Ventiquattro maggio
Significati e valori di una ricorrenza centenaria

Il centesimo anniversario dell’entrata italiana nella Grande Guerra è stato caratterizzato da una lunga serie di commemorazioni e di iniziative culturali, culminate nell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Monte San Michele. In parecchi casi, la partecipazione popolare è stata ampia e sentita, dimostrando in modo significativo la permanenza di un sentimento patriottico che, lungi dal costituire un’occasione rituale ma sostanzialmente ripetitiva, esprime la fedeltà a valori perenni: quelli che con felice sintesi sono stati definiti non negoziabili.

Nondimeno, la critica storica e le interpretazioni di carattere etico e politico continuano ad essere subordinate alla vulgata secondo cui gli enormi lutti causati dal conflitto sul fronte italiano sarebbero stati inutili, anche se non mancano giudizi di segno ben diverso, come quello di Gilles Pécout, secondo cui nel 1915-1918 si sarebbe combattuta la Quarta Guerra d’Indipendenza, o come quello di Mario Isnenghi, con un pertinente ammonimento circa i rischi impliciti in un giudizio a posteriori, incapace di chiedersi quale sarebbe stato all’epoca dei fatti.

Non meno opinabili risultano le valutazioni di quanti affermano che l’Italia, ripudiando la Triplice Alleanza con gli Imperi Centrali, avrebbe compiuto un atto riprovevole dal punto di vista diplomatico, e prima ancora, su quello morale. Ciò, dimenticando che la politica è stata sempre arte del possibile; che le offerte austriache affinché il Governo di Roma optasse per la neutralità erano state tardive e marginali, quanto meno rispetto al Patto di Londra stipulato con l’Intesa; e soprattutto, che non si poteva rimanere insensibili al «grido di dolore» proveniente dalle terre irredente.

C’è di più. L’Italia non ebbe alcun ruolo attivo nell’innescare l’avviamento delle operazioni militari ed il conseguente effetto domino, dato che la dichiarazione di guerra alla Serbia del 23 luglio 1914 venne formulata proprio dall’Austria-Ungheria, e per essa dall’Imperatore Francesco Giuseppe, con l’avallo del suo Capo di Stato Maggiore, Generale Conrad von Hoetzendorf.

Quanto alla presunta inutilità della guerra dal punto di vista geopolitico, vale la pena di rammentare che, nonostante le amputazioni territoriali seguite alla Seconda Guerra Mondiale, l’Italia conserva tuttora le città di Trento, Gorizia e Trieste, che avevano costituito per tanti decenni il sogno degli irredentisti, ma anche della Sinistra democratica, con riguardo specifico a quella repubblicana e radicale. Ciò, senza dire che, soprattutto dopo Caporetto, il processo di effettiva unificazione nazionale maturato in trincea andò compiendosi in modo accelerato, coinvolgendo tutte le classi sociali ed avvalendosi di contributi decisivi della popolazione femminile, chiamata a sostituire in molte incombenze, anche pesanti, i cinque milioni di uomini impegnati militarmente.

Il 24 maggio, tutte queste considerazioni, pur continuando ad essere presenti nella vasta fioritura di contributi storiografici che contraddistingue il centenario, hanno ceduto il passo a quelle, sempre più diffuse, sul carattere «amorale» della Grande Guerra: in effetti, l’inutilità della strage a cui aveva fatto riferimento il Santo Padre Benedetto XV, potrebbe essere riproposta per ogni guerra, coinvolgendo, per restare in Italia, quelle del Risorgimento ed a più forte ragione quelle d’Africa (1896) e di Libia (1911-1912). Tuttavia, nella Grande Guerra si era vista, accanto all’opportunità di completare l’unità della Patria, l’occasione di eliminare le ultime autocrazie, aprendo la strada di una palingenesi sociale davvero rivoluzionaria grazie a quello che si riteneva poter essere davvero l’ultimo conflitto.

La tragedia compiutasi fra il 1915 ed il 1918 sul fronte italiano, assieme a quelle anche maggiori che coinvolsero gli altri, ebbe dimensioni assolutamente macroscopiche, di gran lunga maggiori rispetto a quelle precedenti, sebbene anche il Risorgimento ed il colonialismo non fossero stati immuni da esperienze assai drammatiche, come a Solferino e Adua; ma ciò non deve costituire un giudizio aprioristico sulla Grande Guerra e sulle sue matrici. Caso mai, lo deve essere nei confronti di un’alta classe militare insipiente ed impreparata, oltre che incapace di utilizzare al meglio lo straordinario progresso tecnologico del Novecento; per la tristissima pagina dei processi militari e delle decimazioni; e per il tradizionale appiattimento dei mezzi d’informazione sulla volontà del potere. È innegabile che tutto ciò abbia avuto un’influenza decisiva nella proliferazione delle vittime, resa ancora più ampia da quelle civili, anch’esse decisamente abnormi nel confronto col passato.

Oggi, più che indulgere a recriminazioni anacronistiche, conviene stringere in un memore e riconoscente abbraccio tutti i caduti: dall’Alpino Riccardo Di Giusto, colpito da un cecchino nelle Alte Valli del Natisone (Matajur) all’alba del 24 maggio 1915, ad Alberto Riva di Villasanta, scomparso in Friuli nell’ultimo assalto della Cavalleria italiana il 4 novembre 1918 alle ore 15, proprio nel momento in cui l’armistizio diventava operante. Fra di loro, tutti gli altri, con una menzione speciale per le Medaglie d’Oro irredente di Cesare Battisti, Fabio Filzi e Nazario Sauro; per quella di Maria Plozner Mentil, in riconoscimento dell’eroica epopea delle portatrici e del contributo femminile alla vittoria; per il sacrificio dei tanti mutilati, alcuni dei quali scomparsi dopo lunghi anni di sofferenze inenarrabili, come la Medaglia d’Oro Fulcieri Paolucci de’ Calboli, pervicace nella propria fede nonostante l’invalidità permanente totale; o come un altro Alpino, Venanzio Ortis, ingiustamente fucilato per codardia e pienamente riabilitato soltanto in tempi recenti.

Conviene deporre un fiore e promuovere un’adeguata manutenzione nelle decine di sacrari in cui riposano i caduti di mille battaglie, da Redipuglia a Cima Grappa, da Asiago a Timau, dal Pasubio ad Oslavia, da Udine a Rovereto, e via dicendo. Conviene fare in modo che gli ignari possano finalmente imparare, e che quanti sanno, vogliano ricordare con una matura e compiuta consapevolezza.

Sia questo l’impegno per onorare la Patria nel nome di quanti si immolarono per l’Italia senza alcun conforto, e col pianto inconsolabile delle famiglie: una Patria che non si limiti ad essere quel vago «sentimento di appartenenza in cui ci riconosciamo» – come è stato recentemente affermato – ma sia patrimonio condiviso da tutti nel ruolo etico, prima che poetico, di terra degli avi e di «Madre benigna e pia».

(luglio 2015)

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