Arte e politica nella storia del Rinascimento Fiorentino
Valori estetici e rivalutazioni della condizione femminile nella celebre stagione di Piero della Francesca e di Domenico Veneziano: ombre e luci di un’epoca, nella rivisitazione artistica e letteraria di Chiara Montani

Il romanzo storico è un genere letterario vecchio di secoli che continua ad ascrivere nuovi successi nell’ambito di un’evoluzione conforme alle attualità in perenne divenire, ma nello stesso tempo, in aderenza all’assunto di continuità della storia, a sua volta costante. Questa scelta corrisponde all’assunto di Benedetto Croce e di altri pensatori moderni, per cui gli eventi del passato e le matrici da cui derivarono finiscono per essere interpretati con un occhio di riguardo prioritario verso il presente, pur salvaguardando l’esigenza di oggettività, già raccomandata da Tacito due millenni or sono. Nel romanzo, questa propensione resta ugualmente ineludibile, pur lasciando maggiore spazio alla fantasia nell’interpretazione dei maggiori personaggi e nella possibilità di creare «ex novo» qualche altra figura, protagonista o meno che sia.

La nuova opera di Chiara Montani (Il mistero della pittrice ribelle, Garzanti Editore, Milano 2021, 336 pagine), attenta e competente cultrice della materia, non fa eccezione alla regola. Ambientata nella coinvolgente temperie della prima Firenze medicea, illustra una storia che fa perno su due personaggi della grande realtà artistica di quell’epoca per qualche aspetto aurea, come Piero Della Francesca e Domenico di Bartolomeo detto il Veneziano; e sulla protagonista femminile del romanzo, costruita sulla figura di Lavinia, che diversamente dai primi due appartiene alla fantasia, ma essendo a sua volta presunta quale figlia d’arte con una spiccata vocazione per la pittura.

Considerazioni analoghe valgono per altri personaggi di maggiore o minore rilievo: espressioni reali del mondo politico, civile e religioso dell’epoca sono il celebre Cosimo dei Medici, il gonfaloniere Luca Pitti, il grande Arcivescovo di Firenze Sant’Antonino Pierozzi, e la stessa Suor Antonia Doni figlia di Paolo Uccello, rammentata quale «disegnatrice» anche da Giorgio Vasari. Accanto a loro si muovono altre figure di fantasia come Lorenzo Guidi, cui Lavinia era stata promessa in sposa sin da giovanissima secondo le usanze di allora, o come il padre della medesima, Filippo da Verona, anch’egli artista del pennello, condannato a morte orribile quasi vent’anni prima quale vittima incolpevole di una giustizia che, come spesso accadeva, e come talvolta capita nel mondo di oggi, era tale soltanto di nome (ma Lavinia, poi affidata allo zio Domenico, scopre tale ascendenza soltanto all’epoca descritta nel romanzo: la seconda metà del 1459).

Il volume non appartiene al solo genere storico, perché si tinge di giallo a causa di alcuni delitti, fra cui diversi eccellenti, a cominciare da quello compiuto ai danni del banchiere Peruzzi, tipica espressione del Rinascimento non solo fiorentino come costruttore di una fortuna personale riveniente anche da prestiti usurari, non a caso coraggiosamente condannati da Sant’Antonino. Lo stesso vale per qualche suicidio di altrettanto rilievo, e in particolare per quello di un altro protagonista «double face» dell’opera, all’occorrenza ragazzo di bottega, oppure incallito e temutissimo malvivente. Ne emerge un romanzo storico assai attento alla realtà effettuale dell’epoca, che appartiene alla fortunata categoria di quelli che si leggono di getto se non altro per le emozioni che suscita, in felice connubio con i riferimenti all’ambiente, alla realtà storica dei personaggi artistici, politici e religiosi, e con quelli ai contenuti umani, psicologici e anche tecnici dei quadri. Non a caso, secondo una pertinente esegesi dell’opera, si può concordare con l’affermazione secondo cui «Chiara non scrive: dipinge»!

Non vi mancano indovinate interpretazioni della realtà umana e civile della Firenze rinascimentale. Un esempio è costituito dal determinismo presente nell’affermazione di un protagonista secondo cui «nulla è senza una ragione mentre ben poco è dovuto al caso»: cosa tanto più vera in una società come quella del XV secolo, assai selettiva se non anche rigidamente classista, oltre che profondamente conservatrice e misogina, tanto da negare alle donne, con un giudizio sintetico a priori e quindi categorico, ogni possibile autonomia, sia pure limitata al campo artistico. Ecco una questione di evidente modernità e di permanente attualità su cui vale la pena di riflettere.

Del resto, l’Autrice, fedele ai canoni di oggettività di cui in premessa, ritorna sull’argomento anche nell’intervista proposta a chiusura del volume quando si sofferma sugli splendori del Rinascimento ma senza trascurare che la loro storia non manca di «intolleranza, ingiustizia, vendetta» da cui emergono «le forti contraddizioni politiche e sociali del tempo, i vizi, le brutture, la corruzione, i pregiudizi, l’avidità». Con tutto quel che segue, anche per gli artisti «costretti per sopravvivere a cercarsi una protezione presso committenti cinici e incostanti».

