L’idea d’Europa tra Ottocento e Novecento
Carlo Curcio, Europa: storia di un’Idea, Bulzoni Editore, Roma 2017, 190 pagine

In vista del 50° anniversario dalla scomparsa di Carlo Curcio, Maestro di storia e di vita (Napoli 1898-Roma 1971) è congruo che la sua maggiore opera (Europa: storia di un’Idea, Vallecchi Editore, Firenze 1958, due volumi) sia stata proposta a rinnovate anche se tardive attenzioni dopo 60 anni dalla prima uscita, sia pure limitatamente agli ultimi tre capitoli e senza il corredo delle note e dell’indice dei nomi, in un’edizione che quanto meno ha il pregio di ricordare al momento scientifico e all’uomo della strada la centralità di una questione assai complessa e destinata a perpetuarsi senza soluzioni di continuità, come quella europea. Allo stato delle cose la crisi del Vecchio Continente, come opportunamente ricordato nella prefazione di Maurizio Ortolani e nell’introduzione di Carlo Mongardini, ha tutta l’aria di essere quasi irreversibile, se non altro per quanto concerne la validità dei valori fondanti e la progressiva circoscrizione dell’attività istituzionale a temi grettamente economici: ecco un primo, ottimo motivo per un’adeguata riscoperta del pensiero di Carlo Curcio e della sua salda formulazione di una «Grundnorm» etica e politica improntata a sano, convinto idealismo.

Sin dall’epoca risorgimentale, in cui si era già vagheggiata la costituzione dei cosiddetti Stati Uniti d’Europa sulla falsariga dell’analoga esperienza nord-americana, l’auspicio di un Soggetto giuridico dotato di propria sovranità a livello continentale, con affievolimento di quella appartenente agli Stati Nazionali, era stato ricorrente ma privo di adeguati riferimenti ideali, come se un nuovo aggregato federale potesse fondarsi sulla giustapposizione dei pur ragguardevoli interessi collettivi. Questo paralogismo è durato sino ai nostri giorni, rendendo deontologico – anche a posteriori – il forte impegno di Curcio nella ricerca di matrici comuni fondate sulla filosofia e sui principi del diritto naturale, in grado di elidere o per lo meno di circoscrivere le discrasie, anzi tutto religiose, rivenienti da una storia lunga e complessa. Se non altro per questo, le riflessioni dell’Autore meritano di essere assunte a supporto di un’aggiornata valutazione della realtà europea e delle sue prospettive a venire.

Nonostante lo scorrere del tempo, Curcio si legge con un alto grado d’interesse che promuove riflessioni non effimere: è quanto suggerisce Maurizio Ortolani non senza qualche esempio illuminante come quello concernente i confini europei, per cui non appare assurda l’ipotesi di una revisione idonea a «renderli più rispondenti alla effettiva situazione dei popoli» e a «costituire l’inevitabile passaggio per raggiungere un’Europa dall’avvenire più stabile» anche moralmente, in conformità all’appello del Maestro, e in guisa che «non corra il rischio di crollare immediatamente per convulsioni interne, e non sia soltanto un mero pezzo di carta senza alcun aggancio con la realtà». Sono spunti coinvolgenti anche nell’ottica italiana, con riguardo prioritario – per esempio – alle questioni del confine orientale: a dirne solo una, per quanto attiene alle conseguenze del trattato di Osimo e alla modifica apportata con il trasferimento alla Jugoslavia della zona nord-occidentale dell’Istria (la cosiddetta Zona «B» del Territorio Libero di Trieste) a pochi mesi dalla firma di un altro trattato come quello di Helsinki che sanciva l’intangibilità delle frontiere, dimostrando il carattere velleitario dell’atto in parola, quasi in tempo reale; e mettendo in luce – aggiungiamo noi – quanto sia fondato l’assunto di possibili revisioni nell’ottica di una razionale equità.

Curcio è pensatore attento e profondo nel dimostrare, sia pure con le ovvie variazioni storiche sul tema, la continuità dell’idea d’Europa, anche negli ultimi due secoli, quando ha dovuto confrontarsi con momenti indubbiamente difficili: in un primo tempo, con la proliferazione del principio di nazionalità, e quindi di sovranità istituzionali che non potevano ammettere affievolimenti di sorta; poi con le due guerre mondiali a distanza di un solo ventennio l’una dall’altra e con rinnovate espressioni della politica di potenza, difficilmente conciliabile con la collaborazione implicita nel verbo europeista; e infine con i successi iniziali dell’integrazione ma con la loro successiva ibernazione nelle strutture burocratiche governate dal fattore economico. Comunque, si tratta di una continuità percepibile anche nello scorcio iniziale del nuovo millennio, pur nelle difficoltà e nelle nuove strozzature: l’Europa, aveva affermato il Curcio, è diventata «più difficile» ma questo è il prezzo che deve pagare al «suo ufficio storico e morale» e al suo ruolo insostituibile di contemperare interessi conflittuali, se non altro per evitare guai peggiori.

Il Maestro ammette con vivida coerenza il fondamento idealistico e quindi etico della sua concezione politica, e prima ancora, della vita umana, cui si adegua l’idea d’Europa, appartenente da secoli all’inconscio collettivo, ancor prima che al pensiero. Non a caso, il «principio primo» è da ravvisare «nell’importanza dello spirito e della tradizione» anche nelle genesi dei singoli Stati, partecipi di un comune denominatore civile capace di trascendere i naturali contrasti, sensibili alle mutevoli esigenze di trasformazione della società, e testimoni di uno sviluppo umano lungi dalle astrazioni ma propenso a promuovere una sorta di «conservazione innovatrice» contraddistinta da un’impegnativa convergenza di fattori tradizionali e di esigenze rivoluzionarie, arra di un autentico progresso morale e sociale. Vale la pena di aggiungere ciò che Curcio, alla luce di tali riflessioni, aveva ravvisato nel movimento fascista e nelle sue scelte di collaborazione interclassista, non meno che in quelle di tutela dei valori complementari di fedeltà allo Stato e di progresso nel segno dell’onore, ma nel contempo, della «Grande Proletaria» di Giovanni Pascoli: di qui, le iniziali speranze, destinate alla drammatica delusione per un sistema destinato ad arroccarsi nella tentazione e nella prassi del regime, e alla fine, per un disastro che il Maestro avrebbe dovuto patire in proprio a causa della lunga epurazione, ma fino al totale proscioglimento da ogni accusa dopo alcuni anni di sofferenze, e al reintegro negli incarichi universitari.

Nell’anno accademico 1955-1956, quando Curcio era professore ordinario di Storia delle dottrine politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze (oltre che di Storia e legislazione coloniale) il suo corso monografico fu dedicato proprio alla storia dell’idea d’Europa: non a caso, il Maestro stava ultimando la grande opera cui andava lavorando da una vita e che sarebbe uscita due anni dopo, in due tomi. Ne parlava con ovvia frequenza e amava ripetere – non senza ricorrere a un’iperbole davvero impertinente – che non era immune da «lacune immense», manifestando quella grande umiltà cristiana che è propria dei grandi spiriti e facendo comprendere agli interlocutori quanto fosse vera e sempre attuale la teoria di Giordano Bruno circa l’esistenza di un autentico «furore del saggio» che quanto più sa, «tanto più vorrebbe sapere». In qualche misura, quel corso monografico ebbe il merito, tutt’altro che secondario, di appassionare una generazione di allievi ai valori dell’Europa, a più forte ragione avvertiti in un’epoca che vide il non facile avvento delle prime Organizzazioni comunitarie, e di giustificate speranze, all’insegna di un ottimismo destinato a triste catarsi.

Curcio era un’autentica miniera di cultura e di documentazione, la cui prova tangibile è rimasta nei suoi libri, senza escludere la nuova edizione parziale dell’Idea d’Europa che si auspica possa vedere nuovamente la luce nella sua stesura originale, completa degli indici e delle note, pur dovendosi considerare sempre meritoria la scelta riduttiva di dare alle stampe questa silloge, che se non altro è sufficiente ad attestare, con un autentico profluvio di nomi e di citazioni, quanto sia stato fecondo di meditazioni, di contraddizioni, e quindi, di sviluppo umano e civile, il cammino dell’Europa: non già nell’ottica di una malintesa superiorità filosofica e politica ma in quella del contributo all’evoluzione umana e civile del mondo, sebbene non disgiunto da una competizione talvolta perniciosa.

Appare materialmente impossibile, in questa sede, obbedire all’intento di citare tutti quei nomi, grandi o meno, cui corrispondono altrettante riflessioni che contribuiscono a consolidare, se non altro, il carattere decisivo della questione europea nella storia e nell’attualità. In effetti, Curcio non si limita a indagare nel campo del pensiero politico, peraltro sostanzialmente sterminato: al contrario, spazia anche in quello della letteratura, con riferimenti importanti come quello a Dostojevskij, secondo cui sarebbe venuto presto il giorno «in cui la Russia sarà il solo colosso del continente» e quindi, in grado di determinarne l’avvenire, o come quello a un personaggio quale Arthur Rimbaud, nella cui visione quasi metafisica l’Oriente «era la saggezza prima ed eterna» mentre l’Occidente, e in primo luogo l’Europa, offriva soltanto «il senso della colpa».

Nell’opera di Curcio non c’è soltanto l’Europa, ma si trova tutto il mondo: non è un paradosso, se non altro per l’ovvia necessità di promuovere raffronti e valutazioni, in un quadro di permanente oggettività conforme a corretta metodologia storiografica tanto più commendevole in un quadro assai differenziato, non potendosi negare, almeno per grandi linee, che in Asia sia più diffusa una componente spiritualistica rispetto a quella pragmaticamente concreta dell’Europa; o che l’Africa sia condizionata da un grado di sviluppo certamente inferiore.

Va da sé che, oltre al mondo, c’è anche l’Italia, consapevole del suo ruolo europeo, e in qualche caso, anche in quello di civilizzazione a più ampio spettro, o meglio, del «dare quel che noi s’aveva e gli altri non avevano, e cioè cultura, nuovi sistemi di vita sociale e civile, modi urbani di convivenza». Sorge spontaneo, al riguardo, il ricordo di grandi spiriti come il Cardinale Guglielmo Massaja, Vicario Apostolico per l’Etiopia, cui avrebbe dedicato buona parte di una lunga vita missionaria; come il Ministro degli Esteri dell’Italia liberale Pasquale Stanislao Mancini, di conclamata vocazione umanitaria anche nella politica coloniale; come il barone Leopoldo Franchetti, parlamentare del Regno ma prima ancora, autore di uno straordinario e per molti aspetti unico tentativo di colonizzazione agraria in Africa (nonché nobilmente suicida di fronte al disastro di Caporetto: ma questa è un’altra storia).

Non basta: all’elenco dei pensatori italiani che si erano espressi in senso etico, Curcio aggiunge quello di Massimo d’Azeglio, secondo cui «non si poteva ammettere che esistessero razze superiori e inferiori» né tanto meno, una graduatoria di continenti. Nella stessa linea, Cesare Balbo, dopo aver puntualizzato realtà e valori della «civiltà mediterranea» di origine italica, aveva già anticipato di preferire la «barbarie generosa» a tutte le interpretazioni che «sacrificavano» lo spirito e la fede, esprimendo un giudizio affine a quello dei pensatori «democratici» che, in antitesi alle suggestioni colonialiste, esaltavano il duraturo mito del «buon selvaggio».

Dal canto suo, Terenzio Mamiani, in dissenso da quanti auspicavano un’Europa munita di «tribunali supernazionali» governati dalle consuete procedure ritualistiche, confidava in un libero consesso di Stati e di popoli nel segno di una «scambievole amicizia». Queste visioni dello spiritualismo italiano erano distanti anni-luce, per fare qualche esempio probante, da parecchie concezioni altrui, come quella sciovinista e discriminante di Ernesto Renan, per non dire di Friedrich Nietzsche, pervicacemente fedele al superomismo trasferito «sic et simpliciter» nell’ambito collettivo. Erano modi diversi di pensare, di credere e di agire, ma pur sempre volitivi: il confronto con le attese del mondo contemporaneo non ha bisogno di commenti.

In realtà, l’Europa non fu mai unitaria nemmeno a livello speculativo, fatta eccezione per le menti di alcuni precursori. Al contrario, i motivi di divisione al suo interno, e nelle interpretazioni che li sorreggevano, ebbero carattere endemico, sviluppandosi in maniera più sistematica a decorrere proprio dall’Ottocento, quando il principio di nazionalità indusse evoluzioni discriminanti a favore degli Stati ritenuti «superiori» e diede luogo a fratture destinate alla sedimentazione anche a lungo termine: dapprima con la separazione del mondo slavo, e poi con quella della cosiddetta Mitteleuropa. Il resto sarebbe avvenuto per logica conseguenza.

Il volume, come si diceva in premessa, è costituito da tre capitoli. Nel primo, definito «epoca delle contraddizioni», si fa riferimento soprattutto all’Ottocento, non senza richiami al passato e anticipazioni del futuro, ravvisandovi le matrici originarie di una crisi che è pervenuta fino ai nostri giorni in misura progressivamente accelerata. Il secondo, dal pertinente titolo di «fuoco sotto le ceneri», analizza l’idea d’Europa nel periodo intercorso fra le due guerre mondiali, mentre l’ultimo, con riguardo alla «difficile ascesa», che a tratti appare pressoché impossibile, concerne le ultime espressioni cronologiche di detta idea (ma dovendosi tenere ben presente che l’opera di Curcio vide la luce verso la fine degli anni Cinquanta, quando la crisi era ben lungi dall’essere pervenuta all’attuale grado di maturazione).

Paradossalmente, l’ipotesi degli Stati Uniti d’Europa ebbe un effimero «revival» proprio in concomitanza con le grandi guerre, o nell’immediato seguito. Giorgio Sorel aveva già interpretato tale disegno alla stregua di una pura follia, polemizzando con i «pacifisti imbecilli» tanto da poter definire il conflitto militare scoppiato nel 1914 quale unico e surreale motivo di unione, ma il Presidente Americano Wilson aveva avvertito – sin dal discorso inaugurale di due anni dopo – che la nuova Europa avrebbe potuto e dovuto somigliare agli Stati Uniti e alla loro struttura costituzionale. Ciò spiega meglio, tra l’altro, il suo successivo atteggiamento in sede di conferenza della pace e le sue pregiudiziali negative nei confronti delle attese italiane suffragate dal Patto di Londra che il Governo di Antonio Salandra aveva sottoscritto con Francia e Gran Bretagna.

In ogni caso, le due guerre «europee» che erano diventate mondiali in corso d’opera avrebbero indotto il tramonto, o per lo meno, un forte oscuramento dell’Europa ideale: Paul Valéry si era già chiesto a che cosa fossero «valsi quei sacrifici immani» e soprattutto, se questa non fosse ormai diventata una «piccola appendice altrui», con un destino tanto più amaro perché il suo cittadino tipico era un uomo che, più e meglio degli altri, esprimeva il «desiderio di apprendere, di indagare, di esprimere le proprie idee». In altri termini, di «prendere parte alla storia» che proprio per questo assume un significato universale, in grado di trascendere latitudini e longitudini.

Sta di fatto che quella indotta soprattutto dalla Grande Guerra e dal suo trauma icastico, tanto più che faceva seguito a diversi decenni di convivenza sia pure competitiva, fu crisi autentica destinata a perpetuarsi nel medio e lungo termine, tanto che quella del Secondo Conflitto Mondiale può esserne definita un tragico corollario.

Questa crisi andava a tradursi in considerazioni comparative contraddittorie. Infatti, da un lato si ravvisava un valore primario nel progresso tecnico e scientifico americano, assai più veloce rispetto a quello altrui perché maggiormente orientato al pragmatismo e avulso da anacronistiche resipiscenze moraleggianti, mentre dall’altro lato si guardava all’Oriente come culla intemerata di saggezza e di serena contemplazione di una realtà in cui le «chances» di intervento umano e di modificazione delle «magnifiche sorti e progressive» di leopardiana memoria erano comunque circoscritte. Nella migliore delle ipotesi, l’idea dell’Europa ne usciva in modo frammentario, se non anche stravolto nei valori costitutivi di base, rispetto a quanto era accaduto in passato: il fatto che nel Vecchio Continente si fossero affermate ideologie radicali come il comunismo, il nazionalsocialismo e il fascismo mette a fuoco talune cause di quella crisi, anche nell’ottica di primo approccio, pur potendosi sostenere che all’origine di quei movimenti avesse contribuito anche il rifiuto delle istanze moderate, nel primo caso, o degli auspici sovranazionali, negli altri due.

C’è di più: Oswald Spengler aveva avvertito l’Occidente, e quindi l’Europa, circa una «minaccia delle orde d’altro colore» tale da sovvertirne l’ordine costituito e da vanificare ogni ipotesi di una difesa comune. Si trattava di un’intuizione profetica, non estranea al sogno messianico di un altro storico come Lionel Curtis che nel 1935 avrebbe auspicato la costituzione di una «repubblica mondiale» nel segno delle «religioni e degli ideali umani» anticipando di qualche decennio gli analoghi auspici di Padre Ernesto Balducci, destinati a naufragare nel panorama di una competizione internazionale sempre più vivace, e non soltanto sul piano economico. Più realisticamente, in quegli stessi anni Benedetto Croce aveva parlato di «religione della libertà» come tratto comune dei popoli europei «creatori e promotori» di vivere civile, e più tardi, appena conclusa la Seconda Guerra Mondiale, avrebbe sostenuto che prima di tutto bisognava «riaccendere e alimentare il sentimento cristiano».

Dal canto suo, l’insigne storico Friedrich Meinecke, di fronte alla tragedia tedesca (ma non solo) avrebbe dovuto ammettere che il sistema europeo era stato travolto dalla guerra, e che l’opera «faticosamente costruita dagli uomini dell’Ottocento era andata in rovina» evidenziando la necessità di «ricercare i sentieri che ci avrebbero riportato al tempo di Goethe». Lo stesso Croce, commentando nel 1947 l’ipotesi di una federazione europea formulata da Winston Churchill, la ritenne assai lontana, pur essendo idonea a «essere tentata» comunque. In realtà, come rileva il Curcio, in Europa «non si aveva più fede» mentre il problema di fondo sarebbe stato quello di «ricostruire eticamente e spiritualmente» e di «rieducare alla giustizia» e a quelli che oggi si chiamano valori non negoziabili.

Sono passati parecchi decenni e l’Europa è andata evolvendo verso forme istituzionali che hanno eliso le sovranità nazionali, a cominciare da quella in campo monetario, ma non sono stati compiuti progressi reali nell’ambito di una vera intesa politica e solidale, e nemmeno in quello della cooperazione. L’attesa di recuperare un’idea di civiltà intesa come «partecipazione attiva degli uomini» al progresso comune perdura tuttora, e con essa, quella di un’Europa che, pur nelle sue diversità, sappia ispirarsi a principi generalmente condivisi dai suoi popoli, evidenziando, nonostante tutto, la sua coriacea vitalità non disgiunta da un buon apporto volitivo di base, sebbene condizionata dalla politica, e prima ancora dalla burocrazia.

L’Europa è in crisi endemica, come affermava Carlo Curcio sin dallo scorcio degli anni Cinquanta, non già per le conseguenze di un confronto sempre più duro con il pragmatismo nord-americano e lo spiritualismo dell’Oriente, quanto per la sua incapacità di trovare in se stessa e nelle sue permanenti espressioni nazionali un rinnovato, autentico slancio etico, o se si vuole, una sorta di principio primo fideistico ma nello stesso tempo socialmente impegnato, in grado di restituirle le certezze obsolete. Nondimeno, non tutto è perduto: «Il destino della vita e del mondo sta proprio in questo riprendere i discorsi che parevano conclusi». Anzi, potrebbe accadere, come si diceva in premessa circa i confini, che le nuove proposte abbiano «costrutto più saldo» e trame meno effimere: dipende dalla volontà comune.

Soltanto qualora si giungesse a definire l’Europa in maniera «unica e standardizzata», afferma il Maestro a conclusione del suo impegno etico e storiografico, «allora sì che sarebbe morta», o nella migliore delle ipotesi, altro non avvertirebbe, se non lo scopo contingente di «sopravvivere». Allo stato attuale delle cose, non resta che fare gli scongiuri.

(novembre 2020)

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