La Banca d’Italia e le sue origini
Le falle creditizie che denunciano «ab origine» le incongruenze del Sistema Nazione

La commedia degli equivoci di Oscar Wilde L’importanza di chiamarsi Ernesto ben si addice purtroppo alle origini della nostra Banca Nazionale. E in effetti le questioni monetarie nazionali si andarono formando proprio al tempo e nei luoghi che videro protagonista il grande scrittore britannico.

Un professore emerito di Storia[1] scrive testualmente: «Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi legarono il loro nome ad azioni patriottiche che non sarebbero mai potute nascere e svilupparsi senza denaro. Come disse l’illustre Metternich, le guerre si combattono sul terreno, ma si vincono nei salotti, per cui entrambi stamparono buoni e ricevute assimilabili a moderne banconote che vennero accettati come forme di pagamento tra i rivoluzionari. I biglietti avevano vesti grafiche molto accattivanti, per farsi messaggeri della propaganda e permettere di tessere una fitta rete di relazioni con personalità del tempo. Questi antichi documenti finanziari, che riportano in alcuni casi le firme autografe degli eroi risorgimentali, furono stampati e distribuiti con il supporto di potenze straniere che avevano tutto l’interesse a unificare il nostro Paese. Grazie a una fitta rete di relazioni, Mazzini e Garibaldi erano riusciti a far circolare in gran segreto i loro biglietti che possedevano una forte valenza psicologica ed evocativa. L’8 settembre 1850 Giuseppe Mazzini costituiva a Londra il Comitato Nazionale Italiano e pochi giorni dopo si aprirono le sottoscrizioni per un valore di dieci milioni di lire. Un capitale ingente per quei tempi. Della stampa delle banconote si occupò la “James and Stanfeld” di Londra e i soldi furono depositati presso i banchieri Stone e Martin con il supporto non tanto occulto della Corona Britannica».

Confuterò questa descrizione. In effetti ci fu un personaggio a Londra molto influente e grande amico di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi: James Stanfeld. Crebbe in modo anticonformista nonostante la provenienza familiare. Divenne avvocato ma mai esercitò l’avvocatura. Sposò nel 1844 Caroline Ashurst, figlia del radicale e amico di Giuseppe Mazzini William Henry Ashurst. Da lui venne presentato a Giuseppe Mazzini proprio nel 1847. Divennero intimi. Stanfeld simpatizzava anche col movimento cartista, nonostante la denuncia del leader del movimento. Entrato in Parlamento nel 1859, si prodigò incessantemente per la causa italiana. Fu poi scelto da Giuseppe Garibaldi come suo consigliere quando il patriota italiano visitò l’Inghilterra nel 1862. Brillante fu la carriera politica di James Stanfeld. Nel 1863 trasferì alla Camera dei Comuni una risoluzione di simpatia per i Polacchi. Dopo essere divenuto Lord Civile dell’Ammiragliato nel 1863, l’anno successivo le autorità francesi lo accusarono di far parte della cospirazione contro Napoleone III. Lo stesso Disraeli, Primo Ministro in carica, lo accusò di «essere in corrispondenza con gli assassini d’Europa». Si difese e la sua difesa fu accettata come abbastanza soddisfacente da Lord Palmerston, in carica. Ma solo per un voto parlamentare riuscì a cavarsela, per questo si dimise per ripresentarsi l’anno successivo e divenire il settimo Segretario di Stato per l’India. Dal 1868 al 1869 fu Segretario Finanziario del Tesoro. Dopo molti altri incarichi prestigiosi, fu fatto Sir ma rifiutò il titolo nobiliare.

Sicuramente egli fu un intermediario con gli ambienti vicini alla Corona al di là dei finanziamenti diretti cui lo storico Alex Ricchebuono si riferisce. Non sono in grado di appurare se la Compagnia che finanziò sia direttamente legata al personaggio citato ma appare evidente da quanto ho descritto il quadro di tali operazioni.

