I colori della musica
Questo articolo nasce da una sintesi di un ciclo di conferenze tenute dall’insegnante di musica Enrico Balestreri e dalla professoressa di educazione artistica Marina Colombo. I due docenti hanno cercato di esplorare il mondo dei colori e dei suoni, cercando di capire in che misura il colore influenza i suoni, e il suono i colori, esplorando i capolavori dell’arte dove la «contaminazione tra suoni e colori» si è rivelata in modo particolarmente evidente

A prima vista, il titolo di questo articolo potrebbe stupire: i colori… e la musica, insieme.

Per molti, un tale accostamento è assurdo: il colore riguarda la pittura, l’occhio, la vista; la musica ha invece il suo campo nel suono, l’orecchio, l’udito. L’osservazione da una parte, l’ascolto dall’altra. Due zone ben distinte.

In realtà, molti termini nati in ambito musicale vengono spesso usati parlando di opere d’arte (non solo pittoriche): armonia (per esempio, di una statua), ritmo, timbro (qualità del colore), silenzio o rumore.

Proviamo a stilare, per brevi cenni, il percorso in cui si sono intrecciate pittura e musica tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo: esso sarà l’inizio di un cammino tuttora in atto, che porterà l’arte a spogliarsi di tutto ciò che l’aveva caratterizzata fino a quel momento, per cercare nuove forme e nuovi modelli di espressione.


Il colore oltre la forma

Partiamo dalla pittura. Il colore, com’è noto, determina la forma, anzi, la supera diffondendosi liberamente, completamente sulla superficie della tela. Ci riferiamo, a titolo di esempio, a tre famosi quadri.

La cattedrale di Rouen

Claude Monet, La cattedrale di Rouen, il portale e la torre di San Romano, 1893, Museo d'Orsay, Parigi (Francia)

Il primo è La cattedrale di Rouen, il portale e la torre di San Romano di Monet, del 1893 (si tratta di un edificio di stile gotico, un luogo sacro e monumentale). In realtà, Monet ha dipinto, tra il 1892 e il 1894, ben trentun tele sullo stesso soggetto: ha preso uno studio proprio davanti alla cattedrale, che dipinge in diverse ore della giornata e in differenti stagioni dell’anno, quindi in condizioni atmosferiche e di luce ogni volta dissimili; quando la luce cambia, interrompe la tela a cui sta lavorando. La posizione è laterale, con un’inquadratura ravvicinata. Il colore determina la forma, nel senso che le pennellate definiscono le linee dell’edificio dall’incidenza della luce – una luce radiante, che corre parallela alla superficie della chiesa: la cattedrale non è disegnata (non ha un contorno netto), ma ottenuta attraverso uno stesso colore in gradazioni diverse; sembra quasi una trama, un tessuto di colore. I colori sono stesi senza alcuna sfumatura, sono spessi, stratificati («materici»), per dare l’effetto della pietra scolpita; le ombre sono ottenute con tocchi di colore puro, non nero. Nel maggio del 1895 Monet seleziona venti tele della serie della cattedrale che espone una accanto all’altra come fotogrammi di un percorso filmico nella galleria parigina di Durand-Ruel, riscuotendo larga eco ed un grande successo di vendite: la Cattedrale di Rouen, nelle sue diverse variazioni cromatiche, diventa uno dei modelli di riferimento per l’Astrattismo.

Il grido

Edvard Munch, Il grido, 1893, Munch-museet, Oslo (Norvegia)

Il secondo quadro è probabilmente noto a tutti: Il grido di Munch, del 1893; olio, tempera e pastello su cartone. È il pittore stesso a descriverci la genesi del quadro: «Camminavo lungo la strada con due amici. Quando il sole tramontò il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco ad un recinto, sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». Nel quadro, il colore si diffonde liberamente attraverso l’ambiente. In primo piano c’è un personaggio mostruoso, il cui volto terrorizzato è incastonato in un cranio enorme, più simile ad un teschio; ha gli occhi sbarrati, una bocca spalancata dalle labbra nere, mani allungate; il corpo è instabile, insicuro, piegato su se stesso. L’unico elemento rettilineo è un ponte, di cui non si vedono però né l’inizio, né la fine. Il cielo è rosso sangue, un colore steso con violenza che genera angoscia; al di sotto, acque cupe dalle linee mosse. I colori presentano ancora legami con la realtà, ma vengono intensificati: i contrasti cromatici sottolineano l’angoscia del personaggio e della natura, tragicamente ostile; le pennellate evocano onde sonore, il grido disperato del protagonista che si ripercuote nel paesaggio circostante.

