della fusione di decine di provenienze; la lingua, creazione della fede e dello spirito; la democrazia, unica vera in tutto il Medio Oriente e che vale anche per gli Arabi». Nella parte successiva, il giornalista continuava affermando che Israele, «nostra coscienza e rimorso del mondo», era frutto dell’antisemitismo, delle ingiustizie, delle sopraffazioni, degli stermini, dei pogrom e delle camere a gas. La nascita d’Israele era considerata dal giornalista, quindi, una specie di risarcimento per i dolori subiti durante la Shoah. Storicamente, Israele non è un risarcimento dei Paesi Occidentali agli Ebrei per le atrocità della Shoah e dell’antisemitismo, esso è il punto di arrivo di un cammino di emancipazione «che porta una parte degli Ebrei a pensarsi in termini di collettività a sé, quindi sovraordinata rispetto alle società nazionali d’origine»[25].

Carlo Casalegno concludeva affermando che Israele era anche una nostra frontiera, una frontiera che tutti gli uomini civili erano impegnati a sostenere e difendere.

Risulta interessante anche un contributo di Arrigo Benedetti, importante collaboratore del giornale, in precedenza fondatore e direttore de «L’Espresso», da cui si era successivamente allontanato proprio a causa di una linea editoriale giudicata eccessivamente anti-israeliana[26]. L’insanabile contrasto fra Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari nacque durante la Guerra del Vietnam a causa della linea fortemente critica che il settimanale aveva assunto nei riguardi della politica estera americana, contrasto resosi ancora più aspro nel giugno del 1967, quando Benedetti «manifestò un netto dissenso dalla linea del giornale e soprattutto dagli articoli che Antonio Gambino e Sandro Viola andavano scrivendo sugli avvenimenti del Medio Oriente», ritenuti eccessivamente avversi allo Stato Ebraico[27]. In un’occasione Benedetti arrivò a chiedere le dimissioni di Gambino, mentre in una lettera privata a Scalfari gli rimproverò di «equiparare la crisi del Vietnam con quella israeliana»[28].

Si può osservare nel contributo[29] di Arrigo Benedetti una forte simpatia per la giovane generazione nata in Israele, detta dei «fichi d’India», in ebraico «tsabar» o «sabra»[30], «di statura superiore alla media, in nulla rispondenti all’immagine dell’Ebreo vissuto nei ghetti». Una generazione impegnata, vigorosa e promotrice della cultura moderna, e proprio questo saper attingere dalla cultura moderna e ricavarne un vigore che sembrava tutto fisico era appunto «lo spirito sabra», a parere dell’autore, che costatava, allo stesso tempo, come la gioventù europea, educata nello stesso ambito culturale, sembrasse quasi essere disposta al disimpegno generale, «permeata non di idee ma di torbido sentimentalismo, espresso da canzoni di per sé innocenti, o da malumori che rivelano un che di languido quando arrivano a precisarsi in una protesta».

Lo storico e giornalista Luigi Salvatorelli argomentava, in un contributo pubblicato nella terza pagina[31], che il conflitto era stato pianificato e scatenato dal Presidente Egiziano Nasser. A parere di Salvatorelli, era un’operazione inutile disquisire se «la prima fucilata o la prima bomba sia partita da un Israeliano o da un Arabo», poiché la chiusura dello stretto di Tiran era stata riconosciuta e propagandata dal Presidente Egiziano come atto di guerra. La chiusura dello stretto, cui Stati Uniti e Gran Bretagna avevano reagito con la consueta inefficienza, aveva gettato uno sprazzo di luce sulla figura di Nasser, «calpestatore deliberato e perpetuo del diritto internazionale».

Tutta una catena di menzogne era stata la campagna araba contro Israele, da quando la «Home» offerta dall’Inghilterra durante e subito dopo la Prima Guerra Mondiale aveva preso consistenza di Stato. L’accusa ad Israele di aver usurpato il territorio della «Nazione Araba Palestinese» non aveva fondamento storico, poiché non era mai esistita una Nazione Araba Palestinese anteriore al 1948, bensì una Palestina di popolazione mista, di lingua araba e di religione musulmana, in mezzo alla quale «l’elemento giudaico, non mai scomparso totalmente, si andò rafforzando nella seconda metà del XIX e ai primi del XX, grazie alla migrazione sionista, diretta alla ricostituzione della millenaria Nazione Israelita sul proprio suolo».

