La «Settimana Rossa» del 1914
Nel 1914, l’estrema Sinistra diede vita ad un’ondata insurrezionale per prendere il potere in Italia – ondata che però si esaurì in brevissimo tempo

La ricorrenza degli spari di Sarajevo, da cui la Grande Guerra avrebbe tratto rapida origine, ha distratto gran parte delle attenzioni da un altro centenario di rilievo, quasi concomitante: quello della cosiddetta «Settimana Rossa», capace di infiammare diverse regioni italiane, con particolare riguardo alla Romagna ed alle Marche, e di scatenare una forte ondata insurrezionale, sebbene effimera, che per qualche momento parve idonea a travolgere le istituzioni di uno Stato ancora giovane non senza mettere in forse la sopravvivenza della stessa Monarchia.

L’Italia liberale, a partire dal 1870, quando il programma unitario era stato sostanzialmente completato a Porta Pia, aveva conosciuto non poche difficoltà, legate ad un’opposizione cattolica intransigente, per lo meno fino agli inizi del nuovo secolo; alle incertezze della politica estera, che avevano indotto un’alleanza per diversi aspetti innaturale, come quella con gli Imperi Centrali, ed avevano sacrificato gli investimenti nello sviluppo e nelle infrastrutture a favore di un colonialismo in buona misura velleitario; ad un sistema fiscale spesso vessatorio, anche in rapporto a quelli di taluni Stati del Vecchio Regime; e soprattutto, al disagio delle classi inferiori, attestato in maniera icastica dai moti di protesta che si erano tradotti in una trentina di eccidi, fra cui quello emblematico del 1898, quando non si era esitato a schierare i cannoni dell’esercito regio contro il popolo milanese in cerca di pane.

Nel 1914 la rivoluzione italiana era lungi dall’essere matura, come avrebbe dimostrato la rapida catarsi della «Settimana Rossa», ma le condizioni di vita erano molto difficili, mentre la coscienza dei nuovi diritti acquisiti con il suffragio universale maschile dell’anno precedente andava assumendo dimensioni sempre più vaste. Dal canto loro, i timori dei liberali non erano certo scomparsi col ritorno dei Cattolici alla vita politica in chiave moderata, anch’esso maturato formalmente nel 1913, e nemmeno alla luce dei fasti poetici di un’Italia che l’ispirazione di Giovanni Pascoli aveva identificato nella «Grande Proletaria» in marcia verso i suoi destini.

Ciò non toglie che nel giugno 1914 si fosse giunti ad una tensione mai registrata prima, nemmeno in occasione del disastro di Adua o delle repressioni più violente dei moti popolari, come quelle occorse a Milano, in Lunigiana ed in vari centri del Mezzogiorno. Ad Ancona, cuore della prima insurrezione, la protesta repubblicana si era fusa con quella anarchica: in conseguenza, la forza pubblica non aveva esitato ad aprire il fuoco, sparando settanta colpi contro i dimostranti, tra cui si contarono parecchi feriti e tre morti (i mazziniani Antonio Casaccia e Nello Budini, e l’anarchico Attilio Gianbrignoni). L’indignazione popolare si estese rapidamente, soprattutto nel Forlivese e nel Ravennate, e quindi in tutto il Paese, grazie allo sciopero generale, auspice un giovane Pietro Nenni, ed alla paralisi del trasporto ferroviario: fu soprattutto nei territori già appartenenti al vecchio Stato Pontificio che le pregiudiziali libertarie del massimalismo laico trovarono i maggiori consensi, fino ad erigere un improbabile nuovo «albero della libertà». Tuttavia, finirono per dissolversi nel breve periodo davanti alla reazione dell’Italia ufficiale ed al distacco di un ceto medio in cui le attenzioni prioritarie per le vicende internazionali avevano trovato sponde importanti nel conservatorismo moderato, nella propaganda nazionalista e negli interessi del mondo produttivo.

