Iniziative coloniali ed impegno sociale nell’Italia dell’Ottocento
Leopoldo Franchetti e la sperimentazione agraria in Eritrea

Nella lunga storia del colonialismo italiano, il sogno quasi messianico di insediamenti extra europei idonei ad assorbire manodopera eccedentaria e nello stesso tempo capaci di avviare processi di sviluppo economico, oltre che subordinatamente culturale, ha avuto remote origini negli ultimi decenni del secolo decimonono, in cui i primi conati imperialisti della Destra andarono a confrontarsi – se non anche a scontrarsi – con lo spirito umanitario e con qualche ipotesi di espansione economica in chiave fideistica: da una parte, la ricerca del «posto al sole» che avrebbe dato luogo a tanti disastri, ed in particolare alla clamorosa sconfitta di Adua e del programma «africanista» di Francesco Crispi, e dall’altra, l’impegno dei missionari iniziato col mitico Guglielmo Massaja, assieme al colonialismo «democratico» di Pasquale Stanislao Mancini. In entrambi i casi, si trattava di utopie che muovevano da una scarsa conoscenza della realtà e che avrebbero manifestato in tempi relativamente rapidi tutti i limiti di una sostanziale impreparazione e di un approccio pressapochistico che sia pure con qualche correttivo sarebbe continuato nel primo Novecento, quando la «Grande Proletaria» di cui alla suggestiva immagine di Giovanni Pascoli avrebbe preso le mosse verso la cosiddetta quarta sponda.

Fra queste concezioni per vari aspetti antitetiche non mancarono talune esperienze governate da un ragionevole realismo, ed in particolare quella di Leopoldo Franchetti[1], uomo politico il cui impegno coloniale si sarebbe rivelato altrettanto velleitario ma con il pregio, se così può dirsi, di avere sperimentato dal vivo l’effettiva fattibilità di insediamenti agricoli in un’Africa come quella dello scorcio conclusivo dell’Ottocento, caratterizzata dalla presenza di vistose sacche tribali e dalla necessità propedeutica di un approccio culturale idoneo ad evolvere il nomadismo di tante comunità verso un sistema almeno parzialmente stanziale.

Il colonialismo del Franchetti prende le distanze dalle suggestioni di facili conquiste che sarebbero state travolte dagli eventi, ma nello stesso tempo, dalle utopie di riscatto delle popolazioni indigene, inquadrandosi in un’ottica sociale governata dall’iniziativa pubblica, lontana da un pragmatismo liberista che avrebbe escluso dalla «proprietà della terra chi non abbia, per trarne i frutti, che le braccia proprie e della famiglia»[2]. In conformità allo spirito dell’epoca, il problema di una sovranità altrui coartata con la forza delle armi rimane soltanto sullo sfondo, sebbene l’Italia si fosse trovata al cospetto di una realtà istituzionalmente consolidata come quella etiope, ma i possibili dubbi di carattere giuridico erano destinati a scomparire nella misura in cui Franchetti aveva rilevato che buona parte dei territori coloniali non erano oggetto di coltivazione, dovendosi quindi presumere che in Eritrea come altrove ci fosse «posto per tutti» a patto di reprimere «con una severità senza riguardi qualunque atto di rivolta contro il Governo, o di brigantaggio, che è un’offesa all’autorità dei dominatori». Parole indubbiamente dure, e quasi sorprendenti in un paladino della filantropia a tutto campo, ma da leggere tenuto conto dello spirito del tempo e della memoria, ancora viva, di quanto era accaduto nel Mezzogiorno durante il primo decennio dell’Unità, quando non si era trovato di meglio che soffocare la rivolta popolare nella repressione indiscriminata senza comprenderne, salvo rare eccezioni, i motivi socio-economici e culturali.

Lungi da ogni approssimazione, Franchetti aveva avvertito con lucidità il problema di un’adeguata formazione dei colonizzatori, tanto che nell’ultimo biennio dell’Ottocento si era occupato di una colonia agricola sperimentale costituita presso Villa Glori su terreni municipali di Roma, con l’obiettivo di promuovere l’addestramento di giovani coloni nell’ambito di una filantropia a tutto campo che lo vide impegnato, fra l’altro, nelle attività dell’Unione per il Bene, dove ebbe modo di collaborare con Ruggero Bonghi e con Padre Giovanni Semeria, apostolo di carità e di azione sociale ormai lontano dalle vecchie pregiudiziali cattoliche del «non expedit».

