Una tragedia plurimillenaria
Venezia Giulia, Istria e Dalmazia

La grande storia, secondo la celebre definizione manzoniana, ha lo scopo prioritario di combattere una «guerra illustre contro il tempo»[1] se non altro per non dimenticare e per comprendere meglio il presente: in effetti, con lo scorrere degli anni e dei secoli, i ricordi si affievoliscono sin quasi all’oblio. Quella giuliana, istriana e dalmata, non meno di tante altre, è una storia conforme alla regola: da un lato, quanto è accaduto nel cosiddetto secolo breve e nello scorcio iniziale del terzo millennio è oggetto di un autentico florilegio editoriale, solitamente monografico, mentre i precedenti sono lasciati, nella migliore delle ipotesi, all’attenzione degli specialisti. Eppure, come si mette in luce nei canoni essenziali della grande storiografia, gli eventi maggiori e le motivazioni politiche e sociali da cui trassero origine sono legati da un’interminabile serie di cause e di effetti.

Tali cause e tali effetti si susseguono in una serie di nessi indissolubili da cui non è possibile prescindere nelle valutazioni dell’attualità e nelle stesse ipotesi di sviluppi avvenire. Anche per questo, il giudizio storico, da Tacito a Benedetto Croce, si evolve nell’ambito di costanti approfondimenti, e quindi, di possibili aggiornamenti storiografici motivati da maggiori conoscenze documentate, e laddove possibile, da comprovate testimonianze. Qualche esempio? Senza le invasioni «barbariche» a carattere stanziale come quelle che ebbero luogo nella seconda metà del primo millennio «cristiano» tutta la storia successiva avrebbe verosimilmente avuto caratteri assai diversi fino ai nostri giorni. Analogamente, senza lo sviluppo dell’idea di nazionalità promossa dalla grande Rivoluzione e dall’esperienza napoleonica, molte tragedie del Novecento non avrebbero avuto luogo, per lo meno nelle tremende dimensioni quantitative che le hanno caratterizzate, sia sul piano militare sia su quello civile. Infine, senza questo ritorno all’epoca ferina di cui al pensiero di Giambattista Vico, sarebbe stata meno probabile la maturazione, almeno sul piano etico e giuridico, di una maggiore solidarietà internazionale garantita ai massimi livelli istituzionali come quello delle Nazioni Unite, e resa più celere dalla reazione all’immenso dramma umano delle guerre «mondiali».

Trascorsi tre secoli da quando il grande poeta inglese Thomas Gray, di fronte all’evidenza dei fatti, scrisse che «i sentieri della gloria conducono solo alla tomba»[2], si è finalmente giunti a comprendere quanto sarebbe meglio se il microscopico pianeta su cui l’umanità è chiamata alla sua breve esistenza fisica fosse governato dai «valori non negoziabili» della cooperazione e della non violenza. La «realtà effettuale» di machiavelliana memoria è tuttora lontana dal vedere tradotti tali auspici sul piano concreto, ma – se non altro – il mondo ha preso atto della priorità laica e religiosa espressa dall’imperativo categorico di Kant circa il ruolo insostituibile della legge morale, ben prima dello stesso diritto positivo.

La storia giuliana, istriana e dalmata si è andata evolvendo alla luce di alcune grandi stagioni che ne hanno fatto emergere i caratteri essenziali orientandone i destini. In un’ottica necessariamente schematica, questi momenti hanno avuto riguardo alla conquista romana e conseguente presenza latina; alle successive invasioni di altri popoli, segnatamente orientali; alla millenaria presenza della Serenissima; al più breve periodo di un Ottocento governato dalla Restaurazione e dai suoi eredi in crescente antinomia rispetto ai nuovi ideali dell’irredentismo, non solo italiano; infine, all’esplosione delle contraddizioni, esaltate prima in chiave positivista e poi futurista, e concausa delle due guerre mondiali con i rinnovati drammi le cui conseguenze ultime non sono state ancora esorcizzate.

