Esodo italiano dall’Istria
Il linguaggio delle cifre storiche al servizio della verità

Lo scorrere del tempo non elide le dispute che continuano a manifestarsi, anche attraverso Internet, sui numeri dell’Esodo, e prima ancora, sulla consistenza della popolazione italiana dell’Istria. Infatti, anche a tre quarti di secolo dalla diaspora (e dalla tragedia delle foibe che ne fu concausa certamente decisiva) non mancano le esegesi di parte, secondo cui l’etnia italiana sarebbe stata minoritaria: per dimostrarlo, basta assumere a base del ragionamento il censimento asburgico del 1910. Stando al risultato di tale rilevazione, l’Istria contava 404.000 abitanti, tra cui il 41,5% di Croati, il 36,4% di Italiani, il 13,7% di Sloveni, e la quota a saldo, di altre nazionalità. A parte ogni riserva di tipo tecnico sulla prassi censuaria adottata, e prescindendo dal fatto che 10 anni prima la quota italiana era superiore di 4 punti, sarebbe giusto, o meglio doveroso, tenere conto del processo di snazionalizzazione compiuto dal Governo di Vienna nella seconda metà dell’Ottocento, a sfavore dell’elemento italiano e delle motivate attese irredentiste: ciò, anche attraverso rilevanti immigrazioni forzose di Slavi, proseguite sin quasi alla vigilia della Grande Guerra. Ecco un elemento imprescindibile in chiave di oggettività.

La storia demografica della regione è chiara: per almeno mezzo millennio, il numero degli abitanti era stato sostanzialmente stazionario, come emerge dalle fondamentali ricerche di Olinto Mileta Mattiuz, oscillando dalle 100.000 unità del 1300 alle 120.000 del 1800, senza dire che in occasione delle ripetute pestilenze si erano riempiti non pochi vuoti attraverso il ricorso all’etnia slava, in specie di contadini. Sta di fatto che una crescita importante della popolazione stanziale si ebbe soltanto grazie ai nuovi arrivi durante il Regno di Francesco Giuseppe, allo scopo di coartare le attese italiane: al riguardo, un ruolo importante fu esercitato anche dagli investimenti militari, tra cui quelli per la realizzazione dell’Arsenale di Pola, che indusse il naturale potenziamento della flotta, matrice non ultima della «gloriuzza» austriaca di Lissa (1866).

In tale ottica, muovere dai censimenti asburgici d’inizio Novecento, e in particolare da quello del 1910, è certamente deviante, in specie laddove non si faccia riferimento ai precedenti storici. Il seguito è noto: dopo la Vittoria del 1918 e il trasferimento della sovranità sull’Istria e sulla Venezia Giulia a favore dell’Italia, il Governo di Roma si fece promotore di una politica di riequilibrio, in stretta connessione con quella di grandi investimenti infrastrutturali e produttivi, sia in campo industriale che agricolo: non a caso, secondo il censimento «segreto» del 1936 la componente italiana era salita al 62,1% del totale, per effetto prioritario dei trasferimenti di famiglie provenienti da altre regioni (senza trascurare il naturale incremento demografico e l’emigrazione di «rientro» dei Tedeschi e degli Ungheresi – ancor prima di alcune minoranze slave – che allo scoppio della Grande Guerra costituivano il 7% degli abitanti).

Col Secondo Conflitto Mondiale si ebbe un’autentica svolta storica, destinata a cambiare radicalmente il quadro etnico della regione: la stragrande maggioranza della popolazione italiana prese la via dell’esilio, da un lato per elementari esigenze di salvezza fisica, e dall’altro per il rifiuto dell’ateismo di Stato e del collettivismo forzoso che si volevano imporre a tutti.

Anche in questo caso, i numeri sono probanti: oltre ogni speciosa discussione sul numero dei profughi esodati a più riprese fra il 1944 e il 1954 per un totale di circa 350.000 partenze[1], sta di fatto che nell’ultimo censimento croato, quello del 2011, la componente italiana dell’Istria si è ridotta a poco più di 12.500 abitanti, cui vanno aggiunte le poche migliaia di quella residuale in Slovenia[2]. È la prova del nove, se per caso ve ne fosse stato bisogno, circa la risposta dell’Esodo alle violenze partigiane e, nello stesso tempo, alla memorabile ingiustizia compiutasi col trattato di pace del 1947 ai danni di un intero popolo.

Come attesta la rilevazione del 2011, le presenze italiane sono rimaste poco più che simboliche, superando 1.000 unità nei soli casi di sei aggregati urbani. Nell’ordine, si tratta di quelli di Pola (2.490), Fiume (2.445), Umago (1.962), Rovigno (1.608), Buie (1.261) e Dignano (1.071): in pratica, l’Istria è diventata un mare slavo, in cui gli Italiani superstiti assumono il carattere dei «rari nantes in gurgite vasto» di cui alla celebre immagine del poeta latino. È pleonastico aggiungere che, sia nel caso specifico della Croazia, sia in quello della contigua Slovenia, si tratta di cittadini croati e sloveni di espressione italiana, dichiarata come tale in sede di censimento.

Le conclusioni sono facili a trarsi, sul piano di un giudizio storico oggettivo, anche a prescindere da quello riveniente dalle tradizioni artistiche e dal linguaggio delle pietre che «parlano italiano» (se non anche latino, come nel caso dell’Arena di Pola o dell’Arco Romano di Fiume). La quota «occidentale» della popolazione residente è stata sempre maggioritaria, in specie negli aggregati urbani costieri, con la sola importante eccezione dell’ultimo periodo asburgico, programmata consapevolmente da Vienna; e con la tragica fine della Seconda Guerra Mondiale, imposta al popolo istriano, come a quello dalmata, secondo la logica ferina di dantesca memoria, del «vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole». Nella loro semplicità, le cifre hanno una valenza icastica: tenuto conto della popolazione residente alla fine degli anni Trenta, è facile porre in luce che l’Esodo da Pola coinvolse oltre nove decimi degli abitanti, e quello da Fiume, quasi altrettanto. Detratti i malati impossibilitati a muoversi, e gli amici del giaguaro, fu un plebiscito.

A tre quarti di secolo dal trattato di pace e dal grande Esodo, i tempi sono maturi perché si faccia luogo, se non altro, a giudizi scevri da ogni resipiscenza appartenente alla bassa politica, idonei a riconoscere senza riserve dubitative o avversative la scelta di civiltà umana e cristiana compiuta da un intero popolo nella composta dignità di chi ha saputo confrontarsi virilmente con l’avversa fortuna, dando al mondo intero un’esemplare lezione di civiltà: ma nello stesso tempo, senza dimenticare l’ingiustizia subita, e il celebre avvertimento dell’eroico Vescovo di Trieste e Capodistria, Monsignor Antonio Santin, secondo cui «le vie dell’iniquità non possono essere eterne».

In caso contrario, anche le iniziative del Ricordo, sempre frequenti in concomitanza col 10 febbraio, finirebbero per assumere una valenza ripetitiva di carattere formale, ma priva di ogni intento realmente costruttivo: nella sostanza, come aveva temuto un patriota adamantino come il Professor Italo Gabrielli, una vera e propria «pietra tombale»[3] sulle attese degli Italiani migliori, e prima ancora, dei Giuliani, Istriani e Dalmati, oggetto di perenni ingiustizie etiche, politiche, giuridiche e persino statistiche.

Intanto, i grandi numeri restano scolpiti a caratteri di fuoco nelle tavole della storia e testimoniano, a futura memoria, che nelle regioni del confine orientale si è compiuto un delitto contro l’umanità, per sua natura imprescrittibile sia sul piano giuridico sia su quello etico.


Note

1 Esistono discrasie considerevoli persino sul numero effettivo degli Esuli, di non facile calcolo anche per il periodo molto lungo – almeno decennale – in cui ebbero luogo le partenze, talvolta volutamente osteggiate da parte slava. La differenza più importante muove dal fatto che i profughi ufficiali, censiti dall’Opera per l’Assistenza costituita «ad hoc», superarono di poco le 200.000 unità. Al riguardo bisogna considerare, peraltro, che moltissimi, organizzandosi in proprio, sfuggirono a quella rilevazione, senza dire di quanti, destinati all’estero (circa un quarto del totale), si avvalsero dell’assistenza di altri Soggetti, tra cui l’Opera Pontificia.

2 Il fatto che nella ex Jugoslavia permanga una minoranza «italiana» che complessivamente si colloca non oltre le 20.000 unità, pur comprendendovi le famiglie miste, testimonia che gli interventi per la tutela di tale minoranza, talvolta ragguardevoli, hanno conseguito effetti marginali. Del resto, la sua propensione alla crescita in termini demografici è inferiore a quella delle altre etnie ex jugoslave.

3 Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, seconda edizione, Luglio Editore, Trieste 2018, 168 pagine. A giudizio dell’Autore, il «De profundis» ha coinvolto, nonostante l’impegno pluridecennale, tutte le motivate attese del modo esule, dall’immediato dopoguerra in poi, sia sul piano etico-politico (questioni dei confini, riconoscimento dei torti subiti, tutela delle tombe e dei monumenti italiani in Croazia e Slovenia, giustizia anagrafica, libri di testo nelle scuole, toponomastica) sia su quello economico (restituzione dei beni o indennizzo equipollente). La lunga serie dei «diritti negati» coinvolge, nella triste valutazione del compianto Professor Gabrielli, precise responsabilità italiane, ma per taluni aspetti, anche quelle dell’Unione Europea: a più forte ragione, lo stesso «genocidio programmato» diventa un motivo importante di storia e di valutazioni etiche, ma non altrettanto di giustizia.

(marzo 2022)

Tag: Carlo Cesare Montani, esodo italiano dall’Istria, Olinto Mileta Mattiuz, Francesco Giuseppe d’Asburgo, Dante, Antonio Santin, Italo Gabrielli, Vienna, Lissa, Roma, Venezia Giulia, Istria, Pola, Fiume, Umago, Rovigno, Buie, Dignano, Slovenia, Croazia, Trieste, Capodistria, Unione Europea, censimenti in Venezia Giulia Istria e Dalmazia, Grande Guerra, Opera per l’Assistenza ai Profughi giuliani e dalmati, Pontificia Opera di Assistenza.