Dal Governo di solidarietà nazionale ai Martiri dell’Italia Irredenta ed al disastro di Caporetto (1916-1917)
Un centenario complesso

Il secondo biennio della Grande Guerra fu caratterizzato da diversi fatti nuovi che a vario titolo ebbero notevole importanza nella storia d’Italia e che nella ricorrenza del centenario, e delle conseguenti rivisitazioni storiografiche, è funzionale ricondurre ad una memoria per quanto possibile oggettiva, se non altro per le conseguenze che avrebbero indotto anche a lungo termine.

Il primo evento fu la caduta del Governo di Antonio Salandra, che nel maggio del 1915 aveva voluto la guerra, e la sua sostituzione con quello presieduto da Paolo Boselli, definito di solidarietà nazionale perché aperto a tutti i partiti, compresa buona parte di quelli che in precedenza erano stati all’opposizione. A parte alcuni uomini politici di comprovata esperienza come Vittorio Emanuele Orlando destinato agli Interni, e Sidney Sonnino agli Esteri, vi entrarono alcuni volti nuovi importanti: al cattolico Filippo Meda venne affidato il dicastero delle Finanze suggellando la fine ufficiale del «non expedit» pontificio, mentre i socialisti riformisti ed i repubblicani ebbero tre Ministeri senza portafoglio nelle persone di Leonida Bissolati ed Ivanoe Bonomi per i primi, e di Ubaldo Comandini per i secondi. Dopo un’opposizione pluridecennale, la protesta cattolica e quella dell’Estrema Sinistra laica, perdute le antiche pregiudiziali assolute, trovarono la strada della collaborazione governativa grazie alla Grande Guerra.

La fiducia al Governo Boselli fu votata in maniera quasi plebiscitaria: il nuovo Governo entrò in carica con 391 voti favorevoli e 45 contrari, espressi dai soli socialisti intransigenti. L’esperimento «solidale» sarebbe durato oltre un anno, per essere travolto dalla disavventura di Caporetto, sopraggiunta nell’autunno del 1917, quando gli fece seguito quello di Orlando – destinato a condurre l’Italia alla Vittoria – con una formula sostanzialmente iterativa (Meda ebbe ancora le Finanze mentre Bissolati avrebbe gestito il nuovo Ministero per l’Assistenza ai Militari e le Pensioni di Guerra); e soprattutto, con una maggioranza altrettanto granitica.

Con Boselli e con gli uomini «forti» del suo Governo quali Orlando e Sonnino, destinati a diventare i non sempre felici plenipotenziari nella delegazione italiana destinata a discutere il trattato di pace di Versailles, si era voltata pagina, nel senso di avere ritrovato una compattezza unitaria, compromessa nel maggio 1915 dalla divergenza dei giolittiani e da una dichiarazione di guerra in cui si era ravvisato un atto di forza della Monarchia e degli interventisti. Le sorti del conflitto non mutarono per questo, anche se nell’estate del 1916 la conquista del San Michele e del Sabotino, e subito dopo quella di Gorizia, avevano creato una breve illusione circa la possibilità di una svolta risolutiva che non ebbe luogo, nonostante il cruento sacrificio imposto dalle varie battaglie dell’Isonzo.

Il martirologio dell’Italia Irredenta, nel luglio dello stesso 1916, aveva visto cadere Cesare Battisti e Fabio Filzi sulla forca trentina del Buon Consiglio, confermando anche attraverso le immonde fotografie del boia viennese con la corda ed il corpo degli impiccati, che l’Austria avrebbe perseguito senza esitazioni la prassi moralmente ed umanamente abominevole di «liquidare» i suoi cittadini di espressione italiana passati di propria volontà al servizio della vera Madrepatria. Del resto, a parte casi analoghi ormai lontani, come quello di Guglielmo Oberdan che era stato condannato a morte per un’intenzione, nel maggio precedente la fucilazione di Damiano Chiesa aveva dimostrato che non vi sarebbe stata alcuna clemenza; ciò, tramite una prassi che venne iterata in agosto con l’impiccagione di Nazario Sauro, quando l’eroico Comandante di Capodistria, «disertore» confesso, non venne salvato nemmeno dallo stoico comportamento della madre che non aveva voluto riconoscerlo nel patetico tentativo di salvargli la vita. Con la sua condanna a morte, eseguita prontamente con l’ormai ricorrente cinismo, l’Austria gettava la maschera in via definitiva e confermava che i vecchi sistemi del principe Clemente di Metternich e del feldmaresciallo Josef Radetzky erano sempre attuali.