La presenza romana, iniziata con il vittorioso «Bellum histricum» agli inizi del secondo secolo precristiano, trasse origine da un conflitto assai sanguinoso conforme agli usi dell’epoca, chiuso con il suicidio di Epulo, il Sovrano degli Istri, e con la riduzione in schiavitù del suo popolo. Nondimeno, diede luogo a sviluppi altrimenti impensabili, in primo luogo con l’avvento di un sistema agricolo stanziale, di un potenziamento dei commerci, e soprattutto di un’organizzazione giuridica funzionale come quella di Roma, proseguita da Giustiniano in epoca bizantina, che in tempi successivi ha presieduto all’evolversi nei moderni sistemi istituzionali. Il periodo romano coincise, fra l’altro, con la costruzione di taluni importanti nuclei a progressiva dimensione urbana, quali Tergeste, Pietas Julia e Tarsatica, vale a dire le successive Trieste, Pola e Fiume (oltre ai tanti aggregati minori).

La fine di Roma, come si sa, fu indotta da una crisi complessa in cui ebbero causa prevalente alcuni fattori innovativi come il nuovo Verbo del Cristianesimo, lo scadimento dei costumi e quello della vecchia forza militare, cui si aggiunse la nuova pressione dei «barbari» con riguardo prioritario a Unni, Vandali e Visigoti, e più tardi ad Avari e Slavi. Questi ultimi due popoli ebbero un ruolo attivo largamente maggiore, perché alla fine preferirono insediarsi sul territorio rinunciando alla vecchia logica delle scorrerie, e mettendo in pratica un pur difficile percorso d’integrazione, facilitato, tra l’altro, da una maggiore propensione allo sviluppo demografico. La resistenza autoctona ebbe momenti di manifestazioni vivaci, come accadde quando ottenne il riconoscimento dei propri diritti col Placito di Risano statuito in epoca carolingia, ma con effetti oggettivamente relativi: come spesso accade, anche in quella circostanza le forze nuove finirono per prevalere, e le vecchie per accettare.

Nettamente diverso fu l’apporto di Venezia, giunto attraverso una lunga serie di acquisizioni, sia a carattere istituzionale, sia di natura economica, legata alla logica dei commerci. La Serenissima ebbe diversi Dogi Istriani, a cominciare da Pietro Tradonico, assurto alla massima Magistratura veneta già nell’ottavo secolo, ma soprattutto esercitò un’influenza sempre più riconosciuta anche formalmente, come accadde nell’anno Mille quando a Pietro Orseolo fu riconosciuto il titolo di «Dux Dalmatiae», per non dire del successivo «Dux totius Istriae» attribuito al Doge nel 1150, e della qualifica di «Maris Adriatici Dominatrix» conferita alla Serenissima dopo altri due secoli. Nondimeno, non bisogna credere che il millennio veneziano, chiuso in modo amaro col trattato di Campoformido del 1797 e la cessione all’Austria da parte di un Napoleone già avviato all’imprevedibile ruolo di signore d’Europa, sia stato immune da problemi, a parte quelli della decadenza settecentesca. Il problema di maggiore impatto fu costituito dalle ricorrenti pestilenze, che si contarono in una trentina, alcune delle quali con livelli spaventosi di una mortalità pervenuta a quote largamente maggioritarie della popolazione, tale da consigliare il Governo Veneto a colmare i vuoti con ripetute «iniezioni» di Slavi provenienti da distretti interni di Istria e Dalmazia e soprattutto da altri più lontani, nel Mezzogiorno Balcanico: cosa che avrebbe indotto modificazioni generalmente irreversibili nella struttura etnica del comprensorio istriano e dalmata.

In buona sostanza, non meno di quanto era accaduto nel primo millennio, le pandemie furono un fenomeno destinato a promuovere effetti «sine die», in specie quando costoro, soprattutto nell’Ottocento, presero crescente coscienza dei loro diritti, a scapito di quelli altrui.