Improvvisazione 19

Kandinsky, Improvvisazione 19, 1911, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo (Russia)

Il terzo quadro è l’Improvvisazione 19 di Kandinsky, del 1911. Dal 1909 Kandinsky, che parte dalla «lezione» di Monet, dipinge opere intitolate «composizione» e «improvvisazione», termini derivati dal linguaggio musicale. Il colore non ha più alcun legame col disegno: qui si ricerca l’astrazione, non vi è la descrizione di un dato naturale o reale (verrà recuperato solo nell’ultima parte della vita dell’artista), ma colori e forme – svincolati sia dalla funzione descrittiva che dalla rappresentazione oggettiva – interagiscono liberamente sulla superficie e trasmettono sensazioni unicamente attraverso la loro presenza, per esempio attraverso la semplice contrapposizione tra colori caldi e il blu, ottenuta con pennellate corpose. Abbiamo esili figure in primo piano, a destra, sopra un’ampia distesa di colore blu, e figure più piccole a sinistra, tutte dipinte con forme essenziali, sintetiche, e linee spesse; i passaggi cromatici sono rapidi, sommari e ben distinguibili. Le improvvisazioni sono espressione di processi interiori, in larga parte inconsapevoli.

Quando la pittura perde il disegno, ovvero la pretesa descrittiva del dato reale, allora si avvicina alla musica. Lo stesso Kandinsky spiega che «il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima». La musica non descrive nulla di oggettivo. Tre sono gli elementi che la costituiscono: il senso tonale (costruzione di elementi che ci permettono un senso musicale per noi logico: tante note insieme, concatenate in un determinato modo), il fraseggio (ritmo) ed il suono. Dapprima, si perdono il senso tonale ed il ritmo; nel Novecento, la dissonanza ed il rumore divengono gli unici elementi di riferimento. Lo possiamo notare in un brano come Amerique di Várese (1893-1965), del 1922: non esiste una sinfonia immediatamente riconoscibile come tale, ma una cacofonia di suoni che ricordano il caos di una città, o di un’industria fervente di attività.

Un ultimo accenno allo stretto legame che unisce pittura e musica: Kandinsky è arrivato ad attribuire ad ogni colore uno strumento e, di conseguenza, un suono tipico: egli «sente» l’azzurro indifferente e distante come il flauto; il rosso caldo, vivace, irrequieto e profondo come la tuba, se è rosso chiaro ricorda il suono delle fanfare e se è rosso scuro il rullo di tamburi; l’arancio, vibrante di energia e movimento, è la campana della chiesa; il giallo, alto, forte, folle e prorompente, evoca la tromba; il verde, quiete appagata, è il violino; il viola (un compromesso tra il rosso e il blu), instabile, suona come il corno inglese o la zampogna e, quand’è più scuro, ricorda i toni bassi e le note profonde del fagotto e dell’oboe; il blu profondo è il violoncello e, a mano a mano che il colore diventa più cupo, ricorda i suoni del contrabbasso e i toni gravi e solenni dell’organo; il bianco è silenzio di nascita e di creazione, corrisponde alla pausa che interrompe momentaneamente lo sviluppo di una musica; il nero è silenzio di morte, può essere rappresentato come una pausa conclusiva, dopo la quale non c’è più nulla.


Il colore simbolico

Utilizziamo il termine «simbolico» nel senso di «evocativo».

Tre sono i quadri che analizzeremo.

Strada principale e strade secondarie

Paul Klee, Strada principale e strade secondarie, 1929, Museum Ludwig, Colonia (Germania)

Il primo è Strada principale e strade secondarie di Klee, del 1929, che richiama le atmosfere suggestive rimaste impresse nella sua memoria dopo un viaggio in Nord Africa. Nonostante Klee sia un pittore astrattista, nel quadro il paesaggio, reso con un reticolo geometrico di linee convergenti, è ancora riconoscibile (c’è la volontà di mantenere un ordine compositivo, la simmetria – strisce orizzontali e verticali intersecate da linee oblique, ai lati strade strette e segmentate): vi si distinguono strade e appezzamenti di terreno gialli e arancioni, e l’azzurro dell’acqua del Nilo; lo scenario è rappresentato dall’alto, come una riproduzione aerea, e in maniera prospettica – le immagini sono riconducibili alle pitture parietali egizie; la trama è fitta di colori delicati e raffinati, ispirati forse dalle tinte e dalle composizioni geometrizzate dei tessuti orientali. Klee rivive ciò che ha conosciuto filtrato dalla memoria, per rendere visibile l’invisibile. Figlio di musicisti, marito di una pianista, egli stesso ha studiato violino in Svizzera, ma poi ha iniziato a disegnare. Intende, con la pittura, suggerire il potere evocativo della musica, cosa che gli riesce esclusivamente grazie all’uso del colore (un colore acquerellato, diluito, slavato, mentre i segni grafici rappresentano l’usura del tempo).