È congruo ricordare che i martiri saliti sui patiboli austriaci furono tanti.

Accanto ai nomi più noti, qui basti ricordare quelli di Emilio Cravos, irredentista goriziano; di Antonio Grabar, animatore della rivolta nella Marina Imperiale scoppiata a Cattaro; e di Giovanni Maniacco, un altro goriziano reo di avere ordito trame «eversive» a danno del Comando Asburgico.

Queste condanne capitali, imposte da un sistema incapace di riconoscere il successo ormai irreversibile del principio di nazionalità ma convinto di poter governare col pugno di ferro una dozzina di popoli diversi, valsero più di 10 battaglie nel corroborare il giudizio degli Italiani, in precedenza più incerto, circa il carattere sostanzialmente giusto di una guerra contro la «secolare nemica». In effetti, si confidava con ingenuo idealismo, come emerse nel congresso della Democrazia Sociale Irredenta, che la Grande Guerra sarebbe stata l’ultima, grazie alla vagheggiata cancellazione delle autocrazie ereditate dalla Santa Alleanza; e che per il mondo si potesse aprire una nuova era di pace e di progresso.

Il sacrificio supremo dei martiri irredenti, unitamente alla breve euforia determinata dalla presa di Gorizia e dall’eroismo di Aurelio Baruzzi, suo protagonista emblematico, fu tra le cause che indussero l’ultimo evento più significativo del 1916: la tardiva dichiarazione di guerra alla Germania, che venne notificata il 27 agosto e che si sarebbe rivelata non soltanto fuori tempo, ma anche inutile se non addirittura controproducente, perché un anno più tardi il giovane Erwin Rommel avrebbe dato una prima dimostrazione della futura «blitzkrieg» con una manovra a largo raggio nell’alta valle del Piave – resa possibile dall’armistizio tra Russia sovietica ed Imperi Centrali e dalla conseguente disponibilità di nuove forze tedesche per il fronte italiano – che ebbe notevole rilievo nell’aggravare le conseguenze militari della rotta di Caporetto.

La dichiarazione di guerra alla Germania avrebbe potuto avere un «fumus boni juris» all’inizio delle ostilità (maggio 1915) quando era lecito contestare la deroga degli Imperi Centrali alle norme statuite nella Triplice, anche se Berlino aveva dato un contributo non marginale al Risorgimento ed alla realizzazione dell’unità nazionale italiana, con particolare riguardo alla Terza Guerra d’Indipendenza che nel 1866 aveva consentito di aggregare il Veneto al giovanissimo Regno d’Italia, nonostante le sconfitte militari di Custoza e di Lissa. In effetti, la politica è arte del possibile, ed alla fine il conclamato realismo di Bismarck avrebbe finito per essere adottato anche da parte italiana, sia pure con un atto come quello del 27 agosto, apparso opinabile a tutti coloro, come Benedetto Croce, che sapevano distinguere il pervicace oscurantismo austriaco dalla grande cultura tedesca.