Sulla «Settimana Rossa» si è scritto molto, ed in occasione del centenario non sono mancate le celebrazioni, soprattutto nelle Marche, dove i ricordi di quella stagione di forti speranze e di altrettanto cocenti delusioni sono assai vivi nella cultura e nella sensibilità locali. Qui, non si tratta di dare ulteriore spazio ad eventi largamente noti ed all’analisi delle loro matrici, ugualmente ampia; sembra il caso, piuttosto, di proporre qualche spunto di meditazione su quanto rimane della «Settimana Rossa» ad un secolo dai fatti, e sul significato di quella tragica vicenda, nel quadro di un’informazione «attuale» conforme ai canoni della storiografia moderna.

In quella vigilia della Grande Guerra, la spinta rivoluzionaria espressa dall’estrema Sinistra con il concorso importante degli anarchici raggiunse un livello destinato a rimanere massimo. Dopo Sarajevo, le cose sarebbero cambiate rapidamente, e l’immenso conflitto avrebbe finito per diventare un enorme lavacro conforme all’auspicio, a suo modo messianico, di Filippo Tommaso Marinetti e delle posizioni avveniristiche espresse dalla cultura dell’epoca; più tardi, le pregiudiziali della Vittoria «mutilata» e del combattentismo tradito, senza contare la grande questione di Fiume, avrebbero fatto il resto, aprendo la strada ad una soluzione dei problemi sociali orientata a percorrere strade profondamente diverse da quelle dell’anteguerra, rinviando a tempi indefiniti la stessa soluzione del problema istituzionale e chiudendo nel cassetto il sogno di Errico Malatesta che aveva visto nella «Settimana Rossa» l’occasione propizia per liquidare la Monarchia in tempi particolarmente rapidi.

Persino dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Sinistra Italiana avrebbe accantonato progressivamente il disegno di impadronirsi del potere sulla falsariga delle democrazie popolari, approdando, sia pure senza vera convinzione, in specie iniziale, ad un pluralismo reso necessario dalla rinnovata forza del movimento cattolico e della «maggioranza silenziosa», e nello stesso tempo, ad un sostanziale attendismo, imposto dalle sue stesse divisioni e dalla complessità della congiuntura politica internazionale. In definitiva, il suo percorso l’avrebbe allontanata dalla rivoluzione, facendola diventare Sinistra di Governo in modo sempre più chiaro e condiviso, nonostante i conati di una nuova estrema, tanto massimalista quanto minoritaria.

La «Settimana Rossa», con la sua rapida catarsi, pose in evidenza, al di là delle «distrazioni» indotte dall’enorme crisi, prima europea e quindi mondiale, che la dialettica politica italiana doveva fare i conti con troppe variabili per poter aspirare ad una soluzione di tipo sovietico che la stessa guerra avrebbe paradossalmente allontanato, diversamente dall’esperienza altrui, promuovendo una nuova unità più sofferta e più convinta della precedente, e consolidandola, prima ancora che nei Governi «nazionali» di Paolo Boselli, e soprattutto di Vittorio Emanuele Orlando, nelle trincee eroiche del Piave e del Monte Grappa.

In qualche misura, la «Grande Proletaria» avrebbe trovato l’essenza del suo ethos nazionale non tanto nelle avventure africane di Giolitti che il Pascoli aveva esaltato quali spunti di una nuova missione collettiva, ma nello spirito di sacrificio e di coesione patriottica suscitato dalla difesa della Patria, in cui avrebbero finito per riconoscersi, in significativa maggioranza, anche gli esponenti della Sinistra storica, sottolineando il carattere utopistico del massimalismo rivoluzionario e coniugando le attese di legittimo progresso sociale con i nuovi valori, spirituali ed universali.

(settembre 2014)

Tag: Carlo Cesare Montani, Italia, Belle Epoque, settimana rossa, 1914, rivoluzione, estrema Sinistra, insurrezione, sciopero, Pietro Nenni, paralisi del trasporto ferroviario, vigilia della Grande Guerra, Grande Proletaria, vigilia della Prima Guerra Mondiale.