La toponomastica italiana in omaggio a Tito
Paradossi della memoria storica

In Italia esistono tuttora 11 Comuni, fra cui tre capoluoghi di provincia, che si ostinano a perseverare nell’onoranza al Maresciallo Tito, alla cui memoria intitolarono a suo tempo un luogo pubblico, celebrativo delle «glorie partigiane» del medesimo Josip Broz e della sua ideologia. Dopo oltre quarant’anni dalla scomparsa del satrapo di Belgrado[1], quelle Amministrazioni insistono pervicacemente in tale assunto, nonostante le richieste di rimozione e sebbene nella stessa Jugoslavia siano state prese ormai da parecchio tempo le dovute distanze da un’esperienza politica rivelatasi fallimentare anche sul piano economico e sociale, facendo strame dei sogni di riscatto che già dal 1945 avevano salutato l’avvento della Repubblica Federativa.

Basti citare il caso di Tomislav Kamarenko, uomo politico anticomunista, candidato alle elezioni croate del 2015, il quale ebbe a dichiarare senza mezzi termini che, nel caso di vittoria, il primo provvedimento assunto dal nuovo Governo sarebbe stato quello di cancellare il nome di Tito dalla toponomastica delle città che non avessero già provveduto in proprio: ciò, alla luce dei crimini compiuti dal Maresciallo durante la guerra, e soprattutto nel lungo periodo di gestione del potere, che – come si sa – fu conservato e gestito a vita, vale a dire per oltre un terzo di secolo.

Conviene aggiungere che le proteste dell’opinione pubblica croata a fronte del suddetto «pronunciamento» furono assolutamente marginali, riducendosi a quelle espresse da qualche congiunto di Tito, da taluni esponenti della superstite vecchia guardia partigiana, e dal notabilato della Dieta Democratica Istriana, la piccola formazione in cui opera una parte ragguardevole della residua comunità italofona. Al contrario, l’impegno assunto nell’occasione fu onorato, secondo le successive informazioni, in un numero maggioritario di casi.

Intendiamoci: la glorificazione postuma di Tito nelle targhe stradali italiane o croate è problema di rilevanza comunque marginale, perché il giudizio della storia su quella lunga e plumbea stagione è stato pronunciato in termini irreversibili, al pari di quello concernente la pervicacia conservatrice delle Amministrazioni comunali interessate. Tuttavia, è questione di permanente valore simbolico, perché attesta il carattere sostanzialmente impermeabile di talune pregiudiziali ideologiche, incapaci di cedere davanti al linguaggio impietoso dei fatti, e in primo luogo delle troppe Vittime, non soltanto italiane, rimaste sulla coscienza dello stesso Tito e dei suoi luogotenenti.

A questo riguardo, la convergenza tra l’atteggiamento a suo tempo assunto dalla Dieta Democratica Istriana e quello dei Comuni «titoisti» di casa nostra sarebbe un fenomeno da approfondire, perché indica come le posizioni nostalgiche del vecchio regime jugoslavo siano più radicate in Italia, come succede a Parma (dove i luoghi pubblici intitolati a Tito sono addirittura due), a Reggio Emilia e Nuoro, i tre Comuni capoluogo di provincia in cui sopravvive la toponomastica in parola, e nella stessa Istria. In quest’ultimo caso, ciò avviene per iniziativa condivisa dalla sparuta minoranza italiana, sovvenzionata dalle cospicue iniezioni finanziarie messe a disposizione dal Governo di Roma (e non solo) nel dichiarato intento di tutelarne i caratteri etnici, fonetici e culturali, ma dove la sua scelta iniziale di restare con Tito, diversamente dai nove decimi della popolazione che aveva scelto l’Esodo, è confermata con tutta evidenza anche dalle scelte più recenti.

