4 Novembre 1918
Riflessioni sul Centenario della Vittoria

La battaglia di Vittorio Veneto, che vide splendere sui destini d’Italia il sole di un momento irripetibile, assieme alla speranza che si fosse conclusa la cosiddetta «ultima» guerra, non fu certamente una passeggiata militare, come talvolta si afferma: iniziata il 24 ottobre 1918 con un difficile passaggio del Piave, vide un’accanita resistenza austriaca, con particolare riguardo a quella sul Grappa, e un alto numero di caduti da entrambe le parti. Soltanto dopo quattro giorni le forze armate italiane ebbero modo di avanzare rapidamente nella pianura veneta, e poi in quella friulana, mentre la ritirata nemica andava assumendo il drammatico aspetto di una rovinosa sconfitta.

Gli Austriaci combatterono valorosamente fino all’ultimo, diversamente dai militari appartenenti ad altre nazionalità dell’Impero Asburgico: talvolta, anche nel breve intervallo antecedente la cessazione definitiva delle ostilità che l’armistizio di Villa Giusti del Giardino, firmato nel pomeriggio del 3 novembre, aveva fissato per il giorno successivo alle ore 15. Non a caso, fu proprio questo il momento in cui si coprirono di gloria gli ultimi caduti italiani della Grande Guerra, tra cui il tenente Augusto Piersanti, da Norcia, nel corso di un’azione di cavalleria in agro di Pozzuolo (Medaglia d’Argento) e il capitano Alberto Riva di Villasanta, da Cagliari, colpito da una mitragliatrice austriaca mentre guidava l’avanzata dei suoi Bersaglieri oltre il Tagliamento (Medaglia d’Oro). Entrambi volontari, avrebbero trovato nelle alte parole di Gabriele d’Annunzio il riconoscimento di un valore tanto più sublime, vista l’ora del proprio estremo sacrificio, accomunato a quello dei loro soldati.

Oggi, a 100 anni dal 4 Novembre, non è facile comprendere compiutamente lo spirito della Vittoria che aveva animato la gloriosa resistenza italiana dalle Alpi al Piave, in uno slancio unitario assolutamente nuovo capace di cancellare la sventura di Caporetto, ma le doverose celebrazioni non debbono dimenticare, esempi alla mano, l’eroismo di quanti seppero affrontare con patriottica maturazione delle coscienze gli straordinari sacrifici di un conflitto lungo e sanguinoso come pochi. In questo senso, assume valore simbolico il ricordo di quegli ultimi caduti, fedeli al dovere e alla Patria anche un istante prima della pace; al pari del primo, l’Alpino Riccardo Di Giusto, scomparso sotto il fuoco nemico in agro di Drenchia, nelle alte valli del Natisone, all’alba del 24 maggio 1915.

La Vittoria fu opera dei combattenti e di tutto un popolo che aveva compreso meglio i valori dell’unità nazionale nel fango delle trincee o nell’operosa atmosfera delle fabbriche, in questo caso con un determinante contributo femminile; e divenne parte essenziale della memoria storica italiana, resa insopprimibile dal sacrificio di oltre 650.000 caduti e di un milione di feriti (molti dei quali invalidi, ovvero scomparsi in tempi successivi a seguito dei postumi). Proprio per questo, in occasione del Centenario, il primo pensiero deve essere rivolto all’autentico patriottismo manifestato dagli Italiani in una guerra che avrebbe potuto essere evitata, ma che venne combattuta, specialmente nell’ultimo anno, con indomito valore.

Gli effetti della Grande Guerra si sarebbero protratti a lungo, in maniera spesso irreversibile: da un lato, nel dramma delle madri, delle vedove e delle figlie imprigionate nei dolori del lutto e del bisogno, e dall’altro nell’eredità del combattentismo, resa più aspra dal difficile reinserimento nella vita civile dei milioni di reduci e prigionieri, e dall’ostracismo manifestato dalla sinistra nei loro confronti: motivazione non ultima delle affermazioni nazionaliste, e poi di quella fascista.