Bagnanti

Paul Gauguin, Bagnanti, 1897, National Gallery of Art, Washington D. C. (Stati Uniti)

Per il secondo quadro dobbiamo tornare indietro nel tempo di qualche anno: è infatti le Bagnanti di Gauguin (1897). Il tema delle bagnanti è piuttosto diffuso nella storia dell’arte, dato che permette di unire il tema del paesaggio al tema del nudo femminile; possiamo ricordare, a questo proposito, il Paesaggio con donne bagnanti del Guercino (1621), Le bagnanti di Fragonard (1765), Le bagnanti di Courbet (1853), Le grandi bagnanti di Renoir (1887), Le grandi bagnanti di Cezanne (1898-1905), le Bagnanti di Derain (1907), fino ad arrivare alla prosperosissima Bagnante di Botero (2000). Nella sua opera, Gauguin evoca col colore l’atmosfera, i profumi, i suoni e le luci di una terra incantevole, da lui conosciuta nel suo soggiorno sulle Isole Marchesi ed a Tahiti. Il quadro rappresenta quattro giovani donne tahitiane, due – dallo sguardo timido – a sinistra di un tronco sottile che separa a metà la tela, due – con un’impostazione più scultorea – a destra. Lo spazio e l’atmosfera sono onirici e paradisiaci, immersi in una natura lussureggiante, e fanno pensare alle opere d’arte dell’artigianato che si diffondono in Europa nella seconda metà dell’Ottocento. Due sono le aree cromatiche: campeggiano colori freddi e cupi nella parte superiore del dipinto, colori caldi e delicati, chiari in quella inferiore, che vogliono evocare profumi e suoni (altamente evocativo è, per esempio, il rosa dei fiori sulle sponde del fiume). Il linguaggio è molto semplice, per recuperare il primitivismo e il gusto per la sincerità. In un’intervista del 1895 Gauguin spiega, con molti termini desunti dal mondo della musica: «Ogni particolare della mia opera è calcolato e meditato a lungo. È musica se volete! In accordi di linee e colori, col pretesto di un soggetto qualsiasi legato alla vita o alla natura, raggiungo armonie e sinfonie che non hanno niente di reale nel senso comune del termine, che non esprimono alcun pensiero immediato, ma sanno stimolare, come solo la musica può fare senza l’aiuto di particolari idee o immagini, soltanto attraverso le segrete affinità del nostro cervello con questi accordi di colori e linee».

Il bacio

Gustav Klimt, Il bacio, 1907-1908, Österreichische Galerie Belvedere, Schloss Belvedere, Vienna (Austria)

Il bacio di Klimt, del 1907-1908, non è la prima opera dell’autore sul tema dell’abbraccio, anche se è probabilmente quella più famosa. L’artista appartiene alla pittura liberty (art noveau, stile floreale). L’uomo e la donna che si baciano sono fusi in un abbraccio, uniti da un unico mantello che sottolinea il gusto per la decorazione tipico dell’art noveau: in corrispondenza dell’uomo il mantello è decorato con rettangoli, in corrispondenza della donna è decorato con ovali. Gli amanti sono racchiusi da una linea di contorno molto morbida, con andamento curvo, in un ambiente magico reso da Klimt stendendo sulla tela dell’oro, o applicandolo in sfoglia, dando così la sensazione di un pulviscolo dorato, di spiritualità: l’amore, ci suggerisce il quadro, trasporta le due anime in un luogo indefinito e che non ha tempo. L’uso dell’oro evoca sontuosità, ricchezza, preziosità dei motivi decorativi, una dimensione magica ed ultraterrena. L’unico elemento naturalistico è un prato che ricorda l’«hortus conclusus», un giardino recintato tipico delle abbazie medievali che veniva coltivato con erbe officinali, un luogo quindi molto gradevole e prezioso – tutto, nella pittura di Klimt, rivela una conoscenza molto profonda della cultura gotica italiana e dei mosaici ravennati (la Madonna con Bambino di Gentile da Fabriano; la Madonna e Santi nel giardinetto del Paradiso di Anonimo, 1410; la Teoria delle vergini nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo; il Martirio di Santa Lucia di Jacobello del Fiore…). I particolari fisici delle figure dei personaggi sono pochissimi, ma resi con grande verosimiglianza. Non c’è invece alcun riferimento all’uso della prospettiva ed alla profondità spaziale, perché avrebbe reso il tutto troppo terreno.

