Irredentismo giuliano, istriano e dalmata
Dalle origini al nuovo millennio

Le manifestazioni culturali organizzate nell’Italia di oggi con scopi rievocativi, o nell’intento di commemorare questa e quella ricorrenza, hanno un impatto necessariamente limitato nel tempo e nello spazio. Esistono, peraltro, eccezioni significative che vale la pena di sottolineare, in specie quando assumono valenze etiche e politiche precise, in qualche misura contro corrente: è il caso della Prima Guerra Mondiale con il suo «lungo» centenario attualmente in corso di celebrazione, e quindi dell’irredentismo giuliano, istriano e dalmata, che ne costituì una motivazione certo non marginale.

Il movimento irredentista aveva visto ufficialmente la luce nel 1877, quando il Generale Giuseppe Avezzana e Matteo Renato Imbriani fondarono l’omonima Associazione («Italia Irredenta»), che per un paradosso solo apparente avrebbe avuto largo seguito – in specie agli inizi – soprattutto a Sinistra, grazie all’opera di uomini come Giovanni Bovio e Felice Cavallotti, e che pochi anni dopo avrebbe condotto al sacrificio di Guglielmo Oberdan, capace di «gettare la vita sulle forche dell’Austria» pur di far comprendere ai troppi ignari il diritto all’italianità invocato dalla sua terra. Un martire che sarebbe stato il primo di una lunga serie.

Nondimeno, le istanze di affrancamento della regione alto-adriatica dall’oscurantismo asburgico avevano origini più lontane, a cominciare dal «patriota illuminato» Gian Rinaldo Carli che sin dalla metà del Settecento aveva intuito come il futuro della Venezia Giulia e dell’Istria non avrebbe potuto essere aperto altro che all’Occidente, non solo per ragioni storiche, culturali e civili, ma anche per quelle economiche. Non meno pertinenti erano stati i richiami alla politica miope e retriva di Vienna, che dalla Restaurazione in poi non avrebbe fatto mistero delle sue simpatie filo-slave e del suo ostracismo nei confronti degli Italiani, diventato più stringente dopo la proclamazione del Regno avvenuta nel 1861; dopo la redenzione del Veneto che vi fece seguito nel 1866; e dopo la caduta del potere temporale, che quattro anni più tardi avrebbe fatto di Roma la nuova capitale di un’Italia laica e non priva di reminiscenze rivoluzionarie, anche se addolcite dal Cattolicesimo Liberale.

Ad ogni modo, resta il fatto che l’irredentismo ebbe una consacrazione ufficiale nello scorcio conclusivo dell’Ottocento, riscuotendo crescenti adesioni dopo la stipula della Triplice Alleanza con Austria e Germania che molti patrioti ritennero quanto meno innaturale, in specie alla luce dell’esperienza risorgimentale, sebbene si fosse resa quasi necessaria a seguito dell’isolamento internazionale in cui il giovane Regno d’Italia era caduto, suo malgrado, dopo l’acquisizione della Tunisia da parte francese.

Non a caso, le maggiori simpatie irredentiste furono quelle delle opposizioni repubblicana e radicale; tuttavia, ne furono coinvolti anche taluni esponenti delle forze di Governo, come quel Ministro delle Finanze di Francesco Crispi, il Dalmata Federico Seismit Doda che aveva combattuto nella Prima Guerra d’Indipendenza e nell’ultima difesa di Venezia (1849) ma che all’inizio degli anni Novanta, nonostante i benemeriti trascorsi risorgimentali e l’amicizia personale col Re Umberto I di Savoia, venne costretto alle dimissioni perché «colpevole» di avere accennato all’italianità della sua terra in occasione di un convegno tenutosi a Udine.

La Grande Guerra parve costituire il momento di massimo consenso attorno alle bandiere dell’irredentismo, corroborato dalla più recente adesione del movimento nazionalista: in effetti, il Patto di Londra del 26 aprile 1915 riconobbe il buon diritto dell’Italia sulla Venezia Giulia e buona parte della Dalmazia (con l’importante eccezione di Fiume) ma fu il presupposto della «Vittoria mutilata» scaturita, a conflitto appena concluso, da un’ampia deroga alle sue statuizioni, voluta dagli Alleati dell’Intesa ed in primo luogo dal Presidente Americano Wilson, anche se gli Stati Uniti erano entrati nel conflitto in tempi largamente successivi.

