Rose bianche a Fiume
La narrativa sull’esodo dall’Istria: un libro di Stefano Zecchi, Collezione Omnibus, Mondadori, Milano 2014, pagine 248

Il romanzo storico è un genere letterario che sta vivendo una nuova stagione di successi, a cui non è estranea l’aderenza alle vicende di riferimento, in specie se arricchita dall’approfondimento dei personaggi in chiave psicologica ed umana. A questa suggestiva fioritura, un contributo molto importante è stato apportato dalle opere di Stefano Zecchi, con particolare riguardo a quelle che l’illustre filosofo e saggista ha dedicato alle vicende del confine orientale: Quando ci batteva forte il cuore (ispirata all’esodo da Pola), e poi Rose bianche a Fiume (ambientata in larga misura nella città istriana). Ciò, nell’ambito di un vivo interesse per la storia giuliana ed i suoi protagonisti già evidenziato nelle precedenti attenzioni di Zecchi per la storia di Maria Pasquinelli, sia in sede storiografica che giornalistica.

Giova porre in evidenza che queste opere hanno avuto un significativo successo editoriale, come attestano bene le varie ristampe e le ulteriori pubblicazioni in veste economica.

Si deve essere grati al Professor Zecchi per tale nobile vocazione, che intende rendere giustizia al popolo dell’esodo, ma nello stesso tempo riesce ad informare il lettore in maniera certamente più ampia e diffusa, rispetto alla memorialistica ed alla stessa storiografia ufficiale. In effetti, quest’ultimo romanzo «storico» si legge di getto, perché coinvolge dalla prima all’ultima pagina sia sul piano dell’informazione che su quello dell’emozione, ma non manca, ad esempio, di promuovere pensieri non effimeri sulle matrici ultime dei comportamenti collettivi e di grandi tragedie come le foibe e l’Olocausto.

Le «rose bianche» di Fiume sono quelle che un anonimo fiorista riusciva a vendere nel centro cittadino durante il primo dopoguerra, e che Gabriele, protagonista del romanzo, aveva acquistato durante la giovinezza, per tornare a farlo dopo alcuni decenni, quando sarebbe tornato quasi casualmente dopo una lunga anabasi, ed un sofferto percorso di abbandono dell’illusione comunista, di sofferenze inimmaginabili nell’inferno dell’Isola Calva (uno dei principali campi di concentramento jugoslavi), di doloroso e precario esilio, ed infine, di affermazione professionale in Italia. Per molti aspetti, si tratta di una storia emblematica: quella di una famiglia importante, travolta dalle vicende belliche e dalla conquista jugoslava di Fiume, fino alla tragedia: infatti, il padre di Gabriele sarebbe stato ucciso dai nuovi padroni, la madre morta di crepacuore, e la sorella appena tollerata come contabile nell’azienda paterna, ormai statalizzata.

Non mancano riferimenti ad uomini e cose che hanno fatto parte reale di quel grande dramma epocale: non a caso, Zecchi ricorda alcune vittime della barbarie titoista, quali gli antifascisti Adam e Blasich, od alcuni esponenti del comunismo fiumano italofono, quali Massarotto o Damiani, analizzando le motivazioni essenziali dell’esodo, ma nello stesso tempo, quelle degli operai «monfalconesi» che, sia pure in numero marginale rispetto ai profughi, fecero il percorso inverso assieme ad una ristretta pattuglia di intellettuali ed attori. Non manca, poi, una struggente storia d’amore tra Gabriele (così chiamato dal padre legionario dannunziano, in onore del Comandante) ed una Fiumana, poi sposata con un comunista, che si conclude in maniera tragica col suicidio di Eleonora e del marito.

Non si tratta di uno stratagemma artistico: nella Jugoslavia comunista, in specie del dopo Tito, non mancarono suicidi eccellenti, a cominciare da quelli di qualche eroe della «guerra patriottica» che scelse di togliersi la vita a fronte degli scandali di regime, della corruzione dilagante e di un sistema politicamente ed economicamente fallimentare, che negli anni Ottanta condusse la Repubblica Federativa alla massima incidenza europea del debito pubblico pro-capite. In questa ottica, non sorprende affatto che Zecchi abbia scelto la predetta conclusione, sia per la protagonista femminile sia per il suo compagno di vita, quel Miran che era stato grande amico di Gabriele ma non aveva esitato a liquidarne il padre, aveva fatto carriera nei quadri politici ed alla fine era caduto in disgrazia fino al punto di chiedere l’elemosina suonando la fisarmonica.

