Il Titanic, una tragedia annunciata
La più grande nave mai costruita, un gigante che solcava gli oceani per la prima ed unica volta. Colò a picco per un’incredibile sequenza di errori

Era il 10 aprile del 1912 quando, salutato da una grande folla festante e seguita dai lettori dei giornali di tutto il mondo, il Titanic si staccava tranquillo dalle banchine del porto di Southampton, in Inghilterra, volgendo la prua verso New York, negli Stati Uniti d’America. Trasportava un equipaggio di 891 persone e 1.316 passeggeri: alcuni di questi ultimi erano ricchi sfondati, mentre circa 700 erano emigranti e viaggiavano in classe economica; tutti erano comunque convinti che la perigliosa traversata dell’Atlantico Settentrionale non avrebbe avuto problemi. «Dio stesso non riuscirebbe ad affondare questa nave» aveva detto con orgoglio un membro del personale di bordo.

Lungo come tre campi da football, alto come un edificio di 11 piani, con una doppia chiglia e 16 compartimenti stagni che potevano essere chiusi quasi istantaneamente, il transatlantico da 46.000 tonnellate della White Star Line era non solo la più grande nave mai costruita, ma il prodotto dell’ingegneria navale più avanzata; oltre a questo, le sue lussuose peculiarità, come i bagni turchi, le ampie verande fiancheggiate da palme, i cibi raffinati e la migliore orchestra di bordo ne facevano un mondo a sé, ovattato e lontano dalla furia del vento e delle onde. Le fotografie dell’epoca possono dare un’idea della grandiosità del Titanic e dell’opulenza degli arredi: l’imponente scalinata del foyer del ponte A, con le ringhiere istoriate, le statue, i bassorilievi sembrava l’ingresso di un palazzo signorile del Cinque o del Seicento!

Titanic

Modellino del Titanic realizzato da Danilo Remigi, collezione dell'Autore, Desio (Italia); fotografia di Domenico Galli, 2016

Interno del Titanic

La scalinata del foyer del ponte A

Nella tranquilla notte senza luna del 14 aprile, la nave procedeva alla velocità di 22 nodi, superiore alla norma e non indicata nelle acque del Nord; ma si era deciso di far giungere il Titanic a destinazione prima ancora dell’orario previsto, per far più colpo sull’opinione pubblica.

Fin dalle 9 del mattino di quella fredda domenica c’erano stati almeno sei avvistamenti di iceberg[1] segnalati da altre navi che stavano viaggiando su quella stessa rotta per l’America del Nord.

Un radiotelegrafista del piroscafo Caronia aveva messo sull’avviso il capitano del Titanic, E. J. Smith, ormai prossimo alla pensione (quello doveva essere il suo ultimo viaggio); il capitano aveva segnalato il ricevimento del messaggio. Nel primo pomeriggio, un operatore del Titanic aveva consegnato a Smith un preciso avviso del Baltic: «Iceberg e grandi quantità di bachi di ghiaccio oggi a latitudine 41° 51’ Nord, longitudine 49° 52’ Ovest». Il capitano l’aveva passato a J. Bruce Ismay, amministratore delegato della White Star Line, che lo lesse e se lo mise in tasca senza commenti. Dal Californian erano pervenuti almeno due messaggi: «Tre grandi iceberg» avvertiva il primo. In serata, da un punto distante circa 19 miglia, l’operatore di quella nave aveva ancora radiotrasmesso: «Ehi, amico, siamo bloccati qui, circondati dal ghiaccio». Jack Phillips, il marconista del Titanic, gli aveva risposto seccato: «Piantala! Sta’ zitto! Stai disturbando il mio segnale. Sono collegato con Cape Race».