Secondo il giornalista, erano stati i Governi Arabi ad incitare un largo esodo di Arabi dopo la nascita di Israele nel 1948, nascita decretata dalle Nazioni Unite che avevano previsto la creazione di due Stati.

In conclusione, lo storico affermava che prima condizione per giungere ad una soluzione del conflitto fra gli Stati Arabi e Israele era «un risanamento radicale dell’opinione pubblica nei Paesi civili e dell’atteggiamento dei Governi». Molti Governi Occidentali avevano tenuto un contegno «pilatesco», con appelli generici alla pace, non accompagnati da nessuna distinzione fra le due parti, pur «divise da un abisso morale». Salvatorelli non cita il Governo Italiano, ma è probabile che intendesse esprimere una critica, non proprio velata, verso la linea di «equidistanza».

Solo se questo risanamento della coscienza morale si fosse verificato, ci sarebbe stata la speranza in un’azione politica internazionale che avrebbe imposto ai Governi Arabi il riconoscimento «dell’esistenza e consistenza di Israele: condizione prima per la pacificazione arabo-israeliana. Sarebbe un ottimo preludio a quel ristabilimento di un regime internazionale di diritto, del quale si sente veramente bisogno».

Contrariamente agli auspici di Luigi Salvatorelli per un’azione politico-diplomatica mirante ad una soluzione duratura del conflitto e un «risanamento morale» dell’opinione pubblica, si andava formando anche in Italia un fronte compatto intenzionato a prendere in considerazione solo le ragioni del popolo palestinese, inchiodando Israele al ruolo di potenza neocoloniale e «longa manus» dell’imperialismo americano[32].

L’inviato speciale a Gerusalemme Francesco Rosso focalizzava la sua attenzione sulla struttura dello Stato Ebraico[33], sulla quale aveva sentito soltanto opinioni approssimative. Il contributo dell’inviato è da considerarsi un’attenta analisi della società israeliana.

Israele era da considerarsi una delle più autentiche democrazie esistenti al mondo, poiché ogni problema, tranne le questioni militari, era dibattuto pubblicamente in Parlamento, discusso dai giornali con la più ampia libertà di opinione. A questo proposito, l’inviato scriveva che durante la guerra la censura poneva dei limiti soltanto alle informazioni di carattere militare, lasciando ampia libertà di espressione quando i giornalisti affrontavano problemi di politica interna ed esprimevano opinioni personali sui Ministri e sulle loro attività; «scrivere che il Primo Ministro Eshkol non era all’altezza della situazione, o che la signora Golda Meir, ex Ministro degli Esteri, era troppo passionale nella sua avversione a Ben Gurion ed a Moshe Dayan, non era affatto considerato offensivo dai censori che, talvolta, ci intrattenevano in lunghe discussioni per dirci che gli Israeliani avrebbero fatto bene se avessero mandato una buona volta in pensione Eshkol, Abba Eban, la signora Meir e quel brontolone di Ben Gurion». Un aspetto del carattere israeliano era la critica costruttiva, finalizzata ad avere una visione chiara dei problemi e della situazione in cui si trovava il Paese.

Nella parte centrale dell’articolo, Rosso evidenziava i cambiamenti politico-sociali che stavano accadendo in Israele, ritenendo ormai tramontato lo spirito del Kibbutz[34]; negli ultimi vent’anni si era formata una nuova società israeliana che non aveva più le caratteristiche del «socialismo messianico, romantico e tolstoiano di cui era permeata la vecchia classe dirigente che ancora rimane al potere». La classe dirigente, composta da uomini di provenienza russa o polacca, vedeva i problemi dello Stato d’Israele un po’ svincolati da quelli del Medio Oriente. Le persone di origine sefardita, provenienti da Paesi Arabi come Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto e Libia, volavano uno Stato ancora più democratico, che li considerasse parte integrante della società civile, non «Ebrei di seconda classe». Questi uomini e queste donne avevano dato prova della loro maturità nazionale durante la guerra, dimostrandosi soldati esemplari per la disciplina, per il coraggio e l’intelligenza. Questo cambiamento era stato perfettamente compreso dalla classe dirigente più giovane, nata in Israele da genitori di origine russa, polacca, romena e ungherese, con una diversa concezione dello Stato e consapevole che, finita la guerra, il Paese avrebbe dovuto prepararsi a vivere e a trattare con gli ex nemici.