L’Autore ha messo a fuoco in maniera magistrale la disperazione dei vecchi Fiumani che avevano visto crollare grandi fedi e forti certezze, ma nello stesso tempo, le speranze di alcuni giovani in una palingenesi rigeneratrice all’ombra del vecchio sogno marxista, destinate ad un clamoroso naufragio reso quasi surreale dall’antitesi fra stalinismo e comunismo moderato che a far tempo dal 1948 avrebbe distrutto impietosamente i vecchi equilibri. Zecchi si sofferma sulle motivazioni degli esuli che non esitarono a sacrificare tutto pur di restare Italiani e di salvaguardare, con la libertà, la propria fede antica; ma non manca di analizzare le ragioni di quei pochi che decisero di restare pur non essendo comunisti, vuoi per rassegnazione, vuoi per non abbandonare la tomba di una persona cara.

L’opera non prescinde da una sicura conoscenza della realtà fiumana, non solo dal punto di vista umano ma anche da quello ambientale; e nello stesso tempo non trascura il difficile lavoro di ricostruzione della propria vita, sin dalle fondamenta, che gran parte degli esuli si trovò ad affrontare, dapprima nei campi di raccolta, poi in occupazioni precarie, e tuttavia senza resipiscenze per la propria scelta. Al contrario, chi aveva optato per la Jugoslavia, sia che lo avesse fatto per motivazioni politiche, sia per necessità, rimase col dubbio, e forse con la certezza di non avere fatto la scelta giusta, con la sola eccezione di quanti si erano adagiati in un rassegnato fatalismo.

Si diceva dell’analisi motivazionale di Zecchi sulle cause di tragedie così epocali come quelle del Novecento. Quella dell’Olocausto viene ravvisata, non senza un pertinente approfondimento del «Volksgeist» tedesco, nel rifiuto di chi era ritenuto inferiore, indotto da una sorta di paura atavica nei confronti di quanti non fossero in grado di confrontarsi ad armi pari con il «superuomo» di Nietzsche diventato personificazione dell’ideale nazionalsocialista. Al contrario, l’origine dell’odio slavo nei confronti dell’Occidente, ed in particolare degli Italiani, andrebbe ricercata nella triste consapevolezza di un’inferiorità culturale riveniente da secoli, se non anche da millenni di storia e, in qualche misura, da un divario etico tradotto in agghiaccianti efferatezze che qualche superstite ha definito peggiori di quelle perpetrate ad Auschwitz o Dachau, e che si sono tragicamente ripetute nei conflitti seguiti alla dissoluzione della vecchia Jugoslavia. L’Autore non ha la pretesa di esprimere certezze definitive, ma attraverso la voce dei suoi personaggi suggerisce meditazioni di sicuro interesse, da approfondire e sviluppare.

Quanti sono coloro che conoscono i sistemi con cui all’Isola Calva e negli altri campi della cosiddetta «rieducazione» alla fede titoista si andava a compiere un allucinante delitto contro l’umanità? Quanti sono coloro che sono informati sulla prassi dell’OZNA, e poi dell’UDBA, di «liquidare» ogni opposizione reale o presunta, lungi da ogni pur iniqua parvenza giudiziaria, fracassando la testa dei «nemici del popolo» all’insegna dell’assoluta impunità? Quanti sono coloro che si rendono veramente conto di che cosa significhi subire una sorte diabolica come quella di essere scaraventati in una foiba?

Sono domande retoriche: la disinformazione sui fatti del confine orientale, nonostante la legge istitutiva del Ricordo, continua ad essere largamente maggioritaria. Ed allora, un’opera come quella di Stefano Zecchi diventa a più forte ragione meritoria e necessaria, in ossequio all’antica saggezza secondo cui coloro che ignorano sono chiamati ad imparare, e coloro che sanno, a ricordare consapevolmente.

(novembre 2016)

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