(Una simile risposta oggi può sembrare incredibile, ma rivela qual era l’effettivo compito delle radiocomunicazioni sui lussuosi piroscafi di linea dell’epoca: dall’operatore di Cape Race a Terranova, Phillips stava ricevendo messaggi personali per i passeggeri importanti della nave e questi avevano la priorità. Essendo inoltre Phillips e gli altri radiotelegrafisti dipendenti di una società di telecomunicazioni – la British Marconi Company –, essi non facevano parte dell’equipaggio della White Star e non erano agli ordini del comandante del Titanic).

Alle 21 e 40 minuti, il Mesaba riferì: «A latitudine da 42° Nord a 41° 25’ Nord, longitudine da 49° Ovest a 50° 30’ Ovest avvistate molte banchise e un gran numero di grossi iceberg». Se gli ufficiali del Titanic ricevettero il messaggio (cosa di cui non si può dire con certezza), avrebbero dovuto rendersi conto immediatamente che il pericoloso blocco di ghiaccio si trovava proprio davanti a loro. Le vedette, che non disponevano ancora di binocoli ed erano appostate sulla coffa a metà della nave anziché a prua, erano state avvertite che si sarebbe potuto incontrare il ghiaccio in qualsiasi momento dopo le 21 e 30, ma nessun iceberg era stato avvistato nel corso della serata. Il cielo limpido, punteggiato di stelle, metteva in evidenza soltanto un mare calmo e liscio; la linea dell’orizzonte era indistinguibile, sfumata dalla caligine che saliva dalla superficie del mare.

Ma intanto arrivò un segnale sinistro: la temperatura dell’acqua in poche ore scese bruscamente da 6 gradi a poco sopra il punto di congelamento, il che indica sempre, nelle acque settentrionali, la probabile presenza di ghiaccio in avvicinamento. Eppure, il Titanic non rallentò né virò verso Sud per evitare la zona pericolosa nella quale stava entrando.

Verso le 22, alcuni passeggeri di seconda classe si erano riuniti per cantare in coro inni, tra cui un canto marinaro tradizionale: «Oh, ascoltaci quando Ti preghiamo per coloro che sono in pericolo sui mari». Alle 23 e 40 la vedetta Frederick Fleet scorse all’improvviso – solo 1.500 metri più avanti – una sagoma scura, più scura delle buie acque sulle quali galleggiava, che si ingrandiva rapidamente. Suonando tre volte la campana della coffa, segnalò in plancia: «Iceberg dritto di prua!». L’ufficiale William Murdoch diede allora due ordini contraddittori: comandò l’inversione di marcia alla sala macchine e al timoniere Robert Hichens di girare la ruota del timone tutta a dritta, ossia, nel gergo marinaro del tempo, volgere la poppa verso il lato destro dello scafo, così che la prua virasse a sinistra.

Presi singolarmente, i due ordini sarebbero stati entrambi giusti. Sommati, erano una follia.

Mi spiego: la rapidità di virare di una nave dipende dalla sua velocità; più la nave rallenta, più la virata è lenta. Se davvero si voleva evitare la collisione con l’iceberg, la cosa più sensata sarebbe stato aumentare ancor più l’andatura, cosicché la virata avvenisse con maggiore rapidità. Ancor meglio sarebbe stato invertire la marcia, mettendola indietro tutta, ma puntando direttamente contro l’iceberg di prua: molte persone sarebbero cadute all’impatto, forse si sarebbe aperta una falla, ma la nave sarebbe rimasta a galla o sarebbe affondata molto più lentamente di come avvenne in realtà, permettendo l’arrivo dei soccorsi.

Procedendo a più di 22 nodi, con uno spostamento di oltre 66.000 tonnellate d’acqua, il Titanic non poteva rallentare immediatamente; poi iniziò a virare, piano, molto piano. La montagna di ghiaccio si faceva più vicina, sempre più vicina, diveniva enorme, molto più alta del castello di prua. Frederick Fleet s’irrigidì aspettando l’urto. Poi, all’ultimo secondo, la prua cominciò a piegare verso sinistra; l’ammasso di ghiaccio, ormai incombente, scivolò via lungo il fianco destro della nave. Il marinaio tirò un sospiro di sollievo, ma lo fece troppo presto: il ponte si ricoprì di ghiaccio, mentre l’iceberg – con uno sperone subacqueo – produceva uno squarcio di una decina di metri nella fiancata destra.