Gli Israeliani provenienti dai Paesi Arabi dell’Africa Settentrionale, che costituivano il 60% della popolazione, avevano trovato in coloro che era nati in Israele, i «sabra», degli alleati, che non avevano alcun timore che lo Stato Ebraico potesse finire per «arabizzarsi».

Per il giornalista era notevole che questa dialettica, alle volte anche aspra, sviluppatasi all’interno della società israeliana si svolgesse pubblicamente, con «una forma democratica che fa onore ad Israele».

Per quanto concerne la posizione del giornale riguardo alla politica estera del Governo, vi fu una sostanziale accettazione della linea di «equidistanza»[35], tuttavia, nonostante l’assenza di chiari accenti critici verso questa posizione, «La Stampa» mantenne una linea editoriale «non equidistante», ma integralmente favorevole ad Israele. La mancata critica verso la politica governativa era dettata certamente dagli interessi politico-economici che legavano la classe politica italiana alla famiglia Agnelli, proprietaria del quotidiano.


Note

1 Per la Guerra dei Sei Giorni, confronta W. R. Louis, A. Shlaim, The 1967 and the Making of the Modern Middle East, Oxford, Oxford University Press, 2002;
M. Oren, Six Days of War: June 1967 and the Making of The Modern Middle East, Oxford, Oxford University Press, 2002;
A. Raz, The Bride and the Dowry: Israel, Jordan and the Palestinians in the Aftermath of the June 1967 War, New Haven, Yale University Press, 2012;
T. Segev, 1967: Israel, the War and the Year that Transformed the Middle East, New York, Metropolitan Books, 2007.

2 Sull’atteggiamento delle forze politiche italiane, confronta G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in Storia dell’Italia repubblicana, a cura di F. Barbagallo, II, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, tomo 1, Torino, Einaudi, 1995, pagine 195-263;
A. D’Ascanio, Lo scacchiere mediorientale nella politica estera italiana. Il Centrosinistra e la Guerra dei Sei Giorni, in «Italia Contemporanea», 250 (2008), pagine 121-145;
M. Di Figlia, Israele e la Sinistra. Gli Ebrei nel dibattito pubblico italiano dal 1945 ad oggi, Roma, Donzelli, 2012, pagine 49-61;
Id., Israele da Nenni a Craxi. I socialisti italiani e lo Stato Ebraico, in Studi storici dedicati a Orazio Cancila, volume IV, Palermo, Associazione Mediterranea, 2011 («Quaderni Mediterranea. Ricerche storiche», 16), pagine 1521-1524;
Id., I repubblicani, la stampa laica e il dibattito su Israele (1967-1994), in «Roma-Gerusalemme». Israele nella vita politica e culturale italiana (1949-2009), a cura di M. Simoni, A. Marzano, Genova, Ecig, 2010, pagine 139-161;
M. Molinari, La Sinistra e gli Ebrei in Italia, 1967-1995, Milano, Corbaccio, 1995, pagine 28-45.

3 Sulla politica di De Gaulle verso Israele e il mondo arabo, confronta R. Aron, De Gaulle, Israël et le Juifs, poi riprodotto in Id., Essais sur la condition juive contemporaine, a cura di P. Simon-Nahum, Paris, Edition de Fallois, 1989;
F. Eytan, La France, Israël et les Arabes: le double jeu?, Paris, J. Picollec, 2005;
S. Cohen, La rottura tra De Gaulle e Israele, in Autori Vari, Da Mosè agli accordi di Oslo, Bari, Edizioni Dedalo, 1999;
M. Vaȉsse, La grandeur: politique étrangèr du général De Gaulle 1958-1969, Paris, Fayard, 1998, pagine 627-632, 644-646.

4 Sulla posizione di Fanfani, confronta G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in Storia dell’Italia repubblicana, a cura di F. Barbagallo, II, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, tomo 1, Torino, Einaudi, 1995, pagine 233-234;
L. Riccardi, Fanfani, la politica estera e la crisi mediorientale, in «Nuova Storia Contemporanea», 14/5 (2010), pagine 69-100.

5 Sulla polemica fra Fanfani e Nenni, confronta D. Caviglia, M. Cricco, La diplomazia italiana e gli squilibri mediterranei. La politica mediorientale dell’Italia dalla Guerra dei Sei Giorni al conflitto dello Yom Kippur (1967-1973), Soveria Mannelli, Rubettino, 2006, pagine 20-22.

