Caporetto: riflessioni sulla disfatta italiana
Un centenario complesso

La concomitanza con il centenario della Grande Guerra ha dato luogo ad un forte incremento delle celebrazioni, e nello stesso tempo, dell’analisi storiografica. Tra gli eventi specifici, un’attenzione particolare è stata rivolta al dramma di Caporetto (24 ottobre-9 novembre 1917): da un lato, per la rilevanza oggettiva di quel fatto d’arme nel quadro dell’intero conflitto, e dall’altro, per le suggestioni che il disastro italiano avrebbe esercitato a livello politico e popolare, senza dire delle conseguenze indotte, non soltanto nell’immediato. In ogni caso, le due settimane che intercorsero fra lo sfondamento del fronte nell’Alto Isonzo e l’assestamento definitivo sulla linea del Piave, furono decisive.

Nell’ambito delle tante pubblicazioni rivolte sia all’informazione generale, sia a quella degli addetti ai lavori, l’opera di Nicola Labanca, docente di Storia contemporanea all’Università di Siena (Caporetto: Storia e memoria di una disfatta, Edizioni Il Mulino, Bologna 2017, 240 pagine) si distingue per la sostanziale obiettività di giudizio, per l’agilità della presentazione, e soprattutto per talune originali interpretazioni in chiave generale, non tanto sulle ragioni che condussero a Caporetto, già analizzate in maniera esaustiva dalla storiografia d’epoca e da quella più recente, quanto sugli effetti militari, politici e diplomatici della sconfitta, e sulle straordinarie capacità di ripresa, manifestate dall’Italia nonostante la presenza di opposizioni permanenti, notevolmente più agguerrite rispetto a quelle degli altri Paesi belligeranti.

Muovendo da cifre globali sempre fortemente significative, come i 48 milioni di mobilitati, i nove milioni di vittime ed i 21 milioni di feriti, e da una documentazione di straordinaria ampiezza che si estende dalle opere di maggiore rilevanza scientifica – come quelle di Enzo Forcella e Alberto Monticone, Mario Isnenghi, Adolfo Omodeo, Giuseppe Prezzolini e Giorgio Rochat – ai contributi delle innumerevoli fonti militari e civili, l’Autore ricostruisce in efficace sintesi le matrici della disfatta, negando la tesi ormai obsoleta dello «sciopero militare» anche alla luce dei valorosi combattimenti di retroguardia durante la ritirata; confermando gli errori strategici di Luigi Cadorna e della sua dichiarata preferenza per la guerra d’offesa a costo di lasciare sostanzialmente scoperte le linee di supporto; e mettendo in luce come la «stanchezza» delle nostre forze armate fosse comune a tutti gli eserciti in campo, anche se i turni di riposo vigenti in campo italiano risultavano piuttosto ridotti.

Molti soldati non erano affatto «vili» come qualcuno, a cominciare dallo stesso Cadorna, avrebbe sbrigativamente ed ingiustamente sentenziato, ma nonostante le condizioni spesso umilissime non erano privi di un particolare modello «patriottico» in cui trovavano spazio prioritario le preoccupazioni per la famiglia lontana e per la modesta economia agricola di sopravvivenza basata sul raccolto dei campi e l’allevamento di pochi animali: non a caso, anche per questo aspetto la gestione del Comando Supremo condotta da Armando Diaz durante l’ultimo anno di guerra sarebbe stata molto più aperta e disponibile, superando almeno in parte l’incompetenza e lo scarso senso umano di cui non pochi Generali ed ufficiali superiori avevano dato prova.

Si diceva delle conseguenze diplomatiche di Caporetto: a questo riguardo, Labanca mette in luce come la pesantezza della sconfitta militare, attenuata soltanto in parte dal «sole» di Vittorio Veneto, avrebbe condizionato negativamente, a tutto detrimento italiano, le stesse trattative di pace. In particolare, le statuizioni del Patto di Londra stipulato dal Governo Salandra con Gran Bretagna, Francia e Russia prima della discesa in campo del 24 maggio 1915, ne risultarono molto affievolite nella percezione dei plenipotenziari alleati – e nella psicologia di quelli italiani –, tanto da condizionare in modo sostanzialmente irreversibile le nostre attese sulla Dalmazia, che sarebbe rimasta irredenta con la sola eccezione della piccola «enclave» di Zara e del territorio circostante, anche per la sopravvenuta opposizione del Presidente Americano Wilson.