Nel locale caldaie numero 6, il fuochista Frederick Barrett stava parlando col secondo ufficiale di macchina, quando s’accese la luce rossa d’allarme e, con uno schianto assordante, l’intera paratia d’acciaio si aprì in un turbine di schiuma bianca e l’acqua verde e gelida irruppe nell’ambiente. Barrett fece appena in tempo a rifugiarsi nell’adiacente sala numero 5 prima che la porta stagna si richiudesse violentemente.

La collisione fu avvertita da pochi passeggeri, e solo come poco più di uno scossone. Un personaggio del gran mondo in seguito descrisse la sensazione provata «come se qualcuno avesse fatto scorrere un dito gigantesco lungo il fianco della nave»; una donna paragonò il rumore dell’impatto allo strappo di un pezzo di tela; alcuni passeggeri di prima classe si alzarono di scatto dalle comode poltrone di pelle nel «fumoir» per vedere l’iceberg, torreggiante sul ponte della nave come se stesse per sfiorarla, ma non sembrò loro il caso di allarmarsi.

L’equipaggio si era reso conto della situazione. Il capitano Smith conferì brevemente con il progettista del transatlantico, l’ingegnere navale Thomas Andrews e, scesi nella stiva, si avvidero che cinque compartimenti erano inondati. Se fossero stati solo quattro, la nave si sarebbe salvata: ma con cinque, il peso dell’acqua che irrompeva nella stiva avrebbe fatto abbassare lo scafo fino a permetterle di raggiungere la sommità delle paratie stagne, inondando poi i compartimenti rimasti asciutti uno dopo l’altro. Lo squarcio era tanto più lungo in quanto lo scafo era stato fatto con acciaio di bassa qualità, per ridurre i costi di produzione. Andrews calcolò che l’«inaffondabile» Titanic avrebbe galleggiato ancora per un’ora e mezzo, forse due. Non di più.

Poco dopo la mezzanotte, circa 25 minuti dopo l’apparentemente insignificante impatto, fu ordinato all’equipaggio di approntare le 16 scialuppe di salvataggio e le quattro zattere gonfiabili che erano a bordo: al massimo potevano contenere 1.178 persone, un migliaio meno di quanto sarebbe stato necessario per il personale di bordo e i passeggeri, che cominciavano ad affollarsi sui ponti. Il numero delle scialuppe era stato calcolato per il salvataggio di 962 passeggeri, poiché non era stata prevista la costruzione di una nave di simili proporzioni, e perché posizionare tutte le scialuppe necessarie avrebbe impedito la vista del mare dal ponte. Del resto, non si era presa in seria considerazione l’eventualità che una ammiraglia della White Star Line dovesse essere evacuata. Inoltre, non tutte le scialuppe erano dotate di torce da segnalazione, di cibo e di contenitori d’acqua potabile; anche le cinture di salvataggio scarseggiavano.

La situazione stava precipitando nel caos: i passeggeri non avevano ricevuto alcuna istruzione al riguardo e i posti sulle lance non erano stati assegnati. Per cercare di ripristinare la calma, il maestro Wallace Henry Hartley radunò l’orchestra e attaccò a suonare un ritmo sincopato, ma la realtà apparve in tutto il suo orrore a mezzanotte e 45 minuti, non appena fu sparato il primo razzo di richiesta d’aiuto.

Qualche settimana prima, in un congresso internazionale a Berlino, era stato approvato un nuovo segnale di SOS, che il marconista Phillips si era affrettato ad inviare. Il Californian era di fronte ad una banchisa a sole 10 miglia e qualcuno dell’equipaggio avvistò delle luci a Sud-Est, ma non sapeva che fosse il Titanic e che si trovasse in difficoltà. Stanco, e forse anche un po’ seccato, il marconista aveva chiuso la radio dopo che Phillips lo aveva rimbrottato ed ora, mentre il Titanic chiedeva disperatamente aiuto, era immerso in un sonno profondo. Il capitano Stanley Lord preferì non svegliarlo, dato che aveva già lavorato 15 ore filate, e si limitò ad inviare segnali Morse alla nave non identificata, senza riceverne risposta. Secondo la maggior parte dei rapporti successivi, le correnti avrebbero consentito al Californian di raggiungere il Titanic più o meno nel momento in cui colava a picco.

Qualche tempo dopo mezzanotte, il radiotelegrafista della nave passeggeri Carpathia, che era semivuota, decise di chiamare il Titanic in merito a certi messaggi ricevuti da Cape Race. Con sgomento captò il segnale: «CQD SOS. Venite subito. Abbiamo urtato un iceberg». Distante circa 58 miglia nautiche (più di quattro ore di navigazione), il Carpathia partì a tutto vapore per portare soccorso; i macchinisti chiusero le valvole di sicurezza della sala macchine – compiendo un illecito – per portare il limite normale di 14 nodi a 17. Ma anche così, non si sarebbe arrivati che due ore dopo il previsto affondamento del Titanic.

Sul transatlantico, nel frattempo, regnava la confusione. Il magnate John Jacob Astor si mostrava scettico sull’evacuazione della nave, asserendo che si era più sicuri rimanendo a bordo, e qualcuno vicino a lui era dello stesso parere; ma l’equipaggio aveva esortato i restii a non perdere tempo se volevano salvarsi. A poco a poco la resistenza si affievolì e i passeggeri si piegarono alla sgradevole necessità di riempire le scialuppe. Gli uomini rimasero stoicamente in attesa che salissero prima le donne e i bambini su quelli che sembravano fragili scafi. Astor aiutò la giovane moglie a prender posto su una delle lance, ma non vi salì: il suo corpo fu ritrovato successivamente in mare. La moglie di Isidor Straus, ex membro del Congresso e direttore generale dei grandi magazzini Macy’s, non volle unirsi alle altre donne: «Sono sempre stata con mio marito» spiegò e, rivolgendoglisi, soggiunse: «Dove vai tu, vado anch’io». Il magnate Ben Guggenheim, mentre la nave stava ormai colando a picco, si cambiò indossando un completo da sera, dichiarandosi pronto ad andare a fondo da gentiluomo: «Non sia mai che una donna rimanga su questa nave per la codardia di Ben Guggenheim». Nel marasma generale la prima lancia, che poteva portare 65 persone, fu messa in acqua con solo 28; un’altra, della capacità di 40 passeggeri, partì con 12.

Verso l’una e 40 minuti, quando sembrava che non vi fossero più a bordo donne e bambini, Ismay, l’amministratore delegato della White Star Line, prese posto in una delle ultime scialuppe. In seguito fu accusato dalla stampa di aver abbandonato la nave mentre altri erano ancora a bordo. Alle 2 e un quarto, quando stavano per essere messi in mare gli ultimi due mezzi di salvataggio, il Titanic s’inclinò in modo da rendere impossibile l’operazione. Dai ponti inferiori emersero allora i passeggeri della classe economica, che erano stati dimenticati (e fra i quali vi erano sicuramente molte donne e bambini), per vedere che cosa stesse accadendo: nessuno li aveva avvertiti, e molti erano ancora all’interno quando la nave affondò.