La Vittoria mutilata

Il Patto di Londra del 26 aprile 1915, con cui il giovane Regno d’Italia aveva deciso di rompere gli indugi e di scendere in campo a fianco dell’Intesa dopo un trentennio di sofferta fedeltà alla Triplice Alleanza con l’Austria-Ungheria e con la Germania, aveva previsto larghe concessioni territoriali in caso di successo nel confronto con gli Imperi Centrali: in particolare, oltre a quello sul Trentino e sull’Alto Adige, era stato garantito il trasferimento della sovranità italiana su Trieste, sull’Istria e su buona parte della Dalmazia. Quattro anni dopo, quell’impegno venne disatteso a favore del neo costituito Regno degli Slavi del Sud (la cui creazione costituiva un «quid novi» avallato dagli Stati Uniti e dagli Alleati Franco-Inglesi che non vedevano di buon occhio una forte crescita della potenza italiana).

Alla fine, tutta la Dalmazia rimase irredenta con la sola eccezione della piccola «enclave» di Zara, mentre la questione di Fiume, dopo il glorioso fallimento dell’impresa dannunziana nello scontro armato con l’Italia ufficiale del Governo Giolitti (una vera e propria prova di guerra civile) si sarebbe risolta soltanto nel 1924, a seguito degli accordi italo-jugoslavi intercorsi dopo la breve esperienza autonomista della città liburnica. In questa ottica, non era certamente azzardato parlare di Vittoria mutilata, anche se non erano mancate rilevanti responsabilità da parte italiana in occasione delle trattative di pace svoltesi a Parigi nel 1919, quando Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino abbandonarono la conferenza all’arbitrio del Presidente Americano Wilson e dei plenipotenziari alleati, salvo rientrare in tempi successivi, quando le decisioni di fondo erano già state assunte.

Il nuovo «grido di dolore» proveniente dalla Dalmazia venne sostanzialmente ignorato, nonostante l’esodo di almeno 20.000 Italiani che preferirono abbandonare la propria terra per non diventare cittadini di un Regno come quello jugoslavo in cui non si faceva mistero di un forte sciovinismo e non si tralasciavano le occasioni di manifestarlo in concreto, come accadde nei fatti di Spalato del 1920. Anche in questo caso, le conseguenze sarebbero state significative, peggiorando notevolmente le relazioni fra Roma e Belgrado già compromesse dal terrorismo slavo che non aveva accettato il trasferimento all’Italia di Trieste, di Fiume e dell’Istria, migliorate soltanto nel 1937 col Patto Ciano-Stojadinovic, e precipitate quattro anni dopo con il colpo di stato che vide il cambio di campo da parte jugoslava e il conseguente intervento dell’Asse.

La Vittoria aveva avuto un costo umano straordinariamente elevato, espresso in misura icastica dalle cifre dei caduti e da quelle, ad esse speculari, delle pensioni di guerra, ma nella stessa coscienza popolare si percepiva nettamente la sproporzione dei risultati ottenuti, con l’eroismo dimostrato dagli Italiani sui fronti della Grande Guerra, simboleggiato dalle gesta di Enrico Toti sul bordo della trincea carsica, di Paolucci e Rossetti con l’affondamento della Viribus Unitis nel porto di Pola, e di Francesco Baracca nella suggestiva epopea dell’Arma Azzurra. Ciò senza dire dei martiri dell’irredentismo, da Guglielmo Oberdan a Cesare Battisti e Nazario Sauro, che si erano immolati sulle forche dell’Austria come quelli del Risorgimento.

