Centenario di Sarajevo
Spunti di riflessione sullo scoppio della Grande Guerra

I colpi di rivoltella che risuonarono nel capoluogo bosniaco il 28 giugno 1914, uccidendo Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono di Vienna, e la moglie Sofia, chiusero un’epoca e diedero luogo ad una tragedia storica incommensurabile, in cui furono coinvolti gran parte degli Stati Europei, e successivamente, anche Stati Uniti e Giappone. Niente sarebbe più stato come prima: alla fine del conflitto, la carta geografica vide la cancellazione degli Imperi Centrali e di quello Ottomano, e la genesi di nuove realtà statuali come Cecoslovacchia, Jugoslavia ed Ungheria. Prima ancora, si ebbero il crollo dell’autocrazia zarista e l’avvento dei Soviet.

Nessuno avrebbe potuto presumere che da quei colpi sorgesse un mondo nuovo, ed a prezzo di troppe vittime incolpevoli. Nondimeno, fu dalla Grande Guerra che emerse, anche in Italia, una più matura consapevolezza dei diritti collettivi e delle attese individuali: la storiografia europea, ormai, non è aliena dall’affermare che la vera Unità Nazionale Italiana fu conseguita durante la «quarta guerra d’indipendenza» combattuta nel fango delle trincee, dal Carso al Grappa e dall’Isonzo al Piave.

Il conflitto ebbe inizio il 28 luglio, con le prime operazioni belliche dell’Austria contro la Serbia, a cui appartenevano i cospiratori di Sarajevo. Pochi giorni prima, Vienna aveva trasmesso a Belgrado un ultimatum inaccettabile, e pochi giorni dopo, l’effetto domino si sarebbe compiuto con la discesa in campo della Germania, legata all’Impero Asburgico sin dal 1879, e con quella della Russia e della Francia a fianco della Serbia, seguite quasi subito dalla Gran Bretagna, a fronte dell’invasione tedesca del Belgio, alleato degli Inglesi.

Qui, non si vuole percorrere ancora una volta la storia politica e militare di quegli anni, ma limitarsi a promuovere, in occasione del centenario, qualche spunto di meditazione non effimera.

Sarajevo, prima di tutto, fu l’attestato di un anacronismo, nel senso che una guerra dalle dimensioni mai viste in precedenza, se non altro per il coinvolgimento di enormi masse di civili e di soldati, e per l’importanza dei mezzi utilizzati dagli eserciti contrapposti, venne scatenata per volontà di pochi e per ragioni che nessuno ritenne di verificare in un negoziato tecnicamente possibile ma politicamente precluso sull’altare di pregiudiziali assolute, senza spazi residui per diplomazie ormai impotenti.

In secondo luogo, fu una sorta di «de profundis» per il vecchio regime che si richiamava ancora a principi mutuati dalla Santa Alleanza di un secolo prima, nonostante le affermazioni del principio di nazionalità conseguite almeno parzialmente nel corso dell’Ottocento ed il «grido di dolore» dei popoli tuttora oppressi. Tuttavia, gli esiti della Grande Guerra sarebbero stati lungi dall’essere risolutivi, creando nuove ingiustizie, l’ultima delle quali a danno dell’Italia per il mancato riconoscimento di quanto era stato garantito col Patto di Londra; e soprattutto, creando i presupposti di ulteriori problemi, alcuni dei quali si sono protratti fino ai nostri giorni.

La voce di chi aveva titolo per denunciare «l’inutile strage» come il Santo Padre non venne presa in considerazione, quasi a sottolineare che le grandi Autorità morali non possono contare su adesioni politiche conseguenti, quando gli interessi in campo divergono fortemente da quelli universali: anche questo è un fenomeno riproposto più volte nella storia, onde ribadire che i richiami etici e le stesse normative internazionali conservano caratteri deontologici e nulla più, qualora non siano supportati da un adeguato sistema di sanzioni.