La musica vede perdere gli elementi che fino ad ora l’hanno caratterizzata.

Col preludio del Tristano e Isotta di Wagner si apre una via che d’ora in poi diventerà d’obbligo: non c’è più la logica del percorso armonico (il senso tonale), ma del turbamento dell’uomo romantico, dell’insicurezza. Il linguaggio musicale è arte che è soltanto pensiero, idea: ci si stacca dal linguaggio scontato, si rompe con la tradizione – non per niente dal Tristano si arriva all’Impressionismo, anzi, si parla addirittura di «Tristan-accord». Wagner usa anche il silenzio come suono.

Se, oltre al senso tonale, togliamo anche il fraseggio, ci rimane soltanto il suono.

Schoenberg (1874-1951), nel Pierrot Lunaire, usa questo linguaggio come rottura totale: la partitura non deve mai essere uguale a se stessa, non deve creare simmetrie a cui l’orecchio possa abituarsi. Lui stesso fa suonare il pianoforte come se fosse uno strumento a percussione, e la voce come se fosse «stonata», senza alcun legame con gli altri strumenti dell’orchestra.

Se Schoenberg appartiene alla scuola di Vienna dell’inizio del Novecento, l’ambiente di Debussy è la Parigi di fine Ottocento, polo d’attrazione di tutti gli artisti. Debussy mantiene il linguaggio del suono, ma toglie i punti sensibili: tra una nota e l’altra mette solo un tono, non un semitono, creando una musica totalmente nuova (la sua scala viene detta «scala esatonale»). I titoli, che condizionerebbero la direzione della nostra immaginazione, sono posti in fondo allo spartito. In pratica, cambia tutte le regole; sarebbe come se cambiasse le regole del gioco degli scacchi muovendo l’alfiere come un cavallo, la torre in diagonale anziché in verticale e orizzontale, il re di quante caselle volesse come fosse una regina – sarebbe impossibile giocare in questo modo. Il Preludio alle origini d’un fauno (1884) è un poema sinfonico, che mostra la sua volontà di partire da una ispirazione non musicale, e che sarà coronato da un successo straordinario; sfrutta un’orchestra piccola, quasi cameristica, con flauto ed arpa come strumenti musicali: è lo «sfumato» in musica, l’evocazione di un’atmosfera «evanescente». Il Chiaro di luna (1895), terzo movimento della Suite Bergamasca, rappresenta invece un quadro, non una vicenda; qui il pianoforte raggiunge il massimo delle proprie possibilità espressive, come se fosse un’intera orchestra.


Il colore espressivo

Il colore è espressivo in quanto, attraverso di esso, l’artista comunica se stesso.

Prenderemo in esame tre quadri assai famosi.

Poveri in riva al mare

Pablo Picasso, Poveri in riva al mare, 1903, National Gallery of Art, Washington D. C. (Stati Uniti)

Il primo è Poveri in riva al mare di Picasso. Si tratta di una tela del 1903, che appartiene al cosiddetto «periodo blu» dell’artista (1901-1904): un caro amico di Picasso si è suicidato per pene d’amore, e questo lo ha vivamente turbato; il colore (il blu declinato secondo tonalità diverse) e i soggetti rappresentati sono sempre gli stessi – persone che vivono in estrema solitudine. Il quadro raffigura una famiglia (un uomo, una donna, un bambino) sola ed isolata in riva al mare, su una spiaggia vuota, e l’isolamento fa pensare al dolore e ad una malinconia senza fine. Tutti i personaggi rivolgono lo sguardo verso il suolo, ma la loro postura rivela comunque una dignità; l’ombreggiatura, resa con il nero, dà volumetria ai corpi; la donna, in particolare, viene forse associata ad una colonna monumentale e rivela similitudini con pitture di Giotto. La linea di contorno è netta e marcata. Le persone si sviluppano verticalmente come figure geometriche, mentre l’acqua, la terra e il cielo, tutti intensamente blu (un colore freddo, glaciale), si stendono orizzontalmente; la scena ne risulta come congelata in un attimo eterno. Manca del tutto il quarto elemento, il fuoco, che con i suoi colori caldi avrebbe mitigato un poco la desolazione del paesaggio e dell’anima.

Guernica

Pablo Picasso, Guernica, 1937, Museo Nacional, Centro de Arte Reina Sofia, Madrid (Spagna)

Il secondo quadro è la tela forse più nota di Picasso, Guernica, del 1937. Rappresenta la «sconfitta» della popolazione civile di Guernica, cittadina basca completamente rasa al suolo dai bombardieri tedeschi durante la guerra civile spagnola (7.000 morti in un giorno solo). L’artista è a Parigi quando avviene il fatto, e il giorno dopo legge la notizia su un giornale francese: «Bilbao, 27 aprile 1937. Guernica, la più antica città dei Baschi e il centro della loro tradizione culturale, è stata completamente distrutta ieri pomeriggio da ricorrenti incursioni… i caccia si tuffavano bassi sopra il centro della città per mitragliare chi tra la popolazione civile non si era rifugiato nei campi. Tutta Guernica fu presto in fiamme… Oggi alle 2 del mattino, quando ho visitato la città, la vista è stata terribile; fiamme da un capo all’altro. Il riflesso delle fiamme poteva essere visto tra le nuvole di fumo dalle montagne a dieci miglia di distanza. Per tutta la notte le case cadevano, finché le strade divennero lunghi mucchi di impenetrabili macerie rosse. Carri con sopra alte pile di cose di famiglia che si erano potute salvare dalla conflagrazione, hanno intasato le strade per tutta la notte… molti sono stati costretti a rimanere in giro per la città in fiamme, stesi su materassi o cercando i parenti e i figli perduti… Lunedì era il consueto giorno di mercato a Guernica per la zona circostante. Alle 4,30 del pomeriggio, quando il mercato era affollato e i contadini stavano ancora arrivando, la campana della chiesa suonò l’allarme di aeroplani in avvicinamento, e la popolazione cercò rifugio nelle cantine… L’intera città di 7.000 abitanti, più 3.000 rifugiati, fu lentamente e sistematicamente fatta a pezzi… Quando sono entrato a Guernica dopo la mezzanotte, le case stavano crollando da entrambi i lati, ed era assolutamente impossibile per i pompieri arrivare al centro della città. Negli ospedali ardevano mucchi di tizzoni, tutte le chiese eccetto quella di Santa Maria erano state distrutte, e le poche case che ancora stavano in piedi erano destinate a cadere. Quando sono tornato a Guernica questo pomeriggio la gran parte della città stava ancora bruciando e nuovi incendi erano scoppiati. Una trentina di morti erano stesi in un ospedale in rovina». In realtà, la tela molto grande (otto metri per tre) rappresenta non un evento bellico preciso, ma la guerra, ogni guerra che porta solo dolore e tragedia. Dimensioni e formato ricordano i fregi decorativi dei templi greci (descrizioni epiche degli avvenimenti). Il quadro raffigura un bombardamento (le figure urlanti sono illuminate all’improvviso dai bagliori delle esplosioni), che si svolge contemporaneamente all’aperto e al chiuso di un edificio, e da vari punti di vista che ricordano sia le figure parietali egizie, sia i disegni dei bambini; questo è fondamentale per rendere il concetto: il disordine, il caos, la tragedia, le persone che si ammassano, un toro (che simboleggia la forza bruta, presente anche in altre opere di Picasso), un cavallo (che rappresenta il popolo spagnolo, l’impegno, la fatica) con una zampa spezzata che non può correre e «grida» per il dolore, una donna che urla disperata perché il figlio che tiene tra le braccia è ormai morto; unico elemento che dà speranza è un fiore, trattenuto nel pugno di un soldato esanime. Quello che balza subito all’occhio è il colore o, meglio, l’assenza del colore: riconosciamo solo il bianco, il nero e pochi grigi, tutti colori funebri; l’assenza del colore accentua il rimando ai fregi antichi, e il bianco e nero tipici degli articoli giornalistici sottolineano il senso di tragedia e di angoscia. Nel quadro, Picasso realizza una summa dei linguaggi pittorici del tempo; la scomposizione e la sintesi del Cubismo, la tensione e la deformazione dell’Espressionismo, le citazioni classiche (dalla Pietà di Michelangelo al Marat di David), il richiamo al disegno infantile contribuiscono ad aumentare la carica drammatica. Esposta a Parigi, la tela non riceverà consensi: molti troveranno umiliante che una guerra venga rappresentata in maniera così elementare. (Un aneddoto ricorda che, quando alcuni nazisti videro il quadro, chiesero a Picasso: «Maestro, voi avete fatto quest’orrore?», al che egli rispose: «No; voi avete fatto quest’orrore»). La tela sarà portata in Spagna solo negli anni Ottanta, dopo la morte di Franco (era desiderio dell’artista che il quadro potesse essere tenuto in Spagna solo dopo il ritorno della democrazia; verrà esaudito).