Oggi, la storiografia ha posto in luce come da parte austriaca fossero stati esperiti alcuni tentativi «in extremis» per scongiurare l’entrata in guerra dell’Italia, tra cui l’offerta del Trentino, ma sta di fatto che sopraggiunsero quando il Patto di Londra era stato già firmato, senza dire che non erano conformi alle attese italiane, sia di parte governativa, sia di un acceso interventismo. In questo senso, quello della «Vittoria mutilata» non è un mito creato dalla propaganda nazionalista, come si sostiene da parte della «vulgata», ma un fatto storico causato dalla modificazione delle circostanze, e dal concorso di responsabilità non soltanto altrui.


Il contributo femminile

Nel Centenario della Vittoria conviene ricordare, oltre a quello dei caduti e dei feriti, anche lo straordinario sacrificio delle donne, soprattutto nella vita civile. Basti dire che furono circa sei milioni quelle occupate nell’industria e nell’agricoltura, sia in sostituzione degli uomini al fronte, sia nel potenziamento delle attività produttive imposto dalle esigenze belliche: al riguardo, raggiunsero quota 200.000 quelle occupate nella produzione di armi, mentre superarono il milione le occupate nel settore tessile, senza parlare dei servizi assistenziali, postali, tramviari e via dicendo. E senza citare il potere d’acquisto dei salari in rapida decrescita, fino a essere dimezzato nel corso dei quattro anni di guerra.

A quest’ultimo riguardo, conviene aggiungere che le tutele sindacali non esistevano: in molti casi era stato abrogato il riposo domenicale, e non si faceva luogo al pagamento degli straordinari, sebbene il tempo di lavoro fosse stato innalzato fino alle 13 ore giornaliere. È facile comprendere come in tali condizioni il rischio aumentasse in misura più che proporzionale, come avrebbe dimostrato il terribile incidente occorso a Woellersdorf (Austria) dove 500 ragazze addette alle produzioni di materiale bellico scomparvero nell’esplosione della fabbrica.

Non mancarono le Italiane cadute, nel numero di oltre 70, fra cui 44 Crocerossine come la Medaglia d’Argento Rosetta Francescatti: nella maggior parte dei casi persero la vita per malattia contratta nell’esercizio della propria missione, ma si ebbero pure quelle colpite dal nemico, come la portatrice carnica Maria Plozner Mentil che riposa nel Sacrario di Timau e che venne insignita della Medaglia d’Oro al Valore dopo parecchi decenni, dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Al pari delle sue compagne, Maria portava quotidianamente in quota una gerla carica di cibo e generi di conforto, ma talvolta anche di armi, alle truppe alpine di montagna: lo faceva per una mercede minima e con alto senso del dovere patriottico, quando cadde per una palla di fucile in fronte, sparata da un cecchino.

Si deve sottolineare in modo particolare il contributo delle infermiere volontarie, passate dalle 4.000 unità del 1915 alle 10.000 del 1918, che operarono in oltre 2.000 ospedali a fronte di 694.000 ricoveri con 17 milioni di giorni/degenza. Tra quelle scomparse nel vortice del conflitto si deve ricordare, in chiave simbolica, la ventunenne Margherita Parodi, Medaglia di Bronzo al Valore, che dopo essersi prodigata nell’assistenza ai feriti sotto le bombe nemiche scomparve a Trieste subito dopo la Vittoria per causa di malattia, e venne accolta nel Sacrario nazionale di Redipuglia assieme a 110.000 caduti (il sacrificio delle «sorelle» infermiere ha trovato imperituro ricordo nel monumento di Colle Sant’Elia).

Va aggiunto che le cifre sono approssimate per difetto, non essendo note, fra l’altro, quelle delle donne friulane e venete scomparse durante la terribile ritirata del 1917 dopo il disastro di Caporetto, e durante l’occupazione austriaca protrattasi fino alla Vittoria, quando le madri, mogli e figlie che non avevano potuto o voluto prendere la via dell’esilio vennero sottoposte a ogni tipo di angherie, stupri compresi, da parte dei momentanei vincitori, abbrutiti dalla fame e dalle vicende belliche.