Erano rimasti a bordo oltre 1.500 passeggeri. Secondo la leggenda popolare, l’orchestra aveva cominciato a suonare Vicino a te, mio Dio, ma l’ultimo brano eseguito, in realtà, fu l’inno episcopale Autunno: «Dio di grazia e misericordia / abbi pietà della mia pena; / ascolta il lamento di uno spirito afflitto / prostrato ai tuoi piedi. / Sollevami dalle possenti acque».

Affondamento del Titanic

L'affondamento del Titanic in un dipinto d'epoca di Willy Stöwer

Centinaia di persone si radunarono a poppa, mentre questa si sollevava sempre più in alto. Alle 2 e 18 il Titanic stava dritto sulla prua, in posizione verticale. Quindi, con un frastuono terrificante, uno dei fumaioli crollò, le paratie stagne scoppiarono verso l’interno e tutto ciò che non era legato sui ponti – attrezzature e uomini – precipitò in mare; i fuochisti rimasero ustionati quando l’esplosione delle caldaie portò al bollore le acque gelide. Un superstite avrebbe ricordato in seguito «le grida strazianti che prorompevano da migliaia di gole, i lamenti e le invocazioni dei feriti, le urla di quanti erano in preda al terrore, e i rantoli di quelli che stavano per affogare».

Alle 2 e 20 minuti, ormai inclinato di 70 gradi, il transatlantico scivolò sott’acqua in una nube di schiuma, spaccandosi in due tronconi mentre precipitava verso gli abissi alla velocità di 20 nodi. Spostandosi avanti e indietro, la nave spezzata raggiunse una grande corrente sottomarina che scorre a 2.400 metri di profondità. Verso le 2 e mezza le due metà del Titanic andarono a sbattere contro il fondo dell’oceano, alla profondità di quasi 3.900 metri, e i frammenti si sparsero in un raggio di 800 metri. Il relitto giaceva sottoposto ad una pressione di 440 chili per centimetro quadrato, circa 350 miglia a Sud-Est di Terranova. La più grande nave mai costruita aveva solcato l’oceano esattamente per 4 giorni, 17 ore e 30 minuti, prima di finire ingloriosamente la sua breve carriera.

Circa tre ore e mezzo più tardi, verso le 6 di lunedì 15 aprile, il Californian apprese finalmente la tragica notizia e si diresse verso il luogo del disastro. Alle 8 e 50 minuti, il Carpathia aveva preso a bordo tutti i sopravvissuti ed era ripartito alla volta di New York. Quando il Californian giunse a destinazione, il capitano spese circa un’ora alla ricerca di corpi ma, incredibilmente, disse poi di non averne trovato neanche uno. Solo una settimana più tardi, in quell’area, venivano recuperati 306 cadaveri dalla nave MacKay-Bennett: i giubbotti salvagente li avevano salvati dall’annegamento, ma la temperatura gelida delle acque non aveva lasciato loro scampo.

Al disastro sopravvissero solo 705 persone; di queste, 338 erano uomini (ossia il 20% circa degli uomini imbarcati), 316 erano donne (ossia il 74% circa), 51 erano bambini. I morti furono 1.502: fra essi 52 erano Italiani.[2]

Ma la storia del Titanic non termina qui: poco dopo la mezzanotte del 1° settembre 1985 (quindi più di 70 anni dopo l’affondamento del transatlantico) il sommergibile Argo iniziò a fotografare dei rottami sul fondo dell’oceano per mezzo di potenti luci stroboscopiche e di una sofisticata apparecchiatura video. Impiegato dai membri di una spedizione americana, sotto la direzione del geologo marino Robert Ballard, l’apparecchio individuò una delle 29 caldaie del Titanic alla profondità di 3.770 metri e a circa 350 miglia a Sud-Est di Terranova. In seguito, furono trovate le due metà della nave a mezzo chilometro di distanza. Ballard, che nel 1971 aveva già proposto una spedizione di ricerca del transatlantico affondato, si sentì «come un archeologo quando scopre la tomba di un Faraone».

