Occidente ed ex Jugoslavia
Una cooperazione a fondo totalmente perduto

È passato un terzo di secolo dalla morte di Tito, che nel maggio del 1980 parve aprire una nuova epoca nelle relazioni jugoslave con l’Occidente e nello sviluppo di una cooperazione che aveva trovato momenti di grande visibilità nel movimento dei «non allineati» e nelle frequenti visite di Stato rese a Belgrado dai leader di tutto il mondo, spesso col supporto di cospicui flussi finanziari. Tutti, a cominciare dalle grandi Potenze, avevano confidato nel funambolismo politico del vecchio Maresciallo, che aveva avuto un lontano inizio nella rottura del 1948 con Mosca per giungere ad un vero e proprio capolavoro tattico con l’aggregazione di 44 Paesi guidati dalla Jugoslavia – unico Stato europeo del gruppo – in quel suggestivo coacervo del Terzo Mondo che affermava di propugnare l’affrancamento dei popoli oppressi.

L’Occidente aveva sperato che l’unione dei «non allineati» potesse costituire un fatto nuovo, idoneo ad aprire nuovi orizzonti ed a stemperare la guerra fredda con l’Unione Sovietica e le democrazie popolari, ma gli effetti più visibili furono le soddisfazioni dell’incessante ambizione personale di Tito e le continue iniezioni di mezzi finanziari nell’economia jugoslava, sebbene già votata al disastro. Con la scomparsa del satrapo di Belgrado le cose non cambiarono, nonostante le rinnovate illusioni occidentali: anzi, nel decennio intercorso fra la morte di Tito e la caduta del Muro di Berlino le trasferte in Jugoslavia si moltiplicarono e con esse ebbero rinnovato impulso i flussi di denaro fresco in favore della sua economia, pur caratterizzata, all’epoca, dal tasso d’inflazione più alto d’Europa.

I Grandi della Terra, prontamente imitati da altri Capi di Stato, offrirono amicizia e servigi, a cominciare dal Presidente Statunitense Jimmy Carter e dal premier francese Raymond Barre che furono i più solleciti, seguiti a breve distanza dal leader libico Muammar Gheddafi, da quello greco Andreas Papandreu, dal Presidente Egiziano Mubarak, e più tardi, dal Cinese Li Xian Nian. In seguito, si distinsero nella lista delle visite a Belgrado statisti del calibro di François Mitterrand e di Helmut Kohl, ma anche gli Italiani non furono da meno, a cominciare da Sandro Pertini e da Emilio Colombo, per non dire di Giovanni Goria, il cui Governo elargì, all’inizio del 1988, un contributo «gratuito» pari a 500 miliardi di lire, che faceva seguito al rifinanziamento dell’impegno tedesco verso la Jugoslavia ed all’apertura di una nuova linea di credito europeo, per il tramite della BEI, nell’ordine dei 660 milioni di dollari.

A proposito dell’Italia, vale la pena di ricordare che il Governo di Bettino Craxi volle definire la Repubblica Federativa quale «partner di assoluta preferenza» confermando tale opzione, in particolare, quando fece in modo che trovasse rifugio proprio a Belgrado un terrorista di prima grandezza come Abul Abbas, mente dell’attacco al transatlantico Achille Lauro.

Tali aperture facevano passare in seconda linea la sostanziale continuità della politica jugoslava con quella già perseguita da Tito: nessuno mosse un dito quando vennero condannati a lunghe pene detentive per reati d’opinione Gojko Dogo (colpevole di avere criticato il defunto Maresciallo), i «tredici» di Sarajevo (imputati per avere denunciato l’ateismo ed il materialismo di Stato), i «sei» di Belgrado (accusati di azione antisocialista), il gruppo di «Mladina» (perseguito per presunte attività sovversive) e Thomas Mastnik (che aveva protestato contro le repressioni programmate dal Governo di Branko Mikulic con ricorso alla tortura). Del pari, nessuno avrebbe protestato nemmeno nel 1986, quando il pescatore italiano Bruno Zerbin venne ucciso nel Golfo di Trieste dalle raffiche di mitra sparate da una motovedetta slava nel corso della «guerra del pesce». Né vennero sollevate eccezioni di sorta nel 1987, quando il grande scandalo da cui venne investita Agrokomerc, l’Azienda di Stato del comparto agricolo, parve travolgere definitivamente il sistema dell’autogestione, tanto da indurre al suicidio, in segno di protesta per la clamorosa vergogna, qualche eroe della «grande guerra patriottica» contro le forze dell’Asse, come il vecchio Ljubiscia Veselinovic.

