Dalla Resistenza al terrorismo
Dalla lotta contro il nazifascismo alla lotta contro lo Stato: il mito e le ragioni della difficoltà per una ricostruzione storica dei fatti

Non possiamo però esimerci dall’aprire una finestra su una certa parte della Sinistra italiana, ed in modo particolare su quell’area «dura» che dal 25 aprile 1945 (ma forse sarebbe meglio far risalire il tutto alla cosiddetta «Svolta di Salerno») non ha mai smesso di sognare la rivoluzione. Un grigio alone di mistero e di «indicibilità» avvolge ancora certi aspetti degli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale ed in particolare gli avvenimenti che riguardano l’evoluzione di quella che fu la Resistenza una volta finita la guerra. Basti pensare alle violente polemiche che il volume scritto da Pansa (Il sangue dei vinti) ha provocato. Questo ha probabilmente due ordini di ragioni: il primo concerne il fatto che la Resistenza, in quanto elemento decisivo e fondante della Repubblica, ha assunto e continua ad avere – per certi aspetti giustamente – un alone di mito.

Il partigiano che combatte per la libertà dal nazifascismo fa parte della storia, del costume e del sentire comune della maggior parte degli Italiani. Il mito del partigiano è dunque un elemento fondamentale dell’Italia post-fascista anche perché aiuta – se così si può dire – a «ripulire» gli Italiani dalla macchia costituita dal diffuso sostegno al regime di Mussolini e – perché no – da quel brusco cambio di alleanze (che per taluni fu un vero tradimento o, come la chiama Elena Aga Rossi, una «morte della Patria») che fu l’8 settembre. Il secondo aspetto che non consente una tranquilla trattazione dell’argomento «Resistenza dopo la fine della Resistenza» è invece decisamente meno nobile, e riguarda direttamente la storia del Partito Comunista Italiano, un partito che – è bene ricordarlo – ebbe poi un ruolo fondamentale nella sconfitta del terrorismo nostrano, ma che dall’immediato dopoguerra ha mantenuto un reale dualismo al proprio interno: un lato ufficiale fieramente democratico, l’altro nascosto e con delle mai dome velleità insurrezionali. Detto per inciso, per cinquanta anni hanno convissuto all’interno del Partito Comunista Italiano due anime frontalmente contrapposte, e se è vero che l’ala dura che faceva riferimento a Pietro Secchia venne messa in minoranza, è anche vero che soldi provenienti da Mosca sono continuati ad arrivare in Via delle Botteghe Oscure fino a tempi relativamente recenti (vedere pubblicazioni di Victor Zaslavsky), e che una parte del Partito Comunista Italiano ha continuato ad avere con il blocco sovietico un atteggiamento di «vicinanza» nonostante i vari allontanamenti e strappi che via via il partito ufficialmente faceva dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Non possiamo, in qualità di ricercatori, esimerci dal sottolineare come almeno duemila uomini dalla fine della guerra sono passati dai campi di addestramento in Cecoslovacchia, e di questi una buona parte era costituita da ex-partigiani che si erano macchiati di crimini nel dopoguerra e che per sfuggire alla giustizia italiana erano stati fatti scappare in quel Paese con l’aiuto del Partito Comunista Italiano. Non possiamo non notare come già nel ’52 il Sifar avesse scoperto che questi uomini frequentavano corsi di addestramento al sabotaggio, psicologia individuale e di massa, preparazione di scioperi e disordini di piazza, uso delle armi; come trasmissioni in lingua italiana provenissero da Praga (Radio Italia Oggi) con il preciso scopo di fornire una controinformazione comunista e che gli stessi uomini che gestivano le trasmissioni avevano teorizzato una insurrezione rivoluzionaria per il 1951 (abortita per una fuga di notizie che allarmò, e non poco, i nostri servizi segreti); come l’addestramento di giovani comunisti italiani sia proseguito fino a tutti gli anni ’70, quindi ben dopo il seppur pesante strappo operato dal Partito Comunista Italiano dopo la fine della «Primavera di Praga». La domanda che ci si deve porre riguarda poi per esempio i rapporti che le Brigate Rosse possono aver avuto con l’area dei Secchiani e con l’Stb (servizio segreto cecoslovacco) nei loro quindici anni di storia, se quel passaggio simbolico di armi dalle mani dei vecchi partigiani alle nascenti Brigate Rosse di cui parla Franceschini non nasconda in realtà anche un passaggio di contatti ed aiuti con i Paesi di oltrecortina e con la Cecoslovacchia in primis, se con la morte di «Osvaldo» Feltrinelli nelle Brigate Rosse siano confluiti solo i membri dei suoi GAP o anche tutta la rete di contatti internazionali che l’editore-guerrigliero aveva.

La storia, così mi è stato insegnato, la si scrive leggendo gli avvenimenti a trecentosessanta gradi, senza paraocchi politici o ideologici, così se è corretto considerare l’influenza che gli USA, la CIA, certi ambienti filo-atlantici e l’area neo-fascista hanno avuto nella storia repubblicana, è anche corretto considerare la fazione che ad essi era contrapposta, comprese le eventuali «macchie»; non per infangare ma per studiare a fondo, per capire.

(anno 2000)

Tag: Roberto Bartali, Resistenza, terrorismo, storia, Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Partito Comunista Italiano, partigiani, Brigate Rosse.