Resta il fatto che per l’ampiezza dell’impegno e dei sacrifici imposti dalla guerra, le donne svilupparono una maturazione delle coscienze e una consapevolezza dei propri diritti largamente accelerate rispetto a quanto sarebbe accaduto in condizioni normali: ciò, nel quadro di una solidarietà unitaria analoga a quella che avrebbe affratellato gli uomini al fronte, e che si sarebbe protratta e consolidata dopo la Vittoria.


Eredità della Grande Guerra

A un secolo dalla Vittoria, spente le luci sulle celebrazioni del Centenario, conviene attualizzare in termini oggettivi e condivisi i valori per cui si impegnarono i combattenti del Carso, del Piave e di Vittorio Veneto, contro quello che, come recita il celebre Bollettino del Quattro Novembre, era certamente «uno dei più potenti eserciti del mondo». In primo luogo, senso del dovere, amore patrio, trepidazione per la famiglia lontana, e impegno per un mondo migliore come quello che si confidava potesse sorgere dopo «l’ultima guerra».

Durante il conflitto non erano mancati episodi di reazione talvolta incontrollata che avevano dato luogo a interventi pesanti della giustizia militare, in specie durante la gestione Cadorna, ma tutto sommato si era trattato di vicende circoscritte: a fronte di una forza armata che raggiunse 4,8 milioni di unità, le condanne capitali eseguite furono poco più di 700 (non senza taluni gravi errori) mentre si ebbe un alto numero di decorazioni al valore, quasi a sottolineare l’aderenza a quei valori da parte di ufficiali, sottufficiali e soldati.

In dettaglio, furono 362 le Medaglie d’Oro, 38.365 le Medaglie d’Argento, 59.399 le Medaglie di Bronzo, e 28.356 le Croci di Guerra, senza contare gli encomi solenni. In poche parole, coloro che meritarono il riconoscimento furono quasi 130.000: cifra che la dice lunga sullo spirito dell’epoca e sul patriottismo del popolo, largamente superiore ai conati disfattisti, che non mancarono ma che vennero prontamente esorcizzati.

Al giorno d’oggi è necessario compiere un’opera non facile di storicizzazione, idonea a comprendere in maniera effettiva ed efficace l’Italia del 1915, e soprattutto quella del 1918, corroborata dalla convinta e sentita difesa della Patria sul Grappa e sul Piave, e illuminata dal sole della Vittoria: in qualche misura, un atto di giustizia «non scritta» ma perfettamente avvertita nel suo fondamento etico, visto che si era combattuto e vinto contro le ultime autocrazie, contro la negazione del principio di nazionalità, e contro l’oscurantismo retrivo dell’impiccatore.

Si tratta di un’opera non facile ma doverosa, se non altro nei confronti dei caduti, degli invalidi e dei feriti che offrirono il proprio sangue, spesso senz’altro conforto all’infuori della consapevolezza di essere stati fedeli all’Italia. Opera doverosa, sia consentito aggiungerlo, anche nei riguardi dei combattenti di cento battaglie che al ritorno dal fronte vennero oltraggiati da chi si ostinava in un’opposizione pregiudiziale, e ormai largamente minoritaria, come sarebbe stato dimostrato nel 1921, ricorrendo il terzo anniversario della Vittoria, quando il treno che portava da Aquileia a Roma le spoglie del Milite Ignoto percorse sotto una pioggia di fiori un’Italia commossa, inginocchiata davanti al feretro che simboleggiava il lungo, doloroso sacrificio di tutti.

La storia non è maestra di vita ma fornisce spunti di riflessione non effimera. Quelli provenienti dal Centenario della Vittoria sono fedeli all’assunto più di tanti altri, essendo in grado di confrontarsi positivamente col materialismo e il nichilismo che cercano di affermarsi a detrimento dei valori essenziali, e di riproporre alla coscienza comune l’attualità di un «ethos» etico e politico corroborato dal sangue dei caduti e dall’esemplare sacrificio di un intero popolo.

(novembre 2018)

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