Il Franchetti vedeva nella colonizzazione, compresa quella del Mezzogiorno, uno strumento di avanzamento sociale e di prosperità economica, e rimase profondamente deluso per i risultati non ottimali dei suoi sforzi, attribuendoli all’immaturità politica delle classi dirigenti «non solo per le imprese di conquista ma anche e soprattutto per l’impresa di messa in valore» pur confermando di «avere amato ardentemente le nostre colonie». In effetti, il suo approccio scientifico era stato una voce nel deserto, perché la logica dei piccoli insediamenti sfuggiva ad una volontà politica non immune da riferimenti di classe, come quelli che intendevano dare la preferenza a grandi iniziative di tipo latifondista nell’errata presunzione che potessero indurre una forte occupazione subordinata, mentre Franchetti comprendeva che le soluzioni ottimali sarebbero state quelle di piccole attività a carattere familiare. Non a caso, la sua opzione, molto chiara ed oggettivamente ovvia, si era rivolta all’Altipiano Eritreo, sembrandogli assurdo che si potessero programmare attività agricole nel clima infernale della Dancalia, o più tardi della stessa Somalia, dove avrebbero potuto trovare spazio concessioni più ampie, destinate a qualche coltivazione di scarso fabbisogno professionale od alla pastorizia[3].

Sta di fatto che il programma coloniale di Franchetti non poteva essere condiviso da una strategia di governo legata ai vecchi canoni dell’espansione territoriale imposti dalle forze conservatrici e dalle gerarchie militari, per cui le disponibilità finanziarie «africaniste» venivano destinate soprattutto a tale obiettivo, trascurando in misura quasi totalitaria gli incentivi ad iniziative fondate sull’attività individuale dei coloni e sull’interesse familiare a perseguire un ragionevole utile di gestione. Per Franchetti, lo Stato non avrebbe dovuto né potuto «rinunziare alla facoltà, in questo caso speciale, di porre l’indipendenza economica a portata di coloro» cui risulta «inaccessibile nelle nostre vecchie società». Ne ebbe origine un lungo braccio di ferro con il Governatore, Generale Oreste Baratieri, che non intendeva accettare qualsiasi limite alla sua autorità sostanzialmente sovrana, e si era fatto paladino «naturale» dell’impresa privata a carattere capitalista, come da giudizi di Roberto Battaglia e di Angelo Del Boca, contro la «colonizzazione proletaria» del Franchetti: un uomo d’ordine che secondo Ernesto Ragionieri era «abbacinato dal sogno di esaudire sull’Altipiano Eritreo la fame di terra dei contadini meridionali, le cui misere condizioni aveva descritto nei suoi studi giovanili»[4].

In una prima fase, a far tempo dal 1891, i nuovi insediamenti programmati dal Barone furono caratterizzati da qualche successo, ed i coloni non mancarono di salutare nelle pur precarie installazioni il fascino della «terra promessa» pur dovendo mettere in conto l’obbligo di restituire in un quinquennio l’importo mediamente dovuto da ogni famiglia, a fronte delle dotazioni di sementi, attrezzature e bestiame, delle spese di viaggio e del cibo per il primo anno improduttivo. Poi, peraltro, i nodi vennero rapidamente al pettine: non solo per gli ostacoli istituzionali, ma anche per una serie di problemi contingenti, tra cui la mancanza di assistenza religiosa, per non dire delle strozzature in qualche approvvigionamento infrastrutturale di base, come quello dell’acqua.

Franchetti, come hanno messo in luce le critiche dell’epoca e quelle della storiografia novecentesca, aveva commesso alcuni errori che aggravarono una situazione compromessa a priori dalle difficoltà politiche, e poi militari, oltre che dalle carenze finanziarie: in primo luogo, una scelta di coloni senza adeguate esperienze agricole, trattandosi in prevalenza di muratori con mogli già occupate nelle filande, ed incapaci di affrontare la dura esistenza dei pionieri; in secondo luogo, la composizione eterogenea delle famiglie, provenienti da Lombardia, Friuli e Sicilia, con differenze abissali di lingua, usi e costumi; ed infine, una serie di promesse circa un futuro radioso, contraddette da attenzioni quanto meno relative per gli immediati bisogni primari.

