Ruggero Timeus e Attilio Tamaro: un monito all’Italia contemporanea
Analisi di una straordinaria attualità storica e politica

Le interpretazioni della storia sono sempre suscettibili di approfondimenti e di riflessioni, sia alla luce delle fonti e dei documenti, sia alla stregua dei nuovi problemi proposti allo storico nell’epoca della ricerca. Non a caso, Benedetto Croce e Friedrich Meinecke, affermando il principio universale di «contemporaneità» valido per ogni esegesi storiografica, hanno dimostrato che l’interesse dell’indagine non è puramente culturale, ma tende a proporre interpretazioni «attuali» anche dal punto di vista politico. Fra i tanti, un esempio importante è quello proposto dalle vicende del confine orientale italiano e dalle analogie fra passato e presente che si possono cogliere nel pensiero di due insigni patrioti giuliani quali furono, in diverse condizioni spirituali e temporali, Ruggero Timeus e Attilio Tamaro: al riguardo, costituisce utile riferimento quello a una recente e coinvolgente sintesi, tanto più apprezzabile perché non si tratta dell’opera di uno storico ma di un musicista (Pino Cimino, Un monito all’Italia contemporanea dalla Trieste asburgica, Aviani & Aviani Editori, Udine 2020, 108 pagine).

Il destino di Timeus[1] fu notevolmente diverso da quello di Tamaro[2]. Infatti, il primo si sarebbe immolato in piena giovinezza sul fronte della Grande Guerra suffragando il suo credo irredentista col sacrificio della vita, mentre il secondo avrebbe potuto affermare i propri ideali nel corso di una lunga vita spesa al servizio della Patria. Nondimeno, tanto per l’uno che per l’altro, entrambi Triestini, il sogno della redenzione non si sarebbe limitato al riscatto della propria città e della propria terra da una lunga condizione di vassallaggio, estendendosi a quello di un’Italia più forte, e come tale più rispettata nel contesto internazionale. Timeus e Tamaro (bisnonno dell’omonima Susanna) sono legati da una comune passione italica, peraltro molto lucida e priva di ogni retorica magniloquente: con la differenza, per il Tamaro della maturità, di un disincanto dovuto alla tragedia della guerra perduta, ma nello stesso tempo, con una forte consapevolezza critica delle iniquità perpetrate nei confronti dell’Italia (in primo luogo nel trattato di pace, ma non solo).

Si diceva dell’attualità del loro pensiero: forse, con qualche maggiore accentuazione in Timeus, rimasto immune dai ripensamenti potenzialmente impliciti in quella tragedia, ma prima ancora, nel dramma della guerra civile e nella realtà di uno Stato travolto dalla sua sostanziale negazione per opera di qualcuna tra le maggiori forze in campo. Di qui, il richiamo alla pur schematica idea nazionale dello stesso Timeus per una riflessione sull’applicabilità delle sue convinzioni ideali alla congiuntura politica e «filosofica» del nuovo millennio, che si distingue, non soltanto in Italia, ma in misura più accentuata proprio nel bel Paese, per una crisi dell’idea di nazionalità che si traduce nell’affievolimento dei suoi diritti sovrani imposto dalla sovrastruttura di un’Europa burocratica e terribilmente lontana dai fondamentali valori cristiani; e prima ancora, per il fatto che «abbandonare la nazionalità vuol dire tradire la propria storia e la propria terra». Tutto ciò, in favore di un vago terzomondismo propenso alla rassegnazione di fronte all’ineluttabile espresso dalle nuove invasioni barbariche, e non certo dall’improbabile ricerca di valori alternativi, tanto più utopistica in quanto lontana anni luce da una storia all’insegna dello Spirito e non già della materia.

Dal canto suo, Attilio Tamaro si è spinto più avanti nella misura in cui sin dal 1920 aveva proposto la «necessità della Dittatura» (sulla falsariga dell’antica «Res Publica Romana») alla luce di un’emergenza inderogabile come quella imposta da pericoli mortali come il dilagare del sovversivismo, la tolleranza elevata a sistema, lo sfacelo dell’autorità statale, la violenza indiscriminata, le umiliazioni internazionali e la ricorrente denigrazione del patriottismo. Non a caso, in chiusura della sua opera all’insegna di «una fredda analisi» senza pregiudizio né rancore, si era richiamato all’assunto di Machiavelli secondo cui «niun uomo buono riprenderà mai alcuno che cerchi di difendere la sua Patria, in qualunque modo se la difenda».