6 Confronta Nenni e Israele, a cura di D. Moro, A. Turati, Milano, Il Garofano Rosso, 1984.

7 Annuario di Politica Internazionale (1967-1971), a cura dell’Ufficio Studi dell’ISPI, Milano, Dedalo Libri, 1972, pagina 438.

8 Sul neoatlantismo, confronta V. Ianari, L’Italia e il Medio Oriente: dal «neoatlantismo» al peace-keeping, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Sessanta. Tra guerra fredda e distensione, a cura di A. Giovagnoli, S. Pons, Soveria Mannelli, Rubettino, 2003, pagine 383-395.

9 Confronta L. Maugeri, L’arma del petrolio. Questione petrolifera globale. Guerra fredda e politica italiana nella vicenda di Enrico Mattei, Firenze, Loggia de’ Lanzi, 1994;
A. Toniolo, Il sogno proibito. Mattei, il petrolio arabo e le sette sorelle, Firenze, Polistampa, 2003.

10 Confronta D. Caviglia, M. Cricco, La diplomazia italiana e gli squilibri mediterranei. La politica mediorientale dell’Italia dalla Guerra dei Sei Giorni al conflitto dello Yom Kippur (1967-1973), Soveria Mannelli, Rubettino, 2006, pagine 22-23.

11 http://www.mfa.gov.il/PopeinIsrael/Italian/Relazioni_diplomatiche_Israele-Vaticano.htm

12 Confronta S. Ferrari, Vaticano e Israele dal Secondo Conflitto Mondiale alla Guerra del Golfo, Firenze, Sansoni, 1993;
Sergio I. Minerbi, Il Vaticano, La Terra Santa e il sionismo, Milano, Bompiani, 1988;
P. Pieraccini, La Santa Sede e la questione di Gerusalemme durante il pontificato di Pio XII, in Stato, Chiesa e relazioni internazionali, a cura di M. Mugnaini, Milano, Franco Angeli, 2003, pagine 192-231;
Id., La questione di Gerusalemme: profili storici, giuridici e politici (1920-2005), Bologna, Il Mulino, 2005.

13 Sull’atteggiamento del Partito Comunista, confronta G. Santese, Il Partito Comunista Italiano e la questione palestinese (1945-1956): «L’Unità» e «Rinascita», in «Mondo Contemporaneo», 2 (2007), pagine 63-104.

14 Confronta B. Bagnato, La politica «araba» dell’Italia vista da Parigi (1949-1955), in «Storia delle Relazioni Internazionali», 1 (1989), pagine 115-155;
L. Cremonesi, Dal rispetto del boicottaggio arabo alle ambizioni di mediazione. L’Italia e Israele verso la crisi di Suez, in L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-1960), a cura di E. Di Nolfo, R. H. Rainero, B. Vigezzi, Milano, Marzorati, 1992, pagine 103-132;
L. Riccardi, L’Italia e la nascita d’Israele, in «Clio», 38/2 (2002), pagine 299-335;
Id., La politica estera italiana, Israele e il Medio Oriente alla vigilia della crisi di Suez, in «Clio», 39/4 (2003), pagine 629-669;
I. Tremolada, All’ombra degli Arabi. Le relazioni italo-israeliane 1948-1956: dalla fondazione dello Stato d’Israele alla crisi di Suez, Milano, M&B Publishing, 2003.

15 L. Riccardi, Aldo Moro e il Medio Oriente, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti, A. Ungari, D. De Luca, Roma, Le Lettere, 2011, pagina 561.

16 Annuario di Politica Internazionale (1967-1971), a cura dell’Ufficio Studi dell’ISPI, Milano, Dedalo Libri, 1972, pagina 439;
confronta anche A. Villani, L’Italia e l’ONU negli anni della coesistenza competitiva (1955-1968), Padova, Cedam, 2007, pagina 264.

17 Confronta S. K. Crosbie, A Tacit Alliance: France and Israel from Suez to the Six Day War, Princeton, Princeton University Press, 1974.

18 Confronta D. Saresella, Il «dissenso» cattolico, in La Nazione Cattolica: Chiesa e società in Italia dal 1885 a oggi, a cura di Marco Impagliazzo, Milano, Guerini e Associati, 2004, pagine 265-289.

19 Confronta M. Scherini, L’immagine di Israele nella stampa quotidiana francese, inglese e italiana, tesi di dottorato in antropologia, storia e teoria della cultura, Università degli Studi di Siena, anno accademico 2009-2010.

20 Confronta M. Ferrara, Democratici ma «razzisti», «L’Unità», 28 maggio 1967.

21 Sulla posizione del giornale durante la Guerra dei Sei Giorni, confronta A. Tarquini, Il partito socialista fra guerra fredda e «questione ebraica»: sionismo, antisemitismo e conflitto arabo-israeliano nella stampa socialista, dalla nascita della Repubblica alla fine degli anni Sessanta, in Ebraismo, sionismo e antisemitismo nella stampa socialista italiana. Dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta, a cura di M. Toscano, Venezia, Marsilio, 2008, pagine 161-232.

22 Sull’atteggiamento della città di Torino verso Israele, confronta Anonimo, Migliaia di cittadini partecipano alla manifestazione per Israele, «La Stampa», 1° giugno 1967;
Anonimo, Voti per la pace e Israele in Comune ed alla Provincia, «La Stampa», 6 giugno 1967;
Anonimo, Il cuore di Torino per il popolo d’Israele, «La Stampa», 6 giugno 1967;
Anonimo, Una città solidale con Israele, «La Stampa», 7 giugno 1976;
Anonimo, Il primo contingente di plasma parte oggi con la Croce Rossa, «La Stampa», 8 giugno 1967;
Anonimo, Commosso ringraziamento del rabbino a tutti i Torinesi, «La Stampa», 8 giugno 1967;
Anonimo, Appello da Israele: mandate sangue!, «La Stampa», 8 giugno 1967;
Anonimo, Ringraziamento degli Ebrei alla cittadinanza torinese, «La Stampa», 14 giugno 1967.

23 Confronta Carlo Casalegno, Israele, nostra frontiera, «Panorama», 1° giugno 1967, riprodotto in Id., Israele. Giustizia e libertà, Roma, Carucci, 1980, pagine 38-40.

24G. P., Israele è oggi una frontiera per tutti gli uomini civili, «La Stampa», 30 maggio 1967.

25 Confronta C. Vercelli, Israele. Storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-2007), Firenze, Giuntina, 2007, pagina 18.

26 Sull’inasprimento e la seguente rottura fra Benedetti ed Eugenio Scalfari, nuovo direttore de «L’Espresso», confronta E. Scalfari, La sera andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal «Mondo» a «Repubblica», Milano, Mondadori, 1986, pagine 254-255.

27 Confronta E. Scalfari, La sera andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal «Mondo» a «Repubblica», Milano, Mondadori, 1986, pagina 254.

28 Confronta E. Scalfari, La sera andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal «Mondo» a «Repubblica», Milano, Mondadori, 1986, pagina 255.

29 Arrigo Benedetti, Lo spirito Sabra, «La Stampa», 6 giugno 1967.

30 Confronta C. Klein, Israele. Lo Stato degli Ebrei, Firenze, Giunti Castermann, 2000, pagine 109-111.

31 Luigi Salvatorelli, Bisogna imporre agli Arabi il riconoscimento di Israele, «La Stampa», 8 giugno 1967.

32 L. Riccardi, Sempre più con gli Arabi. La politica italiana verso il Medio Oriente dopo la guerra del Kippur (1973-1976), «Nuova Storia Contemporanea», 10 (2006), numero 6, pagine 57-82.

33 Francesco Rosso, Israele, una società che cambia in un’aperta lotta democratica, «La Stampa», 7 giugno 1967.

34 Sui Kibbutz, confronta C. Vercelli, Israele. Storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-2007), Firenze, Giuntina, 2007, pagina 122: «Pur non raccogliendo la maggioranza della popolazione dell’yishuv, la loro influenza fu comunque notevole, così come su quello dello Stato d’Israele, soprattutto nei primi anni della sua esistenza. Costituendo le comunità dalle quali provenivano le élite della nuova società, per quel che concerne l’economia e la politica non meno che per l’esercito».

35 Confronta Anonimo, L’Italia è favorevole ad un’azione dell’ONU, 4 giugno 1967;
Michele Tito, Garantire ad Israele il diritto alla vita, «La Stampa», 7 giugno 1967;
Michele Tito, I partiti approvano la politica del Governo per il Medio Oriente, «La Stampa», 8 giugno 1967;
Fausto De Luca, Pace in Medio Oriente se si riconosce Israele, «La Stampa», 14 giugno 1967;
Nicola Caracciolo, L’Italia ritiene che spetti all’ONU cercare la pace nel Medio Oriente, «La Stampa», 22 giugno 1967.

(agosto 2014)

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