Il resto è storia recente. Nel corso dell’Ottocento si diffusero i principi essenziali dell’irredentismo, dalle origini prevalentemente mazziniane che del resto avevano avuto qualche anticipazione importante anche nel «Secolo dei Lumi», con particolare riguardo al pensiero di Gian Rinaldo Carli, spirito indipendente, uomo di cultura, promotore di rilevanti iniziative in campo industriale, e precursore dell’italianità adriatica. La «dottrina» irredentista ebbe echi particolarmente autorevoli nel ripetuto «grido di dolore» che coinvolse anche Vittorio Emanuele II durante il percorso unitario, in specie dopo la Seconda e soprattutto la Terza Guerra d’Indipendenza, quando Trieste e l’Istria rimasero asburgiche nonostante l’auspicio dei patrioti. Poi, si tradusse anche formalmente nella costituzione di «Italia Irredenta», l’Associazione voluta nel 1877 da Giuseppe Avezzana e Matteo Renato Imbriani con lo scopo di «redimere le terre italiane tuttora soggette allo straniero per compiere l’unità della Patria».

Il giovane Regno d’Italia, peraltro, non aveva la forza bastevole per instaurare un rapporto competitivo con gli Imperi Centrali, e fu costretto a patteggiare, in specie dopo lo «schiaffo» di Tunisi, sottratta abilmente dalla Francia alle mire di Casa Savoia.

Nonostante il sacrificio del patriota triestino Guglielmo Oberdan, primo Martire dell’irredentismo condannato a morte dall’Austria per un’intenzione – compiere un attentato ai danni di Francesco Giuseppe quale «Imperatore degli Impiccati» dal Risorgimento in poi – l’isolamento ulteriormente conseguitone spinse l’Italia a sottoscrivere la Triplice Alleanza con la Germania e con la medesima Austria, che tra alti e bassi, ivi compresi i ripetuti «giri di valzer» prontamente contestati da Berlino e da Vienna, si sarebbe protratta fino alla vigilia della Grande Guerra, nonostante le proteste degli irredentisti.

L’Italia entrò nell’immane conflitto dopo dieci mesi di neutralità, e dopo il Patto di Londra del 26 aprile 1915 con cui avrebbe cambiato rapidamente campo a seguito delle promesse formulate da Francia e Gran Bretagna circa l’acquisizione della Venezia Giulia e di buona parte della Dalmazia, ma con esclusione di Fiume, che si era lasciata all’Ungheria quale sbocco adriatico, non essendo presumibile, almeno all’epoca, che l’Impero Asburgico sarebbe uscito dal conflitto completamente distrutto. La disdetta dalla Triplice non avvenne senza polemiche: in qualche misura, anche per iniziativa di una parte della Destra, più colonialista che irredentista.

A guerra finita, con almeno 650.000 caduti italiani cui si aggiunsero quelli per i postumi di ferite e malattie, pari ad altri 100.000, le disposizioni del Patto non furono rispettate, in specie per l’opposizione di Woodrow Wilson, il Presidente degli Stati Uniti che peraltro avevano partecipato al conflitto soltanto dal 1917.

Ne trasse origine il «mito» della cosiddetta «Vittoria Mutilata», che – a ben vedere – mito non era poi tanto, anche da un punto di vista «lato sensu» giuridico; e ne trassero motivo di lotta le opposizioni nazionaliste, sconcertate dal comportamento ondivago assunto dalla delegazione italiana alla Conferenza di Pace, capeggiata da Antonio Salandra e Sidney Sonnino, fino ad abbandonarla improduttivamente per circa un mese. Il «poeta soldato» Gabriele d’Annunzio fu sensibile all’invito di accogliere gli auspici della predetta opposizione marciando su Fiume in avallo al proclama emesso il 30 ottobre 1918 dal Consiglio comunale della città con la richiesta di unione all’Italia, e istituendo la «Reggenza Italiana del Carnaro», destinata a sopravvivere sino al «Natale di Sangue» del 1920, quando i Legionari dannunziani (circa 10.000) furono costretti a rinunciare all’impresa dopo la pur breve «prova di guerra civile» voluta dal Governo di Giovanni Giolitti, che per parte sua un mese prima aveva già stipulato il trattato di Rapallo con la nuova Jugoslavia, a chiusura del contenzioso post bellico. Ciò, a seguito del trattato di Versailles che era stato siglato nel 1919 con Austria e Germania e con l’acquisizione di Trento e Trieste. Giova aggiungere che a Rapallo fu convenuto di istituire uno Stato Libero di Fiume, peraltro di breve vigenza fino alle nuove intese del 1924 con cui la «Città Olocausta» divenne italiana, sia pure con altre concessioni, anche territoriali, a favore di Belgrado.