Riprendo la descrizione dello storico Ricchebuono: «Sull’onda della creazione mazziniana nacque a Mantova un comitato molto simile fondato da Don Enrico Tazzoli, diretto a rafforzare il prestito di Londra».

Si apre qui un altro capitolo. Don Enrico Tazzoli era in rapporti parentali con gli Arrivabene e i Gonzaga. Rimando in rete a una mia pubblicazione in proposito.[2] E una lettera rintracciata in archivio a Lucca che cito nello scritto indica nell’Arrivabene in Londra nel 1839, quindi assai prima delle vicende ascritte, la presenza di movimenti sovversivi di diversi patrioti italiani, col coinvolgimento di noti personaggi oltre all’Arrivabene medesimo, come Gabriele Rossetti, il Vate, il Piemontese editore Pietro Rolandi, Miglio, Beolchi e soprattutto Antonio Panizzi, il futuro Sir Panizzi, all’epoca direttore del British Museum. Da rimarcare che il riferimento della lettera è al Duca Borbonico Lucchese Carlo Ludovico, che frequentava assiduamente quegli ambienti per costruire una unità nazionale «ante litteram» col concorso di altri Sovrani della Penisola.[3] La volontà che il Tazzoli inseguiva, un Tazzoli a suo modo «mazziniano», non ebbe la meglio e dunque subentrò l’Unità con Casa Savoia.

Proseguo dunque con la narrazione che fa delle vicende lo storico Ricchebuono: «Una volta compiuta l’unificazione, la famiglia Savoia si trovò in eredità diversi istituti di credito con funzioni di Banca Centrale. Per ragioni di convenienza e soprattutto per mancanza di valide alternative (non esisteva infatti una zecca a Torino in grado di soddisfare la nuova massiccia richiesta) si optò per mantenere ben sei banche d’interesse nazionale. La Banca Nazionale del Regno a Torino; la Banca Toscana di Credito e la Banca Nazionale Toscana; la Banca Romana, al centro di uno scandalo che la portò ben presto al fallimento; il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Questi ultimi assai più ricchi e capitalizzati di tutti gli altri messi insieme, tanto da essere nel 1860 i due istituti di credito più solidi d’Europa».

Mi permetto in proposito di osservare, e la descrizione che ho sostenuto nella pubblicazione sul duca Carlo Ludovico di Borbone, citata, lo attesta,[4] che tutti i Sovrani della Penisola che di casata non facevano Asburgo furono coinvolti nelle manovre del Duca e di Londra ben prima del 1850. Il Borbone-Parma rappresentava indubitabilmente un collante tra Nord e Sud Italia. Era cugino sia di Carlo Alberto di Savoia che del Sovrano delle Due Sicilie. E fu protestante, almeno per un certo periodo. Dunque votato a una visione europea allargata, che tanto piaceva sia a Londra che alla Roma favorevole a una revisione più spirituale che temporale del potere romano. Senza contare l’intervento in tali operazioni della potente famiglia Bonaparte, allora di stampo mazziniano.

È evidente che in un’ottica politica di questo tipo non poteva non creare imbarazzo un Banco di Napoli e un Banco di Sicilia più fiorenti rispetto agli altri Istituti bancari della Penisola. Sicuramente un sistema federale integrato era maggiore garanzia di equilibri da ricercare. Nessuno poteva prevedere e/o immaginare quanto si verificò proprio tra il 1850 e il 1860.

Proseguo con la pubblicazione del Professor Alex Ricchebuono: «Già alla fine degli anni Settanta del XIX secolo (ossia subito dopo l’Unità) iniziarono a crearsi non pochi problemi per questa situazione. Venne quindi costituito un consorzio formato dalle Banche Nazionali, con l’intento di far circolare denaro che potesse essere ovunque con la medesima veste grafica. L’esperimento non durò a lungo dato che le banconote dovettero essere stampate in Germania».