Non è inutile sottolineare che la causa scatenante della conflagrazione mondiale ebbe matrici balcaniche, in un contesto caratterizzato da forti tensioni locali e dai ripetuti conflitti degli anni precedenti. Fu certamente importante il ruolo esercitato dall’autoritarismo austro-ungarico, nella conclamata volontà di azzerare i conati rivoluzionari che venivano maturando ai confini dell’Impero, senza dire della tentazione di «liquidare» l’Italia, già accarezzata dallo Stato Maggiore di Vienna nel 1908, quando il grande terremoto di Messina era sembrato fornire un’occasione irripetibile, sebbene tanto immonda da provocare il veto della stessa Corona Asburgica.

Nell’immensa tragedia della guerra, non mancarono episodi importanti di cooperazione internazionale, il maggiore dei quali vide protagonista proprio l’Italia, col salvataggio dell’esercito serbo attraverso l’Adriatico, avvenuto sul finire del 1915 tramite una lunga serie di trasporti dall’Albania alle Puglie, in cui furono impiegate 45 navi della Regia Marina, alcune delle quali affondate a causa delle mine austriache: in quell’occasione, oggi ricordata da una semplice lapide nel porto di Brindisi, l’emergenza umanitaria ebbe carattere lodevolmente prioritario, anche se i Serbi traghettati in Italia assieme al loro Sovrano ed a quello del Montenegro non raggiunsero i 100.000, mentre le perdite della loro dolorosa anabasi furono almeno triple.

A proposito dell’Italia, giova rammentare che, nella fattispecie, l’effetto di Sarajevo non fu determinante, perché passarono altri dieci mesi prima della sua discesa in campo, certamente più meditata e matura di quella altrui. La decisione fu molto discussa, ma nello stesso tempo promossa in misura quasi determinante da una volontà politica extra-parlamentare cui non erano estranei, col richiamo di Trento e Trieste, anche quelli di Gorizia, Istria e Dalmazia.

Ad un secolo da Sarajevo è troppo facile dire che quei colpi di pistola contro Francesco Ferdinando e Sofia avrebbero potuto e dovuto essere risparmiati. Le buone intenzioni, ammesso che esistano, non consentono di essere perseguite con il ricorso all’iniquità; tuttavia, è parimenti vero che le maggiori conquiste sociali sono state ottenute al prezzo di lunghi sacrifici e di confronti non necessariamente cruenti, ma pur sempre difficili, duri e sofferti.

Nel tramonto asburgico che aveva già visto drammi di forte impatto emotivo come l’esecuzione di Massimiliano, la morte di Rodolfo e l’uccisione dell’Imperatrice per mano di un anarchico, Sarajevo fu l’apporto sostanzialmente decisivo alla catarsi finale, che sarebbe sopraggiunta due anni dopo con la scomparsa di Francesco Giuseppe, simbolo di una lunga stagione suggestiva e talvolta sinceramente rimpianta, ma nello stesso tempo, ormai obsoleta e troppo spesso oscurantista, come ricordano le forche su cui si immolarono tanti patrioti italiani. Né valse a recuperare prospettive di ripresa e di consenso l’estrema esperienza di Carlo, l’ultimo Imperatore travolto da una caduta degli dèi di stampo wagneriano pur senza nuove colpe significative ed anzi, circondato da un alone di santità.

In tutta sintesi, Sarajevo non fu un prodotto della Nemesi, come qualcuno ha voluto alquanto frettolosamente presumere, ma un fatto, seppure dalle conseguenze straordinarie. A volte la storia si serve di eventi in apparenza marginali per indurre, nel bene e nel male, autentiche rivoluzioni.

(giugno 2014)

Tag: Carlo Cesare Montani, attentato di Sarajevo, Prima Guerra Mondiale, Serbia, Italia, Impero Austro-Ungarico, Trento, Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia, vittoria mutilata, Patto di Londra, Sofia, Francesco Ferdinando d'Asburgo, quarta guerra d'indipendenza, Santa Alleanza.