Sul fronte interno, Caporetto ebbe conseguenze non meno complesse: innanzi tutto, per i 600.000 profughi che abbandonarono il Friuli ed alcuni distretti settentrionali del Veneto, andando ad accrescere in misura drammatica i problemi indotti dalla rotta militare; e poi per la presenza di opposizioni assai pervicaci, a cominciare da quella socialista in cui prevalevano le pregiudiziali del massimalismo intransigente, per non dire di quella cattolica, esaltata dalla critica del Papa Benedetto XV nei confronti di una guerra interpretata, non senza motivato e consapevole realismo, alla stregua di una «inutile strage». Tale atteggiamento assumeva ovvio carattere prevalente rispetto alla presenza comunque innovatrice di taluni esponenti cattolici, a cominciare da Filippo Meda, nella compagine governativa.

Non erano mancate gravi difficoltà militari di tipo tecnico, in aggiunta alle opzioni offensive di Cadorna: ad esempio, le non poche vittime provocate dal «fuoco amico» dell’artiglieria, ed in qualche caso, persino dell’aviazione, quasi a dimostrare quanto fossero perfettibili certe concezioni strategiche e tattiche ormai anacronistiche, già sperimentate negativamente nelle guerre d’Africa, ed in primo luogo nel disastro altrettanto epocale di Adua (1896). Ciò, senza dire della prassi di diffusi «siluramenti» a carico di ufficiali non soltanto superiori, spesso con motivazioni labili, nella fallace presunzione di comminare punizioni esemplari che si risolveva, invece, in frequenti appiattimenti sulle volontà monocratiche del Comando Supremo, lontane da una reale conoscenza dei problemi al fronte: anche in questa fattispecie, con modificazioni strategiche importanti durante la gestione conclusiva di Diaz, in un’ottica di razionale e ragionevole cooperazione.

Caporetto trova motivazione, come fattore propedeutico decisivo, nel salto di qualità effettuato dal nemico con l’ausilio di nuove forze germaniche specializzate nella tecnica dell’infiltrazione e della manovra (vi ebbe un ruolo di qualche rilievo anche il giovane Erwin Rommel), in luogo della tradizionale guerra di posizione, e nell’utilizzo spregiudicato dei gas asfissianti; ma un grave concorso di responsabilità si ebbe da parte italiana, ignorando le informazioni peraltro carenti circa l’offensiva in preparazione da parte del nemico, nella presunzione non meno fallace che si trattasse di un diversivo tattico, e soprattutto che la guerra sarebbe stata decisa in primavera.

L’Autore non concorda con la tesi di quanti hanno ravvisato nel conflitto del 1915-1918 una «Quarta Guerra d’Indipendenza» – diversamente da altri storici autorevoli come Gilles Pécout – anche alla luce delle statuizioni con cui le Potenze Alleate, stipulando il Patto di Londra, avevano garantito all’Italia, oltre alle terre adriatiche irredente, ulteriori compensi territoriali in Turchia e nel mondo coloniale tedesco; e dichiara di comprendere il dissenso popolare nei confronti di una guerra che, in definitiva, era stata voluta dalla Monarchia, dal Governo e dalle forze dell’interventismo, sia nazionaliste che democratiche, ma non dalla maggioranza parlamentare. Nondimeno, ravvisa proprio in Caporetto, nella grande ritirata fino al Piave, e nella nuova ottica della «difesa patriottica» agevolata dalla forte riduzione del fronte e dalle accresciute difficoltà logistiche del nemico, una svolta fondamentale capace di chiamare a raccolta le forze del Paese, di silenziare le opposizioni più riottose, e di porre le premesse di Vittorio Veneto.

In altri termini, se nel primo triennio del conflitto lo scollamento tra la classe politica ed i «poteri forti» da una parte, e le forze combattenti e popolari dall’altra, era stato drammaticamente palese, la momentanea sconfitta valse a compattare una sorta di ritrovata volontà generale ed a sublimare la sofferenza in un contesto volitivo, ed in qualche misura etico, che non avrebbe mancato di dare frutti importanti anche a lungo termine.

(giugno 2018)

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