Questa affermazione da sola denota lo stato di estrema fragilità e la non statualità del Sistema Paese. Si trattò infatti di un improvvisato «fai da te» e le successive frasi dello storico Ricchebuono lo confermano: «Più o meno nello stesso periodo iniziarono a circolare i cosiddetti biglietti fiduciari emessi da piccole banche locali e aziende private con un ingente capitale depositato, ma pure da associazioni di operai e lavoratori. Queste emissioni si basavano interamente sulla fiducia accordata all’emittente e non offrivano alcuna garanzia di equivalenti depositi in metallo prezioso. Alcuni di questi Istituti fallirono per l’ingordigia e la poca lungimiranza di chi li gestiva e anche questa esperienza terminò miseramente. Fu solo nel 1926, sotto Benito Mussolini, che si creerà effettivamente la Banca d’Italia come unico emittente nazionale».

Periodo cruciale questo, ma anche fortemente costruttivo del sistema bancario nazionale.

Se una legge bancaria del 10 agosto 1893 aveva istituito la Banca d’Italia, il suo direttore generale dal 1894 al 1900, Giuseppe Marchiori, poté solo avviare il processo di transizione verso una unica banca di emissione. La Banca restava in effetti una società per azioni privata, che poteva emettere moneta solo in regime di concessione. La parità della Lira con l’oro fu raggiunta nel 1902. Sicuramente alla vigilia della Prima Guerra Mondiale la Banca d’Italia rivestiva un suo ruolo finanziario centrale nel panorama finanziario nazionale.

Ma solo nel 1926, appunto, che si rivalutò la Lira, deflazionando l’economia. Fu attribuito alla Banca il monopolio delle emissioni. Fu anche varata una legge per la tutela del risparmio. Nell’arco di un triennio si ebbero i più ampi cambiamenti.

Nel 1928 fu approvato lo Statuto che prevedeva la figura del Governatore.

Ci si trovò dalla piena recessione di fatto a una piena rivalutazione della Lira. Trovandosi l’Italia con un attivo molto immobilizzato si procedette alla creazione di due istituti essenziali: IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). La reale trasformazione bancaria della Banca d’Italia si ebbe però nel 1936 quando l’Istituto divenne di diritto pubblico. Fu affidata quindi in via ufficiale e definitiva alla Banca la sua funzione di emissione non più in concessione. Questa parte dell’ordinamento è tutt’ora in vigore. La parte del regolamento che prevedeva la vigilanza creditizia e finanziaria della Banca è stata abolita nel 1993.

Un recente convegno del settembre 2021 del Centro Pannunzio a Torino ha celebrato i 25 anni dalla scomparsa di Renzo de Felice, lo storico che più di chiunque altro mise in evidenza l’importanza di questo processo costruttivo in epoca fascista nel percorso della Banca d’Italia. De Felice espresse una analisi lucida delle condizioni storiche che ci hanno caratterizzato.

Cosa che oggi più che mai dovrebbe fare chi, come ricorda lo stesso storico Alex Ricchebuono, si occupa di finanza nel nostro Paese, e che spesso non affronta le questioni finanziarie attuali alla luce di conoscenze storiche pregresse, come sarebbe opportuno fare.


Note

1 Alex Ricchebuono, Il filo rosso che lega il denaro del Risorgimento ai nostri giorni, Sim Blog on line, pubblicazione del 5 febbraio 2016.

2 www.storico.org, Gli Arrivabene, Elena Pierotti, settembre 2016.

3 Giulio Quirico, Il Novarese Michele Parma (1802-1871) filosofo del Risorgimento Sociale-Religioso, Edizioni Ladolfi Novara 2020, in nota un mio saggio sul Duca Carlo Ludovico di Borbone-Parma.

4 Ibidem.

(maggio 2022)

Tag: Elena Pierotti, Banca d’Italia, Sir James Stanfeld, Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini, Carlo Ludovico di Borbone, Don Enrico Tazzoli.