Gli Imperatori Romani della famiglia Giulia
Verso uno Stato più autoritario e una società meno aristocratica

Dopo che la battaglia d’Azio e il valore di Agrippa ebbero consegnato nelle mani di Augusto il potere sul mondo, dopo che l’Oriente fu vinto in Antonio che ne aveva abbracciati gli interessi in un’epoca in cui l’Oriente non poteva trionfare, Augusto non diede alcuna forma nuova allo Stato. Egli non fece che proseguire con maggiore regolarità sulla via tracciata ormai da più di seicento anni.

In effetti, la Repubblica non era perita ad Azio. Da tempo essa non esisteva più. Il solo fatto nuovo fu che il principato, cui Mario e Silla avevano dato vita e la cui successione era stata assai irregolare attraverso le lotte di Lucullo, di Cesare, di Pompeo, divenne stabile sotto Augusto, e il complesso delle forze dell’Impero si trovò raccolto in una sola mano.

Ciò che costituisce l’importanza di questa epoca non è dunque la fondazione dell’Impero, ma il grande rivolgimento che si operò nella religione e nel diritto. Augusto divenne potente ostentando umiltà. Egli lasciò al Senato una parte del potere, affidandogli il governo delle province interne dell’Impero e prendendo per sé solo le zone di confine, i pericoli ma anche la gloria e la potenza. Egli rifiutò sempre il titolo di dittatore, divenuto sinistro dopo la morte di Cesare e si inginocchiò davanti al popolo, quando il popolo glielo attribuì per acclamazione.

Accettò il titolo di tribuno, per proteggere il popolo semplice. Non assunse il titolo di censore dei costumi, che era troppo venerando, ma solo quello di prefetto, di custode dei costumi.

Con questi accorgimenti la Repubblica parve sussistere ancora. Le arti di Augusto sono visibili in Svetonio; si avverte che Mecenate, principale strumento della sua politica, dovette influire grandemente sui costumi romani col suo esempio e con quella fama di spirito nobile e di uomo di gusto che egli aveva a Roma. Gli esercizi militari del Campo di Marte furono abbandonati; ci si accontentò del gioco della palla. Al posto delle riunioni pericolose dove la sera nel Foro si discutevano gli affari pubblici, si ritirò nella Biblioteca Palatina dove non si parlava ma si leggeva in silenzio.

«Scripta Palatinus quaecumque recepit Apollo». Il mondo era assetato di quiete e Virgilio poteva esaltare Augusto: cioè esaltare la pace che egli aveva arrecato.

Tralasciamo quelle lunghe scene di dissimulazione tra Tiberio e il Senato, così ben descritte da Tacito, allorché Tiberio rifiutava l’Impero e riceveva da ogni parte il giuramento delle legioni.

Tuttavia questo uomo così simulatore, così ipocrita, così spietato, era nello stesso tempo un abile generale, un grande giureconsulto e l’amico del più illustre giureconsulto dell’epoca.

Tiberio continua la grande scuola di giurisprudenza che s’inizia col decemviro Appio. Egli era uno spirito indifferente all’equità, ma ligio alla lettera della legge. Non si permise alcun crimine che non fosse autorizzato dalla legge, ma tutto ciò che la legge consentiva, egli lo fece.

Ma contro chi Tiberio si armò della legge? Non contro il popolo. L’Impero fu felice sotto Tiberio, fatta eccezione per Roma. Il principe era parsimonioso e, se non si seguirono le prodigalità folli di Caligola, si sarebbe benedetto il ricordo di un principe che governò saggiamente lo Stato e che non gli costò quasi nulla.

Tiberio si armò della legge contro l’aristocrazia che da due secoli aveva saccheggiato il mondo. Egli costrinse questi oppressori del genere umano a restituire l’osso e tolse loro tutti i beni mal acquistati. Ma i suoi metodi furono barbari e, d’altra parte, poiché tutta questa storia è stata tramandata dagli scritti di aristocratici romani, Svetonio, Tacito, Dione Cassio, gli Imperatori dovevano necessariamente esservi assai maltrattati. Bisogna ammettere però che questa oppressione dei grandi fu odiosa, e vi furono una quantità di episodi che suscitano orrore. Fatta questa riserva, il principio della condotta degli Imperatori non era irragionevole. L’istituzione dell’Impero era una rivoluzione popolare portata a termine per mano di un tribuno. L’Imperatore era un tribuno eletto per proteggere il popolo e, come tale, cominciò a colpire l’aristocrazia. È in generale la tendenza di tutti i giureconsulti che diedero a Roma quei diritti civili che ammiriamo ancor oggi, la tendenza all’uguaglianza, al rovesciamento degli antichi privilegi. Il diritto romano attinge la sua più alta perfezione sotto i tiranni. Papiniano visse sotto Caracalla, Ulpiano sotto Eliogabalo ed Alessandro Severo.

Gli Imperatori succedettero non ai consoli, ma ai tribuni. La reazione contro gli aristocratici fu atroce con Tiberio, severa ma meno barbara con Vespasiano, odiosa con Domiziano. All’epoca di Traiano e degli Antonimi, non c’era più nulla da fare: la rivoluzione era compiuta. Non vi erano più grandi fortune, non vi era motivo di contesa tra il Senato e l’Imperatore. Gli Imperatori poterono essere miti e clementi a loro piacimento. Il secolo precedente aveva ultimato l’opera della legalità.

Questo è il nodo dell’organizzazione dei primi tempi dell’Impero.

Claudio fu guidato, nella prima parte del suo regno, dalla triste Messalina, nella seconda dall’ambiziosa Agrippina, e in ogni tempo da liberti. Dopo tante sofferenze, dopo una così lunga sottomissione ai capricci dell’insolenza romana, gli schiavi regnarono a loro volta. Il governo degli schiavi sotto Claudio apparve al Senato come il colmo della vergogna. Ma è proprio sotto Claudio che venne decisa questa legge, la prima dell’antichità che fosse stipulata a favore degli schiavi: «È proibito ai padroni di abbandonare gli schiavi sull’isola del Tevere per lasciarveli morire di fame… l’Imperatore è il protettore degli schiavi».

Queste nobili parole riscattano molte cose.

Ritroviamo un’uguale liberalità di concezione nel modo con il quale Claudio trattò le province. Per primo egli aprì il Senato ai Galli. A Lione, una tavola conserva una parte del discorso che egli pronunciò sull’argomento. Così le province ebbero una parte di sovranità, così si cominciò a porre riparo alla vecchia ingiustizia di Roma. Questi due atti illustrano singolarmente il regno di Claudio. Montesquieu nella sua Grandezza e decadenza dei Romani dice intorno al regno di Claudio: «Negli ultimi due secoli della Repubblica, vi furono delle guerre civili per decidere chi avrebbe avuto il potere giudiziario, i cavalieri o il Senato. Sotto Claudio quel potere fu assegnato agli agenti del principe, ai suoi domestici, ai suoi procuratori». Montesquieu si stupisce che la volontà di un debole abbia dato a schiavi affrancati ciò che così a lungo i grandi di Roma si erano disputato. Non si tratta però di un provvedimento ridicolo e del quale ci si debba rattristare. È naturale che nel quadro di una reazione generale a favore del principio dell’uguaglianza civile, un nobile di Roma potesse a sua volta essere giudicato da quegli schiavi che aveva tanto disprezzati.

Nerone: accadde a questo giovane principe ciò che era accaduto a Caligola.

La potenza senza limiti, