Eroi della Grande Guerra
Carlo Stuparich a cento anni dall’estremo sacrificio

Nella storia della Grande Guerra un ruolo d’onore straordinario compete ai Volontari dell’Italia Irredenta che si immolarono per la Patria, e che in tanti casi furono decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare. Dopo quello di Scipio Slataper, caduto sul Podgora nel dicembre 1915, un ulteriore centenario significativo è quello di un altro Triestino, Carlo Stuparich, che allo scoppio del conflitto, assieme al fratello Giani ed allo stesso Slataper, si trovava a Firenze, dove faceva parte attiva del cenacolo di scrittori e uomini di cultura che si riconoscevano in Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, in interventisti di provata fede quali Giovanni Boine e Renato Serra, ma anche in artisti come Ottone Rosai, e nell’irripetibile giro della «Voce».

Come tanti altri, anche Carlo, all’epoca appena ventunenne essendo nativo del 1894, partì immediatamente per il fronte, dopo aver avuto cura di modificare la propria identità assumendo un nuovo cognome: sapeva bene che in caso di cattura da parte del nemico sarebbe stato accusato di diserzione in quanto cittadino dell’Impero Austro-Ungarico, e condannato al capestro. Il Governo Asburgico non faceva sconti, come avrebbero dimostrato le esecuzioni di Cesare Battisti, Fabio Filzi, Nazario Sauro ed altri patrioti, rese ancora più esecrabili dal trattamento gratuitamente ed offensivamente inumano riservato agli eroi italiani dal boia di Vienna e dai suoi scherani.

L’Impero, nella sua logica di repressione conservatrice, non poteva e non voleva comprendere che la permanenza di almeno dodici diverse nazionalità all’interno dei suoi confini era un fatto sostanzialmente antistorico, nella fallace illusione di perpetuare l’ordine statuito addirittura un secolo prima, alla caduta di Napoleone, con l’avvento della cosiddetta Santa Alleanza. Ma questo è un altro discorso.

Carlo si arruolò nel Corpo dei Granatieri e diede ottima prova fino alla primavera del 1916, quando la «spedizione punitiva» scatenata sugli Altipiani dalle truppe di Conrad lo colse sulle pendici del Monte Cengio, nell’eroico tentativo di impedire l’avanzata austriaca verso la pianura veneta che, in caso di successo, avrebbe aperto al nemico la strada di Venezia, col rischio di cambiare radicalmente le sorti della guerra.

Il 30 maggio, essendo rimasto quasi solo a difendere la posizione affidata al reparto perché i suoi uomini erano caduti in una gloriosa resistenza che ricordava quella delle Termopili, si diede volontariamente la morte per non cadere nelle mani dell’invasore e per impedire al nemico la magra soddisfazione di uccidere un prigioniero.

Nel 1919 la sua opera giovanile venne pubblicata dal fratello Giani col suggestivo titolo di Cose ed ombre di uno: un’edizione di ovvio successo etico ancor prima che letterario, che sarebbe stata rinnovata nel 1933 e che costituisce un documento significativo degli ideali da cui furono animati gli «Spiriti della vigilia» (per dirla con la felice sintesi di Camillo Pellizzi) fino alla conclusione – coerentemente responsabile – del volontariato. Si deve aggiungere che la fine di Carlo, simile a quella di un eroe antico, valse a conferirgli un’aureola quasi leggendaria, ben comprensibile nel quadro di un impegno patriottico lucidamente consapevole fino all’estremo sacrificio.

La Medaglia d’Oro che gli venne conferita fu un atto dovuto, quale equiparazione del suo gesto a quello di altri martiri del Risorgimento; e lo stesso può dirsi per le città che decisero di onorarne la memoria nella propria toponomastica. Oggi, il nome di questo nobile figlio della città di San Giusto vive nel ricordo degli Italiani migliori, quasi a sottolineare la priorità dei valori «non negoziabili» e la loro prevalenza sullo stesso diritto positivo, le cui norme hanno validità spesso transeunte, mentre le «alte non scritte ed inconcusse leggi» opposte da Antigone alla protervia di Creonte vivono sempre nel cuore dell’uomo, quale monito perenne contro ogni tirannia politica e morale.

Lo spirito di Carlo, quale emerge dagli scritti giovanili e trova conferma nelle lettere dal fronte, è improntato ad una coscienza morale in cui, nonostante l’impostazione laica di derivazione risorgimentale, non è azzardato scorgere qualche influenza giansenista, se non altro nella pervicace fedeltà all’imperativo categorico kantiano che imponeva una chiara presa di posizione contro le ultime autocrazie per la difesa della libertà e, prima ancora, della Patria. In tale ottica bisogna leggere l’accettazione quasi serena degli enormi disagi cui erano costretti gli uomini della trincea e, con essi, di un rischio quotidiano della morte. La fame, il freddo, il fango e le malattie diventavano, in qualche misura, occasioni di progresso e di riscatto, in una concezione eroica della vita non priva di talune suggestioni stoiche, ma nello stesso tempo profondamente cristiane.

Nel momento supremo Carlo non ebbe dubbi sulla soluzione da scegliere, e decise per quella del suicidio, non certo per viltà o per l’abbandono di qualsivoglia preoccupazione religiosa, ma per sottrarsi alla certezza della forca ed agli insulti riservati dall’Austria ai patrioti italiani che, come si sarebbe detto qualche decennio più tardi, combattevano dalla «parte sbagliata». Non a caso, a Carlo Stuparich, con la massima decorazione al merito di guerra, venne riconosciuto l’eroismo dell’estremo sacrificio: un gesto di consapevole fierezza e di forte coerenza. Allora, oggi e sempre.

(maggio 2016)

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