Chiara Montani non lo esprime apertamente, ma queste parole sembrano proporre una rivalutazione etica del Medio Evo che del resto è implicita nel riferimento d’apertura all’espressione del Corpus Hermeticum secondo cui l’impossibile non esiste, tanto da rendere immortale l’essenza dell’essere umano, quale contributo alla scienza, all’arte, e in ultima analisi, al pensiero. Si tratta di una reminiscenza antica: eppure, idonea a superare, per l’appunto, l’assunto formulato da Benedetto Croce sei secoli più tardi affermando che «la linea del possibile si sposta grandemente» grazie alla «forza inventrice della volontà che veramente vuole». Il confronto è di tutta evidenza: ora la relatività del progresso e dei suoi limiti, allora l’Assoluto di quella che Nicola Cusano avrebbe proclamato «infinitudine», anche del volere e del sapere, anticipando il «furore del saggio» cui Giordano Bruno, definendolo addirittura eroico, avrebbe improntato le conclusioni ultime della sua filosofia.

Almeno «ex prima facie» il ruolo dell’Amore appare marginale: non è certo tale quello della «promessa» di Lavinia a Lorenzo, che alla fine sono prigionieri di un tradizionale paralogismo dell’epoca, sia pure in ruoli opposti. Caso mai, vive nel momento magico in cui le labbra della protagonista si avvicinano sommessamente ma trepidamente a quelle di Piero, coinvolgendo il lettore nella commozione di un atto dal valore eterno. Soprattutto, è quello dell’Amore di Dio, come accade per la citata Suor Antonia, felice nella sua celestiale purezza e pronta a tradurlo in amore per il prossimo: nella fattispecie, tramite la salvezza offerta a una giovanissima figlia del popolo fortunosamente sottratta alla perdizione.

Conviene aggiungere che l’alto livello dell’opera, anche dal punto di vista editoriale, trova conferma, fra l’altro, nei risguardi con le vedute dell’antica Firenze tratti dalla Carta della Catena attribuita a Francesco Rosselli; e nella sovraccoperta col dettaglio della Flagellazione di Cristo di Piero Della Francesca, incastonato nel serpente a forma di cerchio. A quest’ultimo proposito, non è male rammentare che un’analoga figura di serpente che si morde la coda costituisce parte fondamentale di un emblema storico come quello della Reggenza Italiana del Carnaro di dannunziana memoria (1920), simbolo della vita che continua, e come tale, di perseveranza e di fede: motivo non ultimo del fascino espresso dalla Firenze medicea di cui al sottotitolo del volume, e di un «mistero» che aspira a rivelarsi compiutamente nella centralità del fattore umano, non solo del Rinascimento ma di ogni stagione attuale, e del suo «ethos» di base, quello della libertà intesa prioritariamente come categoria dello Spirito.

Al pari di ogni libro i cui protagonisti agiscono nell’unità spaziale di un luogo unico e relativamente ristretto, anche questo presume una conoscenza adeguata della Firenze d’epoca, non troppo dissimile da quella odierna, se non altro nel territorio della «cerchia antica». Quand’anche così fosse, si tratterebbe di una «felix culpa» facilmente esorcizzabile con una visita culturalmente orientata, oggi a più forte ragione consigliabile, in concomitanza col settimo centenario dalla scomparsa di Dante.

In buona sostanza, pur nell’obbedienza ai canoni aggiornati del romanzo storico, il contributo letterario di Chiara Montani induce alla riflessione, obiettivo fondamentale di ogni opera che non sia di mero intrattenimento. Le «magnifiche sorti e progressive» di leopardiana memoria emergono nella loro stringente forza negatrice di valori e diritti umani, ma in misura da indurre una matura consapevolezza critica circa le loro motivazioni, per non dire delle sovrastrutture che le impongono; ma nello stesso tempo ne scaturisce un’esortazione che vuol essere un invito all’impegno, a maggior ragione convinto e sereno, ad agire per eliderle. In tempi bui del cosiddetto secolo breve fu detto con felice sintesi, da parte di un altro Arcivescovo, che «le vie dell’iniquità non possono essere eterne». Verissimo: ma non c’è dubbio che potranno diventare più corte con l’apporto dell’auspicata volontà comune.

(dicembre 2021)

Tag: Laura Brussi, arte e politica nel Rinascimento Fiorentino, Chiara Montani, Benedetto Croce, Publio Cornelio Tacito, Piero della Francesca, Domenico di Bartolomeo detto il Veneziano, Cosimo dei Medici, Luca Pitti, Sant’Antonino Pierozzi Arcivescovo di Firenze, Suor Antonia Doni, Paolo Uccello, Giorgio Vasari, Filippo da Verona, Tommaso Peruzzi, Nicola Cusano, Giordano Bruno, Francesco Rosselli, Dante Alighieri, Rinascimento fiorentino, Corpus Hermeticum, Banca Peruzzi, Reggenza Italiana del Carnaro, Firenze antica.