La danza

Henri Matisse, La danza, 1909-1910, The State Hermitage Museum, San Pietroburgo (Russia)

Il terzo quadro, questa volta gioioso, è La danza di Matisse (1909-1910). Il linguaggio utilizzato è il «fauve» («belva»), che con il richiamo ad un linguaggio primitivo vuole sottolineare l’incapacità degli artisti di utilizzare un linguaggio evoluto. Il quadro rappresenta una danza, tema caro all’antichità sia pagana che cristiana; e non è certo l’unica tela di Matisse con questo soggetto. Ci sono cinque donne nude che danzano in circolo, con passi ampi ed armoniosi, tenendosi per mano: è una danza armoniosa, primordiale (tribale) ma nello stesso tempo giocosa (il girotondo dei bambini) – si nota sempre la grande conoscenza dei classici della pittura. Si tratta di una farandola, una danza popolare per alcuni versi simile alla tarantella. L’artista, se si esclude la linea di contorno nera (che accentua la potenzialità espressiva dei colori), utilizza solo tre colori contrastanti (e senza il chiaroscuro): il blu per il cielo, il verde per la terra, il rosso per i corpi delle danzatrici. Le forme dei personaggi sono essenziali, pulite, semplificate ma anche grandiose, monumentali nella loro fisicità. La danza, per Matisse, vuole rappresentare la gioia di vivere e la pace, intesa come solidarietà tra le persone: la danza è la vita, e la vita è colore. «Amo molto la danza» dirà; «È una cosa straordinaria la danza: vita e ritmo. Per me è facile vivere con la danza. Quando ho dovuto dipingere la danza per Mosca sono semplicemente andato una domenica al Moulin de la Galette. Ho guardato come danzavano. In particolare ho guardato la farandola… I ballerini, prendendosi per mano, corrono attraverso tutta la sala, avvolgendo con un nastro la gente un po’ sconcertata… Tornato a casa ho composto la mia danza su una superficie di quattro metri canticchiando lo stesso motivo che avevo sentito, in modo che tutta la composizione, tutti i ballerini, si muovessero allo stesso ritmo…».

La danza è un tema anche musicale: Stravinsky (1882-1971) scrive la Sagra della primavera proprio come una danza, una festa tribale nelle steppe russe che si concluderà con l’immolazione di una giovinetta per far rinascere la Madre Terra. L’anno è il 1913. Per la musica è una svolta: c’è tutta una sovrapposizione di accordi tonali e moduli ritmici, difficile da memorizzare perché asimmetrica (si parla di asimmetrie ritmiche). L’orchestra è enorme: tanti archi, tanti fiati, otto corni con tre o quattro violini l’uno, percussioni che vanno dai timpani ai tamburi ai tamburelli e via dicendo perché il loro suono rende la danza primitiva. Ma è primitiva anche per un ritmo senza controllo. Attacca con un fagotto che suona sul registro di un oboe, un suono mai udito, che sembra sgradevole, stonato, anacronistico – primordiale, appunto: è il «fauve» in musica. Non c’è una linea melodica, ma solo frammenti, accostamenti di colore. Da qui, non si potrà più tornare indietro.

Schoenberg non è solo musicista, ma anche pittore. Nell’Opera 16 numero 3 Farben, del 1909, opera un gioco di colori ottenuto attraverso sovrapposizioni di linee melodiche.

Várese, in Ionisation (1933), scrive un lavoro per un’orchestra di percussioni. Usa i colori delle percussioni come una grande pagina in bianco e nero, e alla fine utilizza anche il pianoforte come se fosse una percussione.

L’ultimo brano che citeremo è Artikulation di Ligeti (1923-2006). Siamo nel 1958, e l’elettronica sta muovendo i suoi primi passi. Il brano è in realtà una composizione per un elaboratore elettronico, la partitura sono semplicemente delle frequenze: ormai, solo l’elettronica dà al compositore la possibilità di creare nuovi timbri, una musica realmente mai udita prima.

(marzo 2013)

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