Esodi, migrazioni e questioni etiche
La tragedia degli esodi dopo la Seconda Guerra Mondiale nel pensiero di James Burnham

Una lezione della storia che non è stata mai compresa bene nelle sue complesse matrici è quella che si riferisce alla continuità plurimillenaria dei movimenti migratori, ed alle anabasi generalmente dolorose da cui sono stati caratterizzati. Nonostante la ricorrenza del fenomeno sin dalle più lontane antichità, non c’è dubbio che esso abbia avuto un’accelerazione straordinaria nel corso del Novecento, con particolare riguardo agli effetti della Seconda Guerra Mondiale sul piano degli Esodi di massa, soprattutto in Europa ed in Asia.

Al riguardo, ricorrendo il trentesimo anniversario dalla scomparsa di James Burnham, è certamente utile una rilettura dei giudizi proposti in materia di migrazioni da questo filosofo e pensatore politico giunto a posizioni di anticomunismo intransigente pur essendo di formazione marxista e radicale[1]. Nella fattispecie, non è azzardato parlare di una vera e propria etica dell’esilio, nel senso che i profughi degli anni Quaranta non furono emigranti, ma appartennero a popoli perseguitati in nome di una dottrina negatrice dei valori fondamentali, e costretti a lasciare la propria terra, senza apprezzabili speranze[2]. Nell’ambito di tale interpretazione, Burnham pensava in primo luogo ai sedici milioni di esuli tedeschi, ma secondo logica l’assunto si deve estendere ai Finlandesi, ai Giuliano-Dalmati ed a tutte le popolazioni dell’Europa Orientale che subirono analoghe sorti e vessazioni, senza dire delle grandi fughe di Cinesi, Coreani, Cambogiani, Vietnamiti ed altre genti asiatiche verso una libertà intesa soprattutto come salvezza fisica.

I profughi, nel giudizio di Burnham, costituirono per anni un problema non indifferente per i Governi interessati, anzitutto dal punto di vista dei costi per una pur misera accoglienza: soltanto in un secondo momento si comprese che avrebbero potuto costituire «una promessa ed una possibilità». Dopo tutto, il fatto che avessero scelto di esodare dimostra senza ombra di dubbio che avevano «preso sul serio» una scelta di campo necessaria ma meditata, alla luce dei valori umani e civili in cui si erano sempre riconosciuti; in altri termini, non avevano abbandonato i propri Paesi, come qualche vulgata continua ad insinuare, ma erano stati costretti a lasciarli per non essere vittime di un nuovo genocidio (del resto, è noto che molti di loro persero la vita ad opera degli invasori o delle drammatiche vicissitudini della diaspora).

Alcuni, continua Burnham, sono stati assorbiti progressivamente dai luoghi di destinazione, per effetto delle diversità di usi, consuetudini e della stessa lingua, mentre altri si sono «battuti con tenacia» anche contro gli «intrighi da caffè» di cui fu protagonista il momento politico, talvolta d’intesa con la loro stessa dirigenza: un quadro che sembra disegnato su misura per quanto avvenne anche in Italia, sia attraverso un’accoglienza che definire matrigna è comunque eufemistico, sia attraverso il pluridecennale silenzio delle Istituzioni su quella tragedia volutamente rimossa dalla coscienza collettiva. Burnham pensa in maniera specifica alla vicenda del confine orientale italiano quando accenna alla «confusione» indotta dalla dissidenza di Tito, e coglie nel segno quando afferma che in ogni caso «i migliori rimarranno esuli» e che i loro cuori «continueranno a battere» per una pur lontana ipotesi di vittoria senza adattarsi compiutamente «ad un nuovo focolare in una nuova terra»[3].

James Burnham non ha fatto in tempo a vedere con i propri occhi la disfatta «inevitabile» del comunismo, con riguardo prioritario ai grandi rivolgimenti dell’Ottantanove, ed a quanto è seguito, anche in termini di attese deluse. Oggi, si può dire che aveva vaticinato correttamente lo sfascio del sistema bolscevico quando sembrava ancora fondato su basi davvero granitiche, mentre fu sostanzialmente utopista nel presumere che sarebbe stato sostituito da una democrazia dei valori, e non certo da quella di consumismo, edonismo e corruzione dilagante, se non anche del nichilismo.