Alla predetta chiusura del contenzioso per Fiume il movimento fascista, poi diventato partito in cui era confluita la maggior parte dei nazionalisti, era assurto a forza di governo dopo la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, sia pure con tre soli Ministri, in aggiunta a Benito Mussolini quale Presidente del Consiglio. Sin dall’anno successivo la politica estera italiana avrebbe manifestato una nuova tendenza protagonista anche sul fronte adriatico, con le occupazioni seguite all’incidente in cui era stato ucciso il Generale Enrico Tellini assieme ai membri della sua delegazione; poi ebbero luogo il rapimento e l’uccisione del deputato Giacomo Matteotti che nel 1924 cadde per opera di una squadra fascista da cui il Governo si sarebbe dissociato anche in sede giudiziaria, ma che avrebbe fornito l’occasione per la svolta decisiva del 1925, con le cosiddette leggi «fascistissime» e la sostanziale scomparsa delle opposizioni, che in buona parte – con la sola eccezione dei comunisti – avevano già commesso l’errore di ritirarsi dal Parlamento per arroccarsi nell’improbabile difesa dell’Aventino.

A quel punto, Mussolini divenne vero padrone del Governo e di uno Stato ormai indubbiamente autoritario, nonostante la cosiddetta diarchia con Vittorio Emanuele III di Savoia che si sarebbe protratta fino al 1943.

Quella del ventennio è una storia complessa, in cui il fascismo raggiunse livelli di consenso impensabili – se non altro fino alla metà degli anni Trenta – che non furono compromessi nemmeno dalla guerra d’Etiopia, mentre comparvero non poche perplessità a decorrere dal 1938 con la promulgazione delle leggi in difesa della razza, e soprattutto con il progressivo avvicinamento alla nuova Germania hitleriana.

I rapporti con l’Europa Orientale, e in modo specifico con la Jugoslavia, dopo tante difficoltà apparentemente insormontabili avevano ascritto un buon progresso col patto d’amicizia del 1937 (firmato da Galeazzo Ciano e Milan Stojadinovic) tanto più apprezzabile dopo gli anni di piombo che, soprattutto tra gli anni Venti e quelli immediatamente successivi, avevano visto la forte attività terroristica di talune organizzazioni clandestine slave quali Orjuna e TIGR, chiudendosi con cinque condanne capitali pronunciate nel 1929 dopo i processi a carico di Vladimir Gortan, e l’anno dopo, dei cosiddetti «Quattro di Basovizza» responsabili di parecchi attentati con Vittime.

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale la Jugoslavia gravitava tra gli Stati fiancheggiatori dell’Asse, e rimase al di fuori del conflitto, al pari di quanto fece l’Italia iterando i dieci mesi di «non belligeranza» che aveva già scelto all’inizio della Grande Guerra. Nondimeno, nella primavera del 1941 sopravvenne il colpo di Stato di Belgrado con cui la Jugoslavia cambiò improvvisamente campo, costringendo l’Asse (Germania, Italia, Bulgaria e Ungheria) a scendere in campo, se non altro per evidenti ragioni strategiche, tenuto conto che le operazioni belliche sugli altri fronti erano in atto da quasi un anno e mezzo.

Il nuovo conflitto si chiuse rapidamente per la grande differenza delle forze in campo, ma fu un’illusione: ebbe inizio immediatamente la guerriglia, che sarebbe proseguita fino al maggio 1945 con l’apporto prioritario dei partigiani comunisti di Tito e la vittoria degli Alleati, perfezionata in agosto da quella sul Giappone.

Il fronte jugoslavo fu teatro di una guerra particolarmente aspra e violenta, ben oltre le statuizioni, peraltro sempre elastiche, del diritto internazionale bellico. Dall’una e dall’altra parte non si contarono le uccisioni indiscriminate e le rappresaglie, ben oltre i limiti statuiti dalla normativa e dalla consuetudine; nella fattispecie, questa prassi avrebbe avuto seguito anche nel dopoguerra, per iniziativa delle forze partigiane titoiste che nel frattempo avevano avuto ragione di tutti gli oppositori, quali cetnici, domobranci e ustascia, anche per le preferenze loro accordate dagli Alleati americani, e soprattutto da quelli inglesi guidati da Winston Churchill.