La sperimentazione agraria in Eritrea non avrebbe avuto un seguito degno di particolare nota, anche se qualche colono vi rimase a lungo, mentre gli altri vennero rimpatriati a fronte del dissidio tra Baratieri e Franchetti, culminato nelle dimissioni di quest’ultimo, e della guerra italo-etiopica che si sarebbe conclusa nell’infausta giornata di Adua (1° marzo 1896). In effetti, dopo la fine delle operazioni militari ed il ripensamento della politica coloniale all’insegna di un attendismo che si sarebbe interrotto soltanto con la guerra italo-turca intrapresa nel 1912 per il possesso della Libia, il numero degli agricoltori presenti in Eritrea non avrebbe superato la sessantina, costituita «per la maggior parte da concessionari capitalisti» il cui ruolo non era certamente conforme a quello pianificato dal Franchetti[5].

Soltanto nel nuovo secolo, dopo la Grande Guerra, la presenza italiana in Eritrea avrebbe trovato nuovo impulso, ed in ogni caso, con flussi largamente inferiori a quelli diretti in altre colonie, e segnatamente in Libia, oggetto di un sopralluogo dello stesso Franchetti nel 1913, alla guida di una missione rivolta ad accertarne le potenzialità di colonizzazione, che gli apparvero relative, pur risvegliando ancora una volta la sua vecchia passione, tanto da ipotizzare qualche nuovo insediamento in Asia. Nondimeno, le poche migliaia di Italiani che si erano stabiliti in territorio eritreo, e poi i nuclei più consistenti immigrati in Tripolitania ed in Cirenaica, avrebbero lasciato nei territori ex-italiani un forte segno di civiltà ed il ricordo di un’intensa cooperazione, i cui valori sono stati riconosciuti anche dalle nuove realtà statuali subentrate al termine dell’epoca coloniale.


Note

1 Leopoldo Franchetti (Livorno 1847-Roma 1917), appartenente ad una ricca famiglia ebraica già insignita del titolo baronale da Vittorio Emanuele II, dopo gli studi classici a Parigi e la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa, fu protagonista di una poliedrica esperienza politica, a cominciare dai soggiorni giovanili in Germania e Gran Bretagna allo scopo di approfondire la cultura giuridica ed amministrativa, per proseguire con una lunghissima carriera parlamentare: tra il 1882 ed il 1904 fu deputato a Montecitorio per otto legislature nel gruppo dell’Unione Liberale, ed infine senatore del Regno, mettendo in luce una forte autonomia dai vincoli di partito. Durante tali mandati si distinse nelle celebri inchieste sulle drammatiche condizioni del Mezzogiorno e della Sicilia svolte in collaborazione con Sidney Sonnino fra il 1875 ed il 1877, nel lungo impegno per il suffragio universale, ed in parecchie attività politiche e culturali: fra le tante, quelle di Presidente dell’Associazione Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia e dell’Istituto Coloniale di Firenze, e di alto esponente della Società Geografica Italiana e dell’Accademia dei Georgofili. Nel 1880, assieme al fratello Giulio, si stabilì in agro di Città di Castello (Perugia) dove acquistò la tenuta di Rovigliano, e poi quella di Montesca, sviluppando crescenti attenzioni per il mondo contadino e per il suo affrancamento da condizioni secolari di bisogno; in seguito, ebbe un ruolo altrettanto significativo nel campo dell’industria, avviando assieme alla moglie Alice Hallgarten (1890) – conosciuta a Roma nell’ambito delle comuni attività di volontariato – un laboratorio di teleria il cui organico sarebbe pervenuto ad una cinquantina di unità, in larga maggioranza femminili, senza trascurare i problemi propedeutici della formazione e dell’insegnamento, in un’ottica assai moderna. Al di là di questi interessi imprenditoriali, particolarmente illuminati, e di un’intensa attività politica che nel 1904 lo vide relatore della Commissione d’inchiesta sulla Marina, volta a far luce sugli scandali delle forniture militari, ebbe sempre una spiccata predilezione per le questioni coloniali, al pari di molti contemporanei, tanto da affermare già dal 1880 che avrebbe rinunciato volentieri a Trento e Trieste in favore dell’espansione in Africa, dove riteneva possibili insediamenti agricoli di piccole dimensioni, con specifico riguardo all’Altipiano Eritreo, favoriti da adeguate condizioni climatiche. Fedele a tali convinzioni, dopo l’incarico di Commissario per la colonizzazione conferitogli nel 1890 dal Governo di Francesco Crispi, guidò una missione in Eritrea e nonostante le polemiche promosse dagli avversari ne trasse ulteriori convincimenti circa la possibilità di installarvi attività agricole redditizie, che a far tempo dal 1891 ebbero vita con le iniziative di colonizzazione intraprese in agro di Asmara, di Gura e di Godofelassi, per un totale di circa 50 ettari, e che sarebbero state condizionate da comprensibili problemi professionali, tecnici e finanziari, e prima ancora dall’opposizione del Generale Baratieri, ma che in alcuni casi avrebbero avuto lunga durata, tanto che all’inizio degli anni Trenta due famiglie di coloni trasferite ad iniziativa di Franchetti si trovavano ancora sul posto, dove – secondo la testimonianza di Carlo Matteoda riportata da «La Voce della Patria» del 30 settembre 1929 – vivevano «agiatamente ed onestamente lavorando la loro terra». Del resto la presenza di coloni portati in Eritrea nello scorcio conclusivo dell’Ottocento proprio da Franchetti fu attestata anche in Senato il 13 dicembre 1917 durante la commemorazione per la sua tragica scomparsa, avvenuta all’indomani di Caporetto, trascorsi due anni dalla morte della moglie, quando venne ricordato che il suo patriottismo si era finalmente coniugato con le pregiudiziali irredentiste e con l’auspicio che tutta la Dalmazia potesse diventare italiana; ma prima ancora, che le ingenti fortune del Barone erano state devolute in beneficenza.

