Ricordiamo i crimini contro l’umanità nell’Est Europeo
Un memento necessario

È passato esattamente mezzo secolo da quando si tenne al Cairo la seconda Conferenza internazionale dei cosiddetti «non allineati» che fece seguito a quella di Belgrado del 1961, portando a quarantasette il numero complessivo degli Stati aderenti, tra cui la Jugoslavia, Paese fondatore ed unico membro europeo dell’epoca. Il movimento, che aveva tra gli scopi fondamentali lo sviluppo del «terzo mondo» conseguente alla fagocitazione del colonialismo, e la cui effettiva incidenza politica sarebbe stata compromessa dall’uscita della Cina, ma soprattutto dalla crisi del socialismo, ebbe un supporto efficace, anche se decisamente labile sul piano etico e politico, nell’ambizione personale del Maresciallo Tito che ne fu l’esponente più visibile assieme ai leader dell’Egitto e dell’India.

Peccato che, più o meno contestualmente, il Tribunale di Lubiana avesse inflitto quattordici anni di carcere duro ad un patriota sloveno, Antonio Kregar, accusato di «organizzazione clandestina allo scopo di rovesciare il regime», comminando pene non dissimili ad altri oppositori del regime titino. Nello stesso tempo si ebbe a registrare, fra le tante vessazioni imposte dall’autogestione, l’ennesimo sequestro di un peschereccio italiano da parte jugoslava, senza che venissero sollevate proteste apprezzabili, mentre la stampa del bel Paese si limitava a prendere atto della «china poco rassicurante» assunta dagli eventi a fronte della «cedevolezza» di Roma. Né valeva confidare troppo nella recente istituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia (1963), come gli eventi successivi avrebbero largamente dimostrato: basti citare l’iniquo trattato di Osimo del 1975, che l’Italia avrebbe firmato a tutto vantaggio della Jugoslavia ignorando – fra l’altro – l’impegno a chiedere il parere sia pure consultivo della Regione medesima.

Intendiamoci: quanto accadeva in Jugoslavia non era un fatto isolato (anche se contraddiceva vistosamente gli auspici pacifisti dei non allineati) ma trovava significative iterazioni in altri Paesi dell’Est Europeo. Non a caso, quasi all’unisono con la citata sentenza di Lubiana, e con la persecuzione ai danni dei primi intellettuali dissidenti (tra cui il poeta Mirko Vidovich che, sebbene naturalizzato francese, sarebbe stato condannato ad una lunga pena detentiva per avere scritto versi critici nei confronti di Tito), la Corte Suprema della Germania Orientale ebbe a confermare la condanna all’ergastolo pronunciata a carico del giovane Harry Seidel, reo di un grave delitto: quello di avere favorito la fuga della sua mamma scavando un tunnel sotto il Muro di Berlino. Nel frattempo, i dirigenti del Partito Comunista Polacco aggravavano le misure sanzionatorie già in atto contro la Chiesa Cattolica, provocando la vibrante protesta del Cardinale Wyszynski contro le ulteriori limitazioni alla libertà religiosa.

L’elenco potrebbe continuare, ma ciò che preme porre in evidenza, affinché gli ignari apprendano e tutti gli altri vogliano ricordare consapevolmente, è il carattere assolutista del verbo propugnato dalle cosiddette democrazie popolari, ed in quanto tale, inconciliabile con i valori tradizionali della civiltà occidentale, o meglio cristiana. Gli episodi appena ricordati, accaduti quando erano già trascorsi circa vent’anni dalla conquista comunista del potere, non sono paragonabili «in toto» con le tragiche efferatezze dei campi di prigionia e delle foibe, ma sono ugualmente importanti per sottolineare come nell’Europa Orientale fosse statuita una coriacea e durevole impossibilità di qualsiasi dissenso.

Del resto, persino nella Jugoslavia degli anni Ottanta, ormai orfana di Tito ma non ancora del suo sistema di governo, sarebbe accaduto che un pescatore italiano, Bruno Zerbin, venisse ucciso nel golfo di Trieste da colpi di fucile sparati ad opera di una motovedetta slava; che oppositori del regime come Radomir Radovic morissero sotto le torture della polizia politica; che una figura di spicco della «guerra patriottica» come Ljubiscia Veselinovic scegliesse di suicidarsi in segno di protesta contro le degenerazioni e la corruzione del sistema; e persino che un sacerdote cattolico venisse condannato per «avere dato alle stampe una preghiera».

Oggi, a cinquant’anni di distanza dai fatti del 1964, ed a trenta da quelli attribuibili al comunismo del decennio «dopo Tito», la negazione dei diritti fondamentali in ambito europeo, tuttora pervicace ad altre latitudini e longitudini con buona pace dei non allineati e di quanto resta del loro movimento, sì è finalmente affievolita, ma non mancano sacche di resistenza, se non anche di esaltazione sia pure minoritaria dei principi che avevano presieduto a quelle decisioni oggettivamente aberranti.

È un buon motivo in più, nell’attuale stagione di soverchie concessioni al relativismo, al consumismo ed alla negazione dei fondamenti cristiani in cui si riconoscono i popoli del Vecchio Continente, per stringersi in difesa dei valori non negoziabili: in primo luogo, della vita, della civiltà e della giustizia cooperatrice, all’insegna di un’organizzazione statuale finalmente etica.

(ottobre 2014)

Tag: Carlo Cesare Montani, Novecento, Europa, Europa Orientale, Est Europeo, crimini contro l'umanità, comunismo, Paesi non allineati, Jugoslavia, Cina, Maresciallo Tito, Egitto, India, Tribunale di Lubiana, Antonio Kregar, Roma, Italia, Friuli-Venezia Giulia, trattato di Osimo, Mirko Vidovich, Harry Seidel, Germania Orientale, Muro di Berlino, Polonia, Partito Comunista Polacco, Chiesa Cattolica, democrazia popolare, Cardinale Wyszynski, foibe, Bruno Zerbin, Belgrado, Radomir Radovic, Ljubiscia Veselinovic.