Dopo la catarsi del 1945 anche Tamaro si sarebbe posto domande non effimere circa gli eventi e le responsabilità che avevano contribuito a determinarli, ma non per questo avrebbe rinunciato alla volontà di riscatto e di un nuovo, autentico Risorgimento, denunciando la fagocitazione di ogni giusta attesa italiana in un trattato di pace non privo di talune imposizioni ignominiose, e rammentando, a chiusura della sua grande opera del 1952, l’imperativo proposto da Camillo di Cavour nei momenti più duri del cammino verso l’Unità: quello di perseverare, perché la storia, come è stato altrimenti detto, non è finita ieri, non finisce oggi e non finirà domani.

Perché questo possa tradursi in fatti reali, è necessario bloccare l’opera di denazionalizzazione programmata in corso. Non è facile: le azioni da perseguire non sono poche, dovendosi serrare le file, assumere più completa e matura consapevolezza critica delle necessità dell’ora, acquisire convinta certezza dei diritti negati, e soprattutto, rileggere la storia per farne oggetto di riflessioni volte al perseguimento di un avvenire all’insegna dei valori spirituali che furono patrimonio degli Avi, nel ripudio di ogni suggestione relativista se non anche nichilista, e delle nefande rassegnazioni indotte dall’individualismo. Per dirla ancora con Timeus, «la nazione crea il patriottismo quando lotta per la sua esistenza» senza dire che il popolo «prima di poter accogliere i principi della libertà, deve sapere di essere un popolo».

La fede dei vecchi patrioti, e le azioni che ne scaturirono, sono esempio e sprone assieme all’assunto del filosofo secondo cui la linea del possibile può essere spostata «grandemente» con l’ausilio della volontà. I tempi sono certamente difficili ma la partita non è perduta, a patto che la «virtù» sappia prevalere, dimostrando che «l’antiquo valore negl’italici cor non è ancor morto».


Note

1 Ruggero Timeus (Trieste 16 febbraio 1892-Pal Piccolo 14 settembre 1915) fu esponente di spicco del cosiddetto irredentismo «biologico» in contrapposizione a quello «culturale» di Scipio Slataper e di Giani Stuparich, che non escludeva una forma di spiccata autonomia nel vecchio contesto asburgico, ma che nel caso di Giani, sopravvissuto agli orrori del conflitto, avrebbe finito per riconoscere lealmente la priorità di quello scevro da qualsiasi compromesso, promosso da Timeus. Quest’ultimo, che aveva assunto il cognome di Fauro nell’improbabile tentativo di sottrarsi al destino dei «disertori» come Cesare Battisti o Nazario Sauro nel caso di cattura da parte del nemico, si era già distinto per alcuni scritti sulle maggiori riviste dell’epoca e in modo particolare su «L’Idea Nazionale», poi ripresi negli Scritti politici usciti in edizione postuma nel 1929 a iniziativa del Lloyd Triestino; e soprattutto per Trieste: Italiani e Slavi – Il Governo Austriaco – L’Irredentismo (Editore Gaetano Garzoni Provenzani, Roma 1914). Una sintesi più recente degli scritti politici di Timeus è in I Nazionalisti, a cura di Angelo d’Orsi (Feltrinelli Editore, Milano 1981, pagine 273-285).

2 Attilio Tamaro (Trieste 13 luglio 1884-Roma 20 febbraio 1956), irredentista della prima ora, laureato in lettere a Graz, ferito nel 1903 durante i moti per la vana richiesta di istituire l’Università degli Studi a Trieste, negli anni antecedenti la Grande Guerra fu bibliotecario presso la Giunta Provinciale di Pola e giornalista de «L’Indipendente» e del «Piccolo». Esule in Italia, nel 1916 fu inviato in missione a Parigi e Londra per perorare il buon diritto dell’Italia ad acquisire, in caso di vittoria, la sovranità sulle terre irredente di cui al Patto dell’aprile 1915. Dopo l’avvento del fascismo ebbe una lunga esperienza diplomatica, protrattasi per un intero ventennio dal 1923 al 1943, dapprima a Vienna, poi ad Amburgo, Helsinki e infine a Vienna. Nel giugno del medesimo 1943, prima della caduta di Mussolini e della sua sostituzione con Badoglio, fu espulso dal Partito Nazionale Fascista perché contrario alle applicazioni più stringenti delle leggi razziali, ma in seguito ugualmente sottoposto a epurazione, peraltro senza condanna. Gli ultimi anni furono dediti soprattutto all’impegno storiografico: uscirono in questo periodo Trieste: storia di una città e di una fede (Istituto Editoriale Italiano, Milano 1945) e La condanna dell’Italia nel trattato di pace (Cappelli, Rocca San Casciano 1952) che vanno ad aggiungersi alle opere giovanili, tra cui: Le condizioni degli Italiani soggetti all’Austria (Bertero, Roma 1915); Il trattato di Londra e le rivendicazioni nazionali (Società Geografica Italiana, Roma 1918); La necessità della Dittatura (Politica, Roma 1920); Storia di Trieste (Alberto Stock, Roma 1924).

(ottobre 2020)

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