A 100 anni da una stagione obiettivamente complessa, si deve convenire sul fatto che quel biennio ebbe una rilevanza assai forte, e per taluni aspetti decisiva, non tanto nella condotta della guerra, rimasta improntata al modulo anacronistico di Luigi Cadorna fino alla crisi di Caporetto, quanto nella maturazione delle coscienze e nell’avvento di un’idea nazionale confortata dall’esperienza della trincea e dall’adesione di una più vasta maggioranza politica, fino al punto di disattendere le proposte di pace, peraltro strumentali, avanzate dall’Austria qualche mese più tardi, e persino quelle formulate dal Santo Padre Benedetto XV, che avrebbe coniato la celebre definizione del conflitto quale «inutile strage» con un appello che rimase inascoltato da tutti gli stati in campo, ivi compreso il «cattolicissimo» Impero Asburgico; e nemmeno dall’Italia, sede di un Vaticano non ancora perfettamente «allineato» nonostante il predetto coinvolgimento dei Cattolici nella guida governativa del Paese.

Quanto a Caporetto, la tragedia nazionale consumata nell’ottobre 1917 parve l’anticamera della resa, anche per la concomitanza della Rivoluzione Sovietica, strategicamente e psicologicamente negativa, senza dire dell’angoscioso dramma dei profughi. Eppure, la reazione del Paese, sia a livello popolare che nell’ambito militare, fu superiore ad ogni speranza ed a tutte le aspettative ragionevoli, facendo sul Piave «contro il nemico una barriera». Paradossalmente, l’arretramento del fronte sulla breve linea difensiva tra Monte Grappa e l’Adriatico si sarebbe risolto in un vantaggio italiano, mentre gli Austro-Tedeschi furono costretti ad affrontare il problema di collegamenti più lunghi con le retrovie, oltre a quello per molti aspetti decisivo della carestia e del crescente malcontento dei combattenti e dei civili. Fu l’anticamera della riscossa che si sarebbe avuta nel 1918 sul Piave, sul Montello e sul Grappa, per trovare l’apice nel sole di Vittorio Veneto.

Quel periodo fu importante, tra l’altro, per la diffusione sempre più condivisa del «culto degli Eroi» che tanta parte avrebbe avuto nella storia italiana degli anni successivi, e che trovava nelle gesta dei martiri irredenti e delle tante Medaglie al Valore spunti sempre più idonei a superare, anche nelle coscienze popolari, buona parte delle resipiscenze e dei dubbi che avevano contrassegnato la stagione dell’intervento, nonostante gli appelli di Gabriele d’Annunzio e della cultura nazionalista e futurista.

Quasi inconsapevolmente, l’Italia cambiava pelle, si identificava negli uomini al fronte e nel loro contributo di sangue e di sacrifici, e si riconosceva nella stessa mobilitazione femminile che vedeva schiere sempre più ampie di donne impegnate nell’industria, nei servizi e nel volontariato assistenziale: quella fu l’epoca di un’emancipazione che in breve tempo assunse carattere irreversibile, anche se si sarebbe dovuto attendere il 1946 per il suffragio universale esteso alle donne nelle elezioni politiche, al termine di un percorso non sempre facile in cui l’Italia venne preceduta da diversi stati, non soltanto europei.

In qualche misura, si chiuse un’epoca, più di quanto fosse accaduto nelle «radiose giornate di maggio» del 1915, e si posero le basi di una nuova Italia, consapevole di sacrifici immensi, tali da far impallidire almeno sul piano quantitativo quelli pur gloriosi del migliore Risorgimento; e consapevole, nello stesso tempo, della promessa, sebbene ancora indistinta, di una definitiva liberazione da antiche condizioni di subordine politico e sociale.

(dicembre 2017)

Tag: Carlo Cesare Montani, Prima Guerra Mondiale, Governo di solidarietà nazionale, Martiri dell’Italia Irredenta, Caporetto, 1916, Antonio Salandra, Pietro Boselli, Vittorio Emanuele Orlando, Sidney Sonnino, Filippo Meda, Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Ubaldo Comandini, Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa, Nazario Sauro, Guglielmo Oberdan, Klemens von Metternich, Josef Radetzky, Emilio Cravos, Antonio Grabar, Giovanni Maniacco, Aurelio Baruzzi, Erwin Rommel, Otto von Bismarck, Luigi Cadorna, Benedetto XV, Gabriele d’Annunzio, 1917.