In questo senso, la rilettura della sua opera induce una sostanziale amarezza, anche se può costituire lo spunto per un rinnovato impegno nella lotta contro una nuova forma di materialismo, senza dubbio «soft» rispetto a quella marxista-leninista, ma altrettanto drammatica negli effetti socio-economici, visto che le migrazioni di massa hanno ripreso a proliferare senza posa: non da ultimo, anche a causa delle carenze di una vera cooperazione internazionale, dato che gran parte dei Paesi sviluppati risulta inadempiente nei confronti degli impegni da sé stessa sottoscritti circa la destinazione al Terzo Mondo di quote sia pure marginali del rispettivo prodotto interno lordo. A tale riguardo, basti ricordare che le intese raggiunte nella Conferenza Internazionale di Monterrey (2002) per il finanziamento dello sviluppo e la riduzione della povertà nei Paesi terzi sono rimaste in larga misura sulla carta.

Non basta. L’amarezza diventa a più forte ragione stringente quando si pensi che le migrazioni attuali, con tutto il rispetto per le vicende umane dei popoli interessati, non sono in grado di fondarsi sulla condivisione dei presupposti etici che avevano animato i grandi esodi del secondo dopoguerra, e che videro nei profughi dell’epoca i protagonisti di un indefesso impegno umano e civile obiettivamente riconosciuto, anche se le accoglienze, come si diceva, in diversi casi furono tutt’altro che ottimali. Anzi, nel caso degli esuli europei, ed in particolare di quelli italiani da Venezia Giulia e Dalmazia, ma anche dall’Africa e dalle Isole dell’Egeo, le loro consolidate tradizioni cristiane di pazienza civile e di esemplare forza d’animo sono diventate un modello di sicuro riferimento che resta a dimostrare, se non altro, il livello etico del loro patriottismo e di un profondo senso dello stato.


Note

1 James Burnham (Chicago, 22 novembre 1905 – Kent/Connecticut, 28 luglio 1987) appartenne ad una famiglia di immigrati inglesi e dopo un brillante percorso accademico culminato nella laurea all’Università di Princeton, fu professore di filosofia a New York sin dal 1929. Attivista radicale e massimo esponente del trotzkismo statunitense, poi marxista, si convinse presto del «giovenile» errore per convertirsi al pensiero conservatore e schierarsi decisamente a destra, interpretando l’esperienza dell’Unione Sovietica alla stregua di una nuova forma di imperialismo: la dottrina socialista non è la sola alternativa al capitalismo, ma quest’ultimo ha il dovere di assumere un volto umano e di agire in conseguenza. Nel 1941 raggiunse i vertici del successo con The Managerial Revolution che fu inserito da «Life» fra le prime cento opere dell’ultimo ventennio, e venne chiamato ad operare nelle strutture dell’Office of Strategic Services, la futura CIA. Dopo la guerra, il suo impegno anticomunista andò ulteriormente consolidandosi, fino al punto da auspicare una Federazione Mondiale guidata dagli Stati Uniti, all’insegna dell’idea manageriale come espressione di un nuovo «Dealism». Dal Presidente Ronald Reagan ebbe un riconoscimento prestigioso quando gli venne conferita la «Medal of Freedom». Tra le tante opere, si debbono segnalare The Machiavellians (1943): sulla scorta di Pareto, Mosca e Michels, vi emerge la tesi secondo cui la nuova «èlite» politica sarà tanto più efficace in quanto aperta ai principi della democrazia; Suicide of the West (1964), improntato ad una vibrante critica del liberalismo e delle sue contraddizioni, e nello stesso tempo ad una forte difesa dei valori tradizionali in chiave anticomunista; The coming defeat of Communism (tradotto anche in italiano nel 1953), dove si afferma che i popoli non sono responsabili delle opzioni comuniste proposte dai vertici politici.

2 Confronta James Burnham, L’inevitabile disfatta del comunismo, Mondadori Editore, Verona 1953, pagine 236-250. L’assunto di fondo, anche attraverso le possibili sinergie tra movimenti esuli e forze di liberazione umana, ancor prima che politica, è quello di una palingenesi civile e sociale, conforme agli stessi auspici della Chiesa Cattolica: citazione tanto più significativa, in quanto Burnham era agnostico.

3 James Burnham, L’inevitabile disfatta del comunismo, Mondadori Editore, Verona 1953, pagina 248. Le diagnosi di Burnham sono significativamente pertinenti anche in un contesto impegnativo come l’interpretazione della psicologia esule: pur non essendo possibile generalizzare a proposito di comportamenti sostanzialmente individuali, l’esperienza dimostra che nel mondo della diaspora, come altrove, esiste una quota di opzioni propense a perseguire il «particulare» di guicciardiniana memoria, se non anche ad appiattirsi in un’ottica di sostanziale rassegnazione, mentre altre sono consapevoli della necessità di «tenere alta la bandiera» e di non lasciare alcunché d’intentato perché il buon seme possa germogliare.

(luglio 2017)

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