2 Confronta Leopoldo Franchetti, L’Italia e la sua colonia africana, Città di Castello 1891, citato in Mezzogiorno e Colonie, a cura di Umberto Zanotti Bianco, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1950, pagina 289. La concezione del diritto di proprietà ipotizzata in detta fattispecie, a fronte di conferimenti infrastrutturali da parte dello Stato, sembra anticiparne il ruolo sociale, e quindi il sostanziale affievolimento statuito nelle costituzioni del secolo successivo, a cominciare dalla Carta del Carnaro di Alceste De Ambris e di Gabriele d’Annunzio (Fiume, settembre 1919). È congruo aggiungere che la silloge di Zanotti Bianco contiene, fra l’altro, il testo in memoria del Franchetti comparso sulle colonne di «Nuova Antologia» il 16 novembre 1917, a pochi giorni dal drammatico ed imprevedibile suicidio del Barone.

3 In tempi successivi, la Somalia sarebbe stata oggetto di insediamenti agricoli a carattere intensivo che ebbero breve durata a causa delle vicende belliche, mentre nel periodo di amministrazione fiduciaria decennale conferita all’Italia nel 1950 si sarebbe optato per iniziative con impegno relativo di manodopera, anche indigena, come quella della SAIS: ma in ogni caso, con alto impegno civile, nell’ottica di una corretta cooperazione internazionale, e nello spirito di supporto allo sviluppo che era stato quello del Franchetti (confronta Carlo Curcio, Corso di storia e legislazione coloniale, Facoltà di Scienze politiche «Cesare Alfieri», Firenze 1954, pagine 213-216).

4 Il fondo di dotazione reso disponibile per le iniziative colonizzatrici di Franchetti venne ragguagliato inizialmente a 120.000 lire in ragione annua, poi elevato a 200.000: un contributo oggettivamente minimo, non solo in rapporto alle spese militari ed a quelle di gestione della Colonia, ma anche al basso costo unitario di ogni nuova famiglia insediata sul territorio, pari a 4.242 lire, che costituivano una cifra indubbiamente modesta, resa possibile anche per la «parsimoniosa amministrazione» delle iniziative, ma idonea a trasferire in Eritrea soltanto qualche decina di persone, e non certo un flusso pari a quello ipotizzato nelle fantasie degli africanisti quando sognavano di potervi trasferire parecchie migliaia di quei contadini che avevano visto «vivere in condizioni spaventose in Sicilia, Calabria, Basilicata» (confronta Roberto Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1958, pagine 517-526 e 582-594; Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale: dall’Unità alla marcia su Roma, volume I, Mondadori, Milano 1992, pagine 516-521; Ernesto Ragionieri, Storia d’Italia, volume XI – Lo Stato liberale, Edizioni Einaudi-Il Sole 24 Ore, Milano 2005, pagine 1821-1829).

5 Confronta Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale: dall’Unità alla marcia su Roma, volume I, Mondadori, Milano 1992, pagina 520. Il tentativo di colonizzazione agraria in chiave «scientifica» di Leopoldo Franchetti si concluse con un amaro insuccesso, ma nello stesso tempo con l’intelligenza di avere posto in luce, assieme alle conseguenti riserve circa ulteriori iniziative analoghe, i limiti strategici di un’utopia che nel caso del Franchetti ebbe aspetti di una sua peculiare nobiltà, ed il cui carattere originale, peraltro, sarebbe rimasto lungamente privo di seguito.

(giugno 2018)

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