Non c’è che dire: esistono sacche di obbedienza «cieca, pronta e assoluta» (come avrebbe detto un indimenticabile Giovannino Guareschi) a un verbo ormai vanificato dagli eventi storici e dalla maturazione di gran parte delle coscienze anche negli ambienti della sinistra. Ebbene, queste sacche resistono meglio proprio in Italia, oltre che nell’Istria trasferita sotto la sovranità altrui col trattato di pace del 1947; al contrario, in Croazia e nella stessa Slovenia, da un lato per la ben diversa esperienza del titoismo fatta da popolazioni di larghissima maggioranza cattolica, e dall’altro per l’urgenza di problemi economici e sociali di ben maggiore rilievo, la questione è stata sostanzialmente archiviata. Non a caso, come fu scritto ormai da diverso tempo, sul mausoleo del Maresciallo crescono le ortiche, mentre diversi ricordi di Tito sono stati venduti al miglior offerente, quali cimeli di una stagione politica ormai archiviata; e con ottimi ricavi, anche perché il Maresciallo, nella sua proverbiale vanità, amava circondarsi di orpelli assai costosi. Come avrebbe detto il celebre poeta inglese Thomas Gray, «i sentieri della gloria conducono solo alla tomba», e quello in parola è certamente un caso suffragato dalle evidenze.

Le glorie del mondo sono transeunti, come ammonisce l’antico aforisma cristiano, e quelle che restano a galla sono schegge destinate a un destino non meno labile, con l’aggravante di avere supportato le gesta di un sistema criminale in cui i diritti umani erano negati sistematicamente, e quindi, di un’apologia di reato tanto più grave, perché perpetrata a dispetto dell’evidenza[2].

Spiace che tutto ciò sia accaduto in ambienti italiani o italofoni di antiche tradizioni patriottiche ma la realtà «effettuale» di machiavelliana memoria è questa, evidenziando che il percorso verso una consapevolezza critica più matura non può essere breve, tanto più che gli ostacoli tuttora presenti non sono di natura esclusivamente ideologica o politica, ma trovano sponde sicure nella presenza di interessi sulla cui legittimità molto si potrebbe discutere, in quanto ben lontani dal necessario carattere generale, o quanto meno maggioritario.

Resta un fatto indubitabile. Il sistema di Tito è crollato integralmente, sia sul fronte nazionale ex jugoslavo, dove l’unità emersa dalla cosiddetta «guerra patriottica» è soltanto un ricordo cui ha fatto seguito l’attuale frammentazione in vari piccoli Stati, mentre l’autogestione scomparve in una corruzione pletorica e in un debito pubblico tra i maggiori d’Europa; sia sul fronte internazionale, dove il movimento dei cosiddetti «non allineati», promosso dallo stesso Tito, è stato sostanzialmente azzerato ormai da parecchio tempo, sia sul piano politico sia su quello giuridico. In altri termini, se l’errore iniziale era stato umano, sia pure con palesi forzature e non pochi spunti ferini, perseverare in una glorificazione surreale, oltre che largamente minoritaria, non appare privo di qualche connotazione diabolica.


Note

1 Tito scomparve in una clinica di Lubiana il 4 maggio 1980 suscitando un cordoglio cui parteciparono parecchi grandi della Terra, fra i quali si distinse il Presidente Italiano Sandro Pertini che del resto, in occasione di una precedente visita di Stato, non aveva mancato di baciare la bandiera jugoslava. Il suo commento fu compendiato in un messaggio dal Quirinale, dove il Capo dello Stato affermava che «con la scomparsa del Presidente Tito l’umanità perde un combattente che si è battuto per i principi di libertà e di giustizia». Poi, proseguiva dichiarando di sentirsi «profondamente amareggiato perché con Tito» perdeva un amico che considerava «compagno di lotta e di fede» (confronta P. Flaminio Rocchi, L’esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati, Difesa Adriatica, quarta edizione, Roma 1999, pagina 669).

2 Per un esemplare inquadramento di sintesi, confronta Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, Trieste 2011. In materia, maggiori ragguagli sono reperibili in: Carlo C. Montani, Venezia Giulia, Istria, Dalmazia – Pensiero e vita morale – Tremila anni di storia, Aviani & Aviani, Udine 2021.

(febbraio 2022)

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