Gli Imperatori della famiglia Flavia
Lo Stato romano impegnato nella lotta al fondamentalismo di tipo orientale

L’inizio del regno di Vespasiano fu caratterizzato dalla spaventosa rivolta dei Giudei. Questo popolo, il popolo dell’antichità che conservò più tenacemente e più a lungo l’originalità della sua religione e dei suoi costumi, il popolo più grande dell’Asia sotto il profilo morale, aveva creduto di realizzare le promesse della Scrittura. Quel Messia vittorioso che essi attendevano e che non avevano voluto riconoscere in Cristo, fu identificato in un impostore d’Egitto in cui videro il loro liberatore. Ben presto Gerusalemme divenne preda della più spaventosa anarchia. La città, capace di contenere 80.000 abitanti, ne comprendeva allora 100.000. È noto che secondo la legge di Mosè, tutto il popolo, benché disperso, abitava di diritto nella città e che ogni Giudeo doveva visitare, almeno una volta l’anno, la città santa. Forse, in quel crepuscolo della patria e del Tempio, si radunarono tutti a Gerusalemme.

Allora esplosero con furore tutte le opinioni, tutti i partiti che li dividevano. Se qualcosa può dare l’idea dell’Inferno, e di un Inferno ben più terribile di quello di Dante, è la situazione di Gerusalemme in questo momento. Durante il giorno i Giudei in preda ad un’ondata di fanatismo combattevano contro i Romani, di notte si battevano con accanimento fra di loro. All’interno della città, fortificazioni separavano i vari partiti. Ed era un susseguirsi d’assalti, dall’interno e dall’esterno.

Tito, figlio di Vespasiano, aveva il comando della guerra e, grazie alla disciplina romana e alla facoltà di reclutare incessantemente uomini, la faceva a colpo sicuro. Egli aveva circondato la città con una circonvallazione e poco mancava che gli assediati perissero per fame. Dopo aver offerto loro condizioni di resa che furono respinte con indomito coraggio, i Romani si videro costretti a conquistare Gerusalemme d’assalto. Tito aveva ordinato di risparmiare il Tempio, dove si erano rifugiati 6.000 abitanti, un po’ per umanità, un po’ per una sorta di rispetto alla religione dei vinti. Ma un soldato, inavvertitamente o ignorando gli ordini del principe, vi lanciò una torcia e il Tempio fu distrutto.

Ma la Giudea aveva dato il suo frutto, il Cristianesimo. Il Cristianesimo, il cui primo germe era nato in Giudea, aveva forato il suo guscio. Questo guscio poteva ormai essere distrutto, e lo fu ad opera di Roma che poté stabilire, dall’Eufrate a Cadice, quella universalità della lingua e del diritto che costituiva la sua missione nell’umanità.

Dopo Vespasiano regnò Tito, compagno d’orgia di Nerone, giovane violento, di cui tutti temevano l’ascesa al trono. Lo si era visto alla tavola del padre pugnalare con le proprie mani un uomo sospettato di cospirare contro l’Imperatore. Egli regnò due anni e morì col nome di «delizia del genere umano». Ma si osservi che anche Nerone, se avesse imperato due anni solo, sarebbe stato un Tito. Vi era in questo principe una grande malleabilità d’animo e quella simpatia rapida che viene detta bontà, ma che non si dovrebbe proprio chiamare così. Un giorno, contemplando il popolo romano, radunato nell’anfiteatro e riflettendo sulla felicità passeggera di cui il popolo godeva, versò delle lacrime, come se ne avesse previsto prossima la fine.

Un’altra volta ad alcuni senatori che avevano cospirato contro di lui, rivolse queste parole: «Sventurati, non sapete dunque che è la fatalità che crea i principi», «fato fieri principes».

Questa frase vale come commento ad un pensiero di Tacito: «Gli dèi non pensano a noi, o se ci pensano, è solo per punirci».

Tito aveva un giovane fratello, Domiziano, di cui egli aveva sedotto la moglie. O per vendetta, o per ambizione, fu avvelenato dal fratello… Venne ricondotto morente a Roma, dove spirò appena giunto. I senatori, che erano rimasti meravigliati della straordinaria mitezza del suo governo, si riunirono alle porte della Curia e votarono a Tito, dice lo storico, più ringraziamenti ed onori di quanti non gliene avessero rivolti in vita.

Forse si è incorsi in qualche esagerazione sul conto di Domiziano. Anzitutto la morte di Tito era una vendetta, e Tacito stesso ammette che Domiziano possedeva almeno le apparenze della virtù. Egli arrossiva per una parola. Questa delicatezza esteriore era forse accompagnata da qualche virtù morale. Comunque, quando le legioni innalzarono all’Impero il vecchio giureconsulto Nerva, Roma credette di aver riacquistato la libertà.

(giugno 2006)

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