Il ripensamento degli Alleati, a cui contribuirono le preoccupazioni anglo-francesi per la crescita politica e militare dell’Italia e l’atteggiamento ondivago assunto dal Governo di Roma alla Conferenza della pace, non furono estranei al «pronunciamento» dannunziano su Fiume, sulle Isole del Golfo e sulla stessa Zara, di chiara matrice irredentista, e non immune da rinnovate influenze di Sinistra, in specie attraverso il sindacalismo rivoluzionario di Alceste De Ambris, che fu accanto al Comandante collaborando in modo decisivo alla stesura della Carta del Carnaro, un prototipo costituzionale oltremodo avanzato, non senza riferimenti agli auspici già formulati durante la guerra dalla Democrazia Sociale Irredenta.

Il tentativo di Gabriele d’Annunzio non ebbe successo, essendosi concluso con lo scontro fratricida del Natale di Sangue (1920) voluto dal Governo Giolitti, ma quattro anni dopo l’irredentismo ebbe un momento di rinnovato successo con il trasferimento della sovranità italiana anche su Fiume: nondimeno, la Dalmazia rimase al nuovo Regno Jugoslavo con la sola eccezione della piccola «enclave» di Zara. Dal canto suo, il fascismo non fece mistero di rinnovate mire sulla fascia costiera adriatica già governata dalla Serenissima, e di cultura tradizionalmente latina ancor prima che veneta, salvo cambiare registro dopo il patto Ciano-Stojadinovic del 1937 che parve coartare definitivamente le attese dei Dalmati, tornate alla ribalta dopo altri quattro anni, quando il colpo di Stato di Belgrado del 1941, con cui la Jugoslavia aveva cambiato improvvisamente campo, diede luogo all’intervento armato dell’Asse ed alla nuova guerra lampo che si concluse con l’acquisizione di buona parte del territorio dalmata e la costituzione del cosiddetto Regno di Croazia, satellite di Italia e Germania.

Fu l’ultimo, effimero successo dell’irredentismo, perché le sorti della Seconda Guerra Mondiale volsero a favore degli Alleati che per quanto concerne la Jugoslavia avevano deciso di avallare il movimento «popolare» del Maresciallo Tito, sacrificando il Governo Monarchico in esilio a Londra e creando la condizione più idonea alla vittoria comunista del 1945, culminata nell’occupazione di tutta la Dalmazia e di buona parte della Venezia Giulia.

La tragedia delle foibe con le sue 20.000 vittime, ed il grande Esodo dei 350.000 ne furono il triste corollario, riproponendo, sin dal primo dopoguerra, una rinnovata attualità dell’irredentismo: non tanto nell’auspicio di un improbabile recupero territoriale, reso sempre più problematico dalla diaspora, dall’avvento della Casa Comune Europea e dalla successiva chiusura delle garitte di confine, ma trasferito nell’impegno a favore dei popoli oppressi e nel buon diritto degli Esuli e dei loro eredi al giusto risarcimento attraverso la restituzione o l’equo indennizzo dei beni, e prima ancora, nell’attesa della doverosa ammissione, da parte slovena e croata, dei torti storici a matrice comunista; e se non altro, della salvaguardia delle tombe e dei monumenti italiani dislocati in Istria, a Fiume e in Dalmazia, onde prevenirne ulteriori e dolorose manomissioni.

L’irredentismo, in questo senso e con queste connotazioni, è sempre attuale perché costituisce prima di tutto un atteggiamento dello Spirito ed un’invocazione all’«ethos» ben oltre i limiti tradizionali dello Stato di diritto, tanto più necessario visto che, in tempi ancora recenti, fra le troppe malversazioni subite dagli Italiani, si è impedito ad un gruppo di Esuli di deporre un fiore sulla foiba di Corgnale, nelle immediate vicinanze del confine italo-sloveno, e di recitare una preghiera in memoria delle vittime. Diremo di più: questa componente spirituale rende l’irredentismo del nuovo millennio profondamente diverso da quelli dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, che ebbero una valenza in buona misura laica, all’insegna prioritaria del pensiero mazziniano e delle sue pregiudiziali libertarie.

Oggi, parlare di irredentismo non è considerato politicamente corretto, sia nell’ambito delle maggioranze di Governo che in quello dell’opposizione, come se questo riferimento evocasse l’ipotesi di chissà quali attentati ad un ordine costituito che – peraltro – non è destinato a durare all’infinito nei secoli dei secoli, come è stato ampiamente dimostrato dalle vicende dell’ex Unione Sovietica, e naturalmente, da quelle della ex Jugoslavia. Ecco un buon motivo in più per non dimenticare, ed anzi per affermare la verità in modo forte e chiaro: redenzione non può essere sinonimo di prevaricazione né tanto meno di violenza, in quanto strumento di progresso umano e civile, e quindi, di vera e memore giustizia. Ma prima ancora, di speranza e di fede.

(dicembre 2015)

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