È proprio il caso di dire che la cooperazione con la Jugoslavia fu un esempio emblematico di erogazioni a fondo perduto, non solo nell’epoca di Tito, ma a più forte ragione, nell’ultimo decennio di vita della Repubblica Federativa, quando i segnali di sfascio si andarono rapidamente moltiplicando fino a provocare secessioni come quelle di Croazia e Slovenia, che tra l’altro – non è male ricordarlo – vennero ratificate con maggioranze «bulgare» dalle apposite consultazioni popolari, quasi a sottolineare che il vecchio edificio era caduto come un castello di carte mettendo in evidenza la vera realtà storica: quella di un forte nazionalcomunismo, che del resto si era potuto manifestare chiaramente sin dai primordi, supportato da una diffusa ed occhiuta organizzazione poliziesca.

Non a caso, una volta consolidate le istituzioni statuali sorte sulle ceneri della vecchia Jugoslavia, il nuovo corso avrebbe dato prove scioviniste significative, tra cui si possono citare, a titolo di esempi, l’uso reiterato dello scalpello contro i segni della presenza veneta od italiana in Istria e Dalmazia; l’attentato al sacrario istriano di Cava Cise in memoria di ventiquattro caduti massacrati dai partigiani comunisti; i festeggiamenti di Albona per la ricorrenza dell’effimera «Repubblica rossa» costituita nella primavera del 1921 sotto l’egida di Giuseppina Martinuzzi; la grande adunata nostalgica di Kumrovec per onorare Tito quale «padre della patria»; ed infine, l’incidente diplomatico fra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ed il suo omologo croato Stipe Mesic sulla questione delle foibe e delle violenze a danno degli Italiani, per non dire dell’ostracismo sloveno a quegli Esuli Istriani, opportunamente autorizzati, che avrebbero voluto deporre un fiore e recitare una preghiera sui luoghi dell’eccidio.

Nel frattempo, in Italia si era dichiarato il «non luogo a procedere» nei confronti di Ivan Motika, Oskar Piskulic, Avianka Margetic ed altri assassini, mentre negli ambienti dell’estrema Sinistra si continuava a parlare degli infoibamenti alla stregua di un mito propagandistico, od al massimo, di una motivata reazione alle cosiddette violenze «fasciste» che secondo alcuni ex parlamentari di Rifondazione come gli onorevoli Malabarba e Pagliarulo avrebbero causato, vicende militari a parte, oltre centomila vittime (in realtà, nel ventennio compreso fra il 1922 ed il 1941 le condanne capitali pronunciate a carico di terroristi slavi da parte del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato si erano contate sulle dita di una mano, essendosi limitate a quelle contro Vladimir Gortan ed i «quattro» di Basovizza).

La storia corre in fretta: oggi, Slovenia e Croazia fanno parte della «Casa comune europea», almeno a parole con grande soddisfazione del mondo economico, interessato a congrui affari soprattutto nell’attività costruttiva e nell’interscambio. Tuttavia, anche se la storia, diversamente da quanto fu sostenuto, non serve ad evitare gli errori del passato, spesso pervicacemente ripetuti, è bene fare una valutazione oggettiva della realtà, con particolare riguardo a quella di una Slovenia che per evitare i rischi di «default» deve chiudere diverse Ambasciate e mettere in vendita importanti risorse storico-culturali; ovvero, di una Croazia le cui condizioni, con la sola apprezzabile eccezione del turismo, presentano notevoli affinità con quelle degli anni Ottanta, obiettivamente disastrose, sottolineando con chiarezza come le nuove iniziative cooperatrici eventualmente realizzabili debbano essere attentamente calibrate e valutate, senza indulgere ad un’euforia aprioristica quanto meno immotivata.

Giovanni Sartori, nella sua finezza di politologo, si è compiaciuto di affermare che «la sola esperienza che dà l’esperienza, è che l’esperienza non dà alcuna esperienza». Nel caso di specie, farne tesoro sarebbe ancora poco, ma sempre meglio che nulla.

(marzo 2014)

Tag: Carlo Cesare Montani, Europa, Occidente Jugoslavia, Italia, Slovenia, Croazia, Tito, Belgrado, Unione Sovietica, Jimmy Carter, Raymond Barre, Muammar Gheddafi, Andreas Papandreu, Mubarak, Li Xian Nian, François Mitterrand, Helmut Kohl, Sandro Pertini, Emilio Colombo, Giovanni Goria, Bettino Craxi, Abul Abbas, Gojko Dogo, Mladina, Thomas Mastnik, Branko Mikulic, Bruno Zerbin, Agrokomerc, Ljubiscia Veselinovic, Repubblica Federativa, Istria, Dalmazia, Cava Cise, Albona, Giuseppina Martinuzzi, Kumrovec, Giorgio Napolitano, Stipe Mesic, foibe, esuli istriani, Ivan Motika, Oskar Piskulic, Avianka Margetic, Vladimir Gortan, Giovanni Sartori.