Le violenze coinvolsero in maniera particolarmente aspra anche gli Italiani, sia militari sia civili. Fra i primi, le conseguenze peggiori furono subite dalle forze appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, sorta dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 sotto la cruda egida delle forze di occupazione germaniche. Poi, gli strali dei partigiani slavi si rivolsero indiscriminatamente anche nei confronti dei prigionieri, ivi compresi quanti non appartenevano alle unità combattenti ma a quelle ausiliarie, e non senza trattamenti di particolare efferatezza, condannati «in toto» anche nel diritto internazionale bellico e largamente documentati nell’ampia bibliografia oggi disponibile[3].

Quanto ai civili, la prassi instaurata fu oltremodo odiosa per il coinvolgimento di Vittime che in larghissima maggioranza non avevano responsabilità di sorta, per non dire delle donne e dei minori. Non è stato facile giungere a valutazioni condivise, ma oggi anche le fonti riduzioniste hanno dovuto accettare la triste realtà secondo cui gli Italiani infoibati o diversamente massacrati furono non meno di 20.000, fra cui parecchie centinaia di donne, con l’allucinante aggiunta di circa 200 minori (pur non considerando tali gli ultra diciottenni, anche se all’epoca la maggiore età era quella dei ventuno). I colpevoli non furono mai perseguiti.

All’offesa si è aggiunta la disinformazione voluta per ragioni politiche anche dai Governi Italiani, almeno sino a tutto il Novecento. Infatti, soltanto con la Legge 30 marzo 2004 numero 92 istitutiva del Ricordo[4] si è cominciato a diradare la consistente cortina di silenzio che ha gravato per tanto tempo sulle vicende del confine orientale. Ritrosie e giustificazionismi, se non anche più radicali negazionismi, sono sempre all’ordine del giorno, alimentando un paralogismo secondo cui i Caduti Italiani, pur avendo diritto alla normale «pietas» nei confronti di tutti i Morti, scontano iniquità fasciste che sarebbero state largamente prevalenti sul fronte jugoslavo.

In effetti, alla stregua di quanto è stato evidenziato in sede storiografica, in occasione delle trattative per la pace buona parte dei Paesi vincitori chiese la consegna di un numero simbolico di «criminali» mentre Belgrado fece analoga richiesta per parecchie centinaia, alimentando la presunzione che, scartata la surreale ipotesi di averli destinati pressoché integralmente alla Jugoslavia, si trattasse di una prassi puramente strumentale che peraltro fu disattesa da parte italiana.

Un esempio particolarmente importante della «vis persecutoria» nei confronti della popolazione italiana, tanto da potersi assumere a esempio riassuntivo, è quello della strage di Vergarolla (Pola) del 18 agosto 1946, che ebbe luogo, addirittura, a sedici mesi dalla fine della guerra. Non a caso, fu un eccidio dalle dimensioni massime fra tutti quelli occorsi in Italia durante i periodi di pace del Novecento: oltre a 200 feriti si contarono 110 Caduti, di cui solo 64 ebbero modo di essere identificati e riconosciuti, perché la deflagrazione di dieci tonnellate di esplosivo contenute in una trentina di bombe scoppiate simultaneamente non permise l’identificazione di tutte le Vittime. In maggioranza si trattava di donne e bambini giacché la strage fu compiuta sulla spiaggia omonima in giorno festivo durante una manifestazione natatoria della Società «Pietas Julia».

Pola, con gli Accordi provvisori del giugno 1945, era stata attribuita al Governo Militare Alleato quale «enclave» in un territorio circostante, affidato integralmente ad analoga Amministrazione Jugoslava, e proprio per questo si era confidato di poterla salvare dal conferimento conclusivo alla Repubblica Federativa. Poi, gli orientamenti dei «Quattro Grandi» furono diversi, ma per evitare ogni possibile discrasia fu scelta da una mano assassina la scorciatoia dell’attentato, che a Pola convinse quasi tutti gli abitanti circa la necessità dell’esodo, compiuto attraverso i tristemente celebri viaggi del piroscafo Toscana per Ancona e Venezia, conclusi entro il marzo 1947 con la partenza di oltre 30.000 cittadini esuli, mentre quelli che rimasero non superarono il 7%.