Un anno dopo, una seconda spedizione fu in grado di fotografare il relitto più in dettaglio, trovando alcuni dei leggendari arredi in ottime condizioni: candelabri di cristallo, lavandini di porcellana, bottiglie di vino e pile di stoviglie. Sulla poppa della nave fu collocata una lapide commemorativa. Ballard, che ha considerato una mancanza di rispetto riportare alla luce il transatlantico sommerso, è riuscito a far dichiarare quel luogo il cimitero delle vittime da parte del Congresso Americano, e a rendere illegale qualunque tentativo di spostare o ricuperare qualsiasi parte della nave.

Non dovrebbe mai più accadere nulla di simile all’affondamento del Titanic: l’uomo aveva imparato a conoscere che cosa è un iceberg, la sua tremenda potenza e il pericolo mortale che esso può divenire; nel 1914, in una conferenza ispirata alla tragedia, le Nazioni marinare si accordarono sulla necessità di adottare nuove norme di sicurezza, per esempio dotare ogni nave di scialuppe sufficienti per mettere in salvo passeggeri ed equipaggio, garantire la presenza di un marconista 24 ore su 24 e via dicendo. Le navi dovevano essere costruite con paratie stagne fino al ponte. Il fisico tedesco Alexander Brehm aveva messo a punto l’ecoscandaglio, un dispositivo in grado di localizzare gli oggetti a distanza utilizzando le onde sonore. La tragedia che aveva visto colare a picco l’«inaffondabile» nave della White Star Line durante il viaggio inaugurale aveva insegnato a tutti qualcosa.

Eppure, incredibilmente, la catastrofe si ripeté quasi con le stesse modalità il 20 giugno 1989, quando la nave da crociera sovietica Maksim Gorkij, di 190 metri, fu urtata poco dopo la mezzanotte da un enorme blocco di ghiaccio alla deriva nel Mare di Groenlandia, a Nord della Norvegia. In quel momento, il comandante e molti altri si trovavano nella sala ristorante a festeggiare il raggiungimento del punto più settentrionale toccato durante la crociera; ma, come nel caso del Titanic, molti passeggeri si erano già coricati. Mentre fervevano le danze, il ghiaccio produsse due squarci nella fiancata della nave – uno di sei e l’altro di due metri – facendo imbarcare in pochi minuti 18.000 tonnellate d’acqua. I 575 passeggeri – molti dei quali anziani turisti tedeschi – furono radunati sul ponte, dove indossarono i giubbotti di salvataggio.

«Vi fu una certa confusione quando si dovette prender posto nelle scialuppe» raccontò in seguito un passeggero, «ma non panico». Un altro lamentò che la sua scialuppa era rimasta sospesa sulla fiancata della nave più o meno per un paio d’ore, ma la maggior parte dei turisti ebbe parole di elogio per l’efficienza dell’equipaggio russo nell’evacuazione dei passeggeri e per la sollecitudine con cui la guardia costiera norvegese aveva svolto le operazioni di salvataggio.

Nella nebbia, con una pioggia gelida e la temperatura che si aggirava intorno ai 2 gradi, molti passeggeri trascorsero fino a sette ore avvolti in coperte leggere nelle barche o sui banchi di ghiaccio. Ma chi aveva problemi di cuore o di diabete fu prontamente trasportato in elicottero alle Spitsbergen, 320 chilometri ad Est dal luogo del disastro. Alcuni si sistemarono sui banchi di ghiaccio con le sedie a sdraio del ponte, ma molti si coricarono sul ghiaccio, temendo che potesse spezzarsi. Le scialuppe di salvataggio erano dotate di alcolici, ma mancava l’acqua potabile. Nessuno dei passeggeri, partiti per salutare il sole di mezzanotte nelle acque oltre il Circolo Polare Artico, e nessuno dei 377 membri dell’equipaggio riportò ferite.

