Barga e Giovanni Pascoli
Una presenza motivante sul piano storico

«Castelvecchio Pascoli è un nido di pace ancora oggi. Quando da Lucca si prende la via del Brennero e ci si allontana dalla città, si raccolgono intorno a noi, sempre più vicine, le colline che l’adornano. Diventeranno veri e propri monti, allorché si giungerà in Garfagnana. Castelvecchio è a metà strada e i suoi monti sono ancora colline. La più splendida delle quali è quella su cui si erge il fastoso Duomo di Barga, la cittadina che, dopo Lucca, è forse la più rappresentativa dell’intera provincia. È appartenuta ai Fiorentini per molti secoli, e nonostante Lucca la desiderasse, essi ne furono i gelosi custodi fino al 1859.

Quando Giovanni Pascoli il 2 marzo 1902 si trasferì definitivamente a Castelvecchio, sito nel comune di Barga, dopo avervi già soggiornato per qualche tempo, Barga era lucchese, e l’accolse con un bel frastuono, se è vero, come si legge nel volume dedicato al poeta e che ha la bella introduzione del Professor Giorgio Barberi Squarotti[1] che “vi arriva, accolto dal terremoto”.[2]

L’ha cercato intensamente, il Pascoli, un luogo dove poter vivere in pace e a contatto con la natura. Di carattere piuttosto riservato, amante del silenzio, di umore scostante ed irritabile, egli scoprì in Castelvecchio, che allora pareva, pur a poca distanza da Barga, sperduto e distaccato dal mondo, la villa che apparteneva ai Caproni, la famiglia da cui discende il noto poeta livornese Giorgio Caproni. Gli piacque, sentì che l’avrebbe amata e fece di tutto per comprarla; s’indebitò, impegnò le sue cinque medaglie d’oro vinte al premio poesia latina che si teneva ogni anno ad Amsterdam, e finalmente riuscì ad averla tutta per sé».

I Canti di Castelvecchio che tutti a scuola abbiamo letto e che rappresentano il poeta nella sua più compiuta interezza, sono l’essenza di questo suo mondo.

Castelvecchio di Barga

Panorama di Castelvecchio di Barga (Italia)

«In effetti il poeta non si era sbagliato nella scelta ispirata dalla sua anima sensibile, e se ne accorse quando si trovò presto circondato dall’affetto dei contadini e delle umili famiglie che vivevano in quel paese, così lontano dalla sua Romagna, e che avevano visto arrivare questo massiccio sconosciuto, di cui si sentiva dire che era famoso quanto D’Annunzio, se non di più. E lui, il grande poeta, non li disdegnò; si intratteneva con loro affabilmente, ritrovando in quel contatto una fiducia nell’uomo che si era smarrita dal giorno in cui suo padre era stato assassinato senza pietà e senza che si fosse mai scoperto il colpevole. Il suo dolore l’aveva denunciato con la poesia intitolata La cavalla storna, che ogni studente d’Italia, almeno in passato, ha conosciuto ed imparato a memoria. Quel grido di dolore era un irrevocabile atto d’accusa contro tutta l’umanità».

E qui abbiamo davvero rappresentata l’essenza, non solo del poeta e del suo pensiero, ma di una realtà del periodo fatta di incongruenti contenuti politici, economici, ideologici. Perché il padre di Giovanni Pascoli era stato socialista in quella Romagna che fece del socialismo nella seconda metà del XIX secolo un pilastro della sua stessa essenza. Non a caso Benito Mussolini, che aveva origini socialiste, amò sempre incondizionatamente il Pascoli e durante la dittatura la sorella del poeta riuscì a rendere la villa di Castelvecchio luogo della Memoria in via ufficiale a livello nazionale. Sono i Canti di Castelvecchio in qualche modo un richiamo politico? Direi di sì, perché ci si può allontanare simbolicamente da un impegno civile in senso stretto, ma non sul piano affettivo e relazionale.

Non fu Castelvecchio per Giovanni Pascoli solo un modo per sfuggire i barlumi di guerra che già in quei primi anni del Novecento si profilavano all’orizzonte. Bensì una risorsa, dettata dai rintocchi delle campane dello splendido Duomo di Barga, a sua volta simbolicamente segno della nostra storia nazionale. Nei Canti di Castelvecchio ritroviamo dunque il bisogno di Giovanni Pascoli, ma direi di un’intera generazione, sensibile come lui, di ascoltare i suoni e gli umori di un’epoca che qualche anno dopo, con la Grande Guerra, avrebbe devastato il pianeta. Una devastazione umana, prima ancora che economica e politica. L’inizio vero di quel senso del capitalismo sfrenato ed irrinunciabile che la Belle Epoque aveva senza dubbio anticipato.

Ascoltare ed assaporare la bellezza dei luoghi, dei simboli, che la stessa cittadina barghigiana rappresentava e rappresenta. Insomma, un pezzo di storia d’Italia. Qui è nato il prodittatore della Sicilia e garibaldino Antonio Mordini, a cui Garibaldi offrì l’Isola quando dovette precipitosamente allontanarsene, durante l’impresa di Mille. Qui, in Barga, sono cresciuti, sin dall’epoca comunale, quei valori che nel bene e nel male contrassegnarono il nostro Paese. La «fiorentina» Barga era ed è qualcosa di più che una semplice cittadina immersa nel verde. Lo sanno bene i numerosissimi visitatori inglesi che a tutt’oggi soggiornano ed hanno dimore in Barga. I cui progenitori, dalla lontana Londra, contribuirono in qualche modo durante il Risorgimento, a segnare la nostra storia nazionale. Non se ne sono dimenticati, gli Inglesi, nel bene e nel male.

Dalla terrazza della villa di Pascoli si osserva in maniera inequivocabile Barga e il suo Duomo. E se Pascoli, trascorreva lì, dove aveva il suo studio, i momenti più significativi della sua quotidianità, non possiamo esimerci da queste osservazioni, che forse proprio oggi, in maniera così attuale, ci riguardano.

Nel 2012 si è celebrato il centenario della morte del Grande Poeta. Le sue inquietudini umane e politiche sono ancora le nostre.

Pascoli aveva non solo con Barga ma anche con Lucca rapporti intensi. Era stato l’allievo più emergente di Giosuè Carducci, il poeta risorgimentale per antonomasia, che ha i suoi natali in Versilia, e che conservò a lungo importanti amicizie proprio in Barga e in Lucca.

Giovanni Pascoli, seppur distante dal maestro Carducci per sensibilità, anche artistica, gli rimase di fatto vicino spiritualmente. Ritengo perciò la scelta di Castelvecchio niente affatto casuale.

Il Poeta viene descritto spesso in loco come chiuso nel suo studiolo pieno di carte e di libri, oppure a passeggio nel suo giardino, senza mancare tuttavia di percepire i rintocchi delle campane del Duomo di Barga. E quando li udiva, pare si fermasse, qualunque cosa facesse, perfino arrestava la poesia che stava «scaturendo dalla sua anima» e si metteva in ascolto.

Un ascolto, suggerisco, fatto di ricordi, anche nostalgici, verso quella sua infanzia ed adolescenza, caratterizzate dalla presenza di una Romagna e di una Bologna particolarmente politicizzate, dove un animo poetico e «distaccato» come il suo non poteva non aver assaporato gesti, ricorrenze, consuetudini ed esperienze che lo avevano sin da piccolo così amaramente ma anche intensamente coinvolto.

Il suo Fanciullino è un po’ il fanciullino deluso, amareggiato, ma non rassegnato, che c’è in ognuno di noi, e che ci obbliga ogni giorno a riflettere. Pascoli ci ha insegnato che anche questo è un modo per «fare storia, per esserci». Ed Egli non a caso è uno dei poeti più rappresentativi nel nostro Paese per la storia recente e meno recente.

«Quei contadini barghigiani che conobbero presto i suoi versi, e li fecero propri, li recitavano in famiglia, perché parlavano di loro, delle loro abitudini, dei loro volti segnati, delle loro fatiche, delle maledizioni della sventura, dei profumi dei loro boschi e della loro terra, della forza della loro volontà».

In questo senso certamente Pascoli è un Verista, e comunque rappresenta quel socialismo risorgimentale che nel nostro Paese ha avuto grande riscontro.

Ma è anche un cronista, che fa della quotidianità ragione descrittiva di una società malata, niente affatto bucolica in senso stretto, bensì carica di tensioni dietro questa facciata «rassicurante», di calma piatta, che i Canti vogliono apparentemente suggerire.

Quella di Giovanni Pascoli è dunque una «protesta» servita in un piatto freddo. Perché il piatto caldo lui lo aveva sperimentato, sulla sua pelle, sin da ragazzino.

Lucca e la sua terra, in apparenza così distaccata da una lotta politica nazionale cruenta, che in Romagna vide tra XIX e XX secolo il suo apice, era pur tuttavia simbolicamente vicina a quella realtà nazionale che suggeriva viceversa una «nostalgia senza tempo». Ma che non aveva niente di nostalgico.

Vuol essere, questa, una lettura un po’ diversa di quello che considero a tutt’oggi il mio poeta preferito, con i suoi aquiloni senza tempo. Ma soprattutto una lettura diversa in chiave storica della figura di Pascoli e dei luoghi che lo videro particolarmente attivo come poeta e come uomo. E dove scelse di riposare. Quando nel 1912 morì in Bologna, in Castelvecchio venne sepolto. Due anni dopo scoppiò la Prima Guerra Mondiale. I richiami di Giovanni Pascoli e della sua poesia si diffusero in quel frangente, in modo ancor più significativo e diffuso.


Note

1 Pascoli, Utet, 2002.

2 Al Pascoli dedica un bel libro anche il Viareggino Cesare Garboli nei Meridiani Mondadori del 2002 dal titolo Pascoli, poesie e prose scelte.

(luglio 2014)

Tag: Elena Pierotti, Novecento, Italia, letteratura, poesia, Barga, Giovanni Pascoli, Castelvecchio Pascoli, Lucca, Garfagnana, Duomo di Barga, Giorgio Barberi Squarotti, Giorgio Caproni, Canti di Castelvecchio, La cavalla storna, Benito Mussolini, socialismo, politica, Antonio Mordini, Garibaldi, Giosuè Carducci, Versilia, natura, solitudine, Romagna, Bologna, Fanciullino, Verismo, Cesare Garboli.