Dopo tanti anni di pervicace silenzio, anche Vergarolla è diventata un momento importante di commemorazione e di riflessione per tutto il mondo esule e non solo, sia attraverso una memorialistica dal forte coinvolgimento emotivo fra cui la grande stele con i nomi di tutte le Vittime riconosciute, eretta nella Zona Sacra del colle triestino di San Giusto; sia con monografie di forte valore documentale tra cui quella quasi ciclopica di Paolo Radivo, uscita nel 2015 a cura de «L’Arena di Pola»; sia con riconoscimenti ufficiali promossi in sede politica, come quello che ebbe luogo alla Camera dei deputati nel 2014 quando l’Onorevole Marina Sereni, chiamata a presiedere la cerimonia commemorativa, dispose l’osservanza di un minuto di silenzio in commosso ricordo di quei Caduti innocenti[5].

In conclusione, bisogna dire che nonostante l’impegno manifestato nel nuovo millennio da una larga maggioranza delle forze politiche italiane, le ferite non sono ancora guarite: affermazione sempre valida, nonostante le riflessioni e gli aggiornamenti indotti dalla Legge del Ricordo. In proposito, basta citare la linea che ha presieduto all’incontro della «conciliazione» tenutosi nel 2020 presso la foiba di Basovizza tra il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo omologo sloveno Borut Pahor. Infatti, lo spirito di quell’incontro è stato contraddetto in tempo reale da chi, come l’intellettuale Boris Pahor (anch’egli sloveno e solo omonimo del Presidente) si è compiaciuto di dire che «le foibe sono state una balla»: oltre a tutto, avendo appena ricevuto la massima onorificenza della Repubblica Italiana.

Simili esternazioni sono inaccettabili, se non altro per il rispetto dovuto alle Vittime, iniziando da Norma Cossetto, ormai assurta a simbolo del grande martirio giuliano, istriano e dalmata, insignita dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, già dal 2006, con la Medaglia d’Oro al Merito Civile per il nobile comportamento che seppe mantenere davanti ai suoi aguzzini[6]. Ciò, senza dire delle oltre cento intitolazioni toponomastiche «ad honorem» che nel frattempo sono state disposte per Norma da altrettante Amministrazioni comunali italiane, in genere con voti unanimi.

Certamente non dovrebbe essere tempo, ancora oggi, di qualche «pamphlet» oggettivamente surreale come quello proposto da Erich Gobetti in tema di foibe con inaccettabili «distinguo» tra il momento dell’esecuzione e quello della precipitazione nella voragine, da ricondurre alla causa di precedenti angherie fasciste.

Conviene aggiungere, invece, che il grande poeta gradese Biagio Marin aveva affermato in tempi ormai lontani, con un’acuta riflessione, che «nella vita bisogna saper aspettare». Al riguardo, citava l’esempio dei Cimiteri, con particolare riferimento a quelli giuliani, istriani e dalmati, dove si continua ad attendere, nella consapevolezza che anche «i confini dipendono dal valore e dall’impegno dei popoli».

Ciò significa che nelle «complesse vicende del confine orientale» di cui al preambolo della Legge istitutiva del Ricordo il futuro rimane aperto a qualsiasi ipotesi, a patto che si sappia conservare la memoria, emendandola da ogni menzognero paralogismo, ma prima ancora, onorandola con pensiero, speranza e fede.