Sulla nave norvegese Senje, che faticosamente riuscì a farsi strada attraverso quasi cinque chilometri di ghiaccio per raggiungere il Maksim Gorkij, il capitano sbuffava: «In acque simili io non avrei navigato a più di 2 o 3 nodi l’ora». E invece si sarebbe detto che quelli del Gorkij, viaggiando a 18,4 nodi, avessero voluto emulare il comportamento irresponsabile che aveva portato alla tragedia del Titanic. Anche con l’odierna tecnologia, i naviganti esperti di acque settentrionali sono sempre cauti perché il ghiaccio ha una risonanza al radar inferiore a quella di altri oggetti in mare. Secondo gli esperti, al Gorkij sarebbero occorsi almeno 45 minuti per fermarsi, quand’anche avesse individuato un iceberg o una banchisa distanti una decina di miglia. A quanto sembra, il comandante del piroscafo sovietico non era pratico di quelle acque che, forse, erano insolitamente stipate di ghiacci alla deriva. Grazie alla collaborazione fra Sovietici e Norvegesi, la nave fu ricuperata e rimorchiata fino a un porto dove fu riparata. I commentatori si chiesero, tuttavia, se la lezione del Titanic fosse già stata dimenticata.


Note

1 Gli iceberg (dall’inglese «ice», «ghiaccio» e dal tedesco «Berg», «monte») sono le più pericolose insidie dei mari del profondo Sud e del profondo Nord: si tratta di blocchi di ghiaccio che, a causa del flusso della marea e del movimento delle onde, si staccano dalla banchisa antartica o dalle coste groenlandesi per essere trasportati alla deriva dalle correnti. È uno spettacolo maestoso e pauroso insieme: una massa di ghiaccio che di frequente è lunga 200-300 metri, alta nella parte emersa da 50 a 75 metri sul livello del mare e con un peso di 25 milioni di tonnellate (ma, specialmente nei mari antartici, sono stati visti alcuni iceberg alti 600-700 metri, con una lunghezza di 160 chilometri!)... e pensare che, in origine, tutti gli iceberg non erano che un singolo fiocco di neve (l’iceberg che ha affondato il Titanic ha cominciato a formarsi 15.000 anni fa). Sono tanto più insidiosi, in quanto della loro mole emerge dalle acque solo una minima parte (da un decimo a tre decimi), dato che il ghiaccio pesa poco meno dell’acqua: così, una nave potrebbe urtare con la chiglia nelle loro parti sommerse. In generale, gli iceberg dell’Atlantico Settentrionale sono bianchi e opachi, chiazzati da grandi macchie verdi e blu nei punti in cui l’acqua, gelandosi, ha imprigionato il plancton; molto spesso vi sono zone ricoperte di terra, sassi, massi raccolti dal ghiacciaio originale nel suo scorrimento sul terreno.

2 Per gli amanti del paranormale, si può aggiungere che alla tragedia del Titanic si collegarono diversi casi di precognizione, chiaroveggenza e retrocognizione. Il naufragio di un transatlantico molto simile al Titanic fu infatti descritto nel racconto Dal vecchio al nuovo mondo di William T. Stead (pubblicato nel 1893) e in un romanzo di Morgan Robertson del 1898; è da notare che lo Stead sarebbe stato tra i passeggeri del Titanic e morì nel naufragio. Altre persone ebbero il presentimento della disgrazia pochi giorni prima che avvenisse: tra questi vi fu l’ingegnere Colin Macdonald, che per tre volte rifiutò la remunerativa offerta di secondo ingegnere sul Titanic perché aveva avuto il presentimento che la cosa sarebbe stata per lui funesta; colui che prese il suo posto morì nel naufragio. Vi furono poi altri, soprattutto donne, che videro in sogno una nave che affondava coi suoi passeggeri; c’è chi riconobbe in alcuni di questi passeggeri i propri cari, che non sapeva fossero a bordo.

(giugno 2016)

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