Note

1 Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Introduzione, Sansoni, Firenze 1951. Si tratta, secondo la chiosa dl Attilio Momigliano, di un «arguto travestimento secentesco» del periodo storico in cui è ambientata la vicenda, dove storia e tempo «sono concepiti come personaggi» dando vita a un’ingegnosa quanto ardua metafora. Appare inutile aggiungere che dal punto di vista manzoniano, fedelmente cattolico, la «guerra contro il tempo» è la sola degna di essere combattuta: a più forte ragione oggi, dopo che la Costituzione italiana ha affermato di ripudiarla come strumento di soluzione delle controversie istituzionali. Ciò prescinde dal fatto che in altri tempi la guerra sia stata considerata un «valore» di segno positivo, se non altro per la sua idoneità a promuovere l’eroismo, sia pure di pochi: ecco un fattore atto a dimostrare quanto possa essere rapida la mutazione del «Volksgeist» prevalente.

2 «The paths of glory lead but to the grave» (The Golden Treasury, Songs and Lyrical Poems, Thomas Nelson & Sons Ltd., Edinburgh 1958, pagina 352). Thomas Gray (1716-1771) fu importante esponente del preromanticismo e massimo interprete della poesia «cimiteriale» inglese, esaltando il principio secondo cui è soltanto davanti alla morte che si realizza l’uguaglianza. La sua Elegia scritta in un cimitero di campagna da cui è tratto il verso in riferimento, è considerata il capolavoro del poeta: non a caso fu adottata dal regista Stanley Kubrick quale sottotitolo del film Orizzonti di gloria in tema di giustizia militare.

3 Un segnale importante delle attenzioni riservate alla grande tragedia giuliana, istriana e dalmata, sia nel momento scientifico, sia nelle testimonianze, è proprio quello offerto dalla bibliografia in materia, ormai pressoché sterminata. Al riguardo, un compendio esauriente di lungo periodo, dall’epoca precristiana fino ai nostri giorni, è quello di Carlo Cesare Montani, Venezia Giulia Istria Dalmazia: Pensiero e vita morale – Tremila anni di storia, Aviani & Aviani, Udine 2021, 410 pagine (insignito del «Premio Firenze» 2021). In chiave divulgativa, con particolare riguardo agli eventi del «secolo breve» e al dramma delle foibe e degli altri massacri un testo di riferimento è sempre quello di Padre Flaminio Rocchi, L’Esodo dei 350.000 Giuliani Fiumani e Dalmati, Difesa Adriatica, Roma 1999, 718 pagine.

4 La legge in questione fu approvata dal Parlamento Italiano dopo un «iter» lungo e complesso con un voto sostanzialmente unanime: soltanto alla Camera si contarono 15 voti contrari da parte di altrettanti deputati dell’Estrema Sinistra mentre al Senato non si ebbero dissensi. Se non altro fu la dimostrazione di un impegno, lungamente atteso, per l’acquisizione di una memoria politicamente condivisa.

5 Un cippo marmoreo in memoria dei Caduti di Vergarolla è stato installato per iniziativa del Comune anche a Pola, presso la Cattedrale, con l’indicazione della data in cui avvenne la strage.

6 Il caso di Norma Cossetto è davvero esemplare, nonostante la proliferazione della memorialistica in onore della Martire, ivi compresa la laurea «honoris causa» conferita a Padova sin dal 1949 con apposita citazione nella grande lapide in ricordo di tutti gli studenti dell’Ateneo patavino caduti per la libertà. Non sono mancate, in effetti, alcune voci dissonanti, sia pure largamente minoritarie, come quella espressa a Reggio Emilia nonostante l’approvazione della delibera municipale. Ciò, alla luce di un presunto quanto fantomatico impegno fascista di Norma, e di quello effettivo del padre Giuseppe che era stato federale di Santa Domenica di Visinada, ma interpretando l’incarico non tanto quale alto funzionario di partito quanto come benefattore della comunità locale, compresa quella slava; e ciò nondimeno, infoibato come la figlia e come altri familiari (sull’argomento esistono ampie testimonianze, in specie della sorella Licia Cossetto Tarantola). Sta di fatto che Norma è diventata, non a caso, il simbolo dell’immenso Olocausto giuliano, istriano e dalmata, non solo per la terribile fine, peraltro simile a quella di tante altre Vittime, quanto per la particolare efferatezza delle violenze subite, per il categorico rifiuto di collaborare con gli assassini e per gli onori postumi che le sono stati conseguentemente tributati, dalla laurea «ad honorem» alla Medaglia d’Oro al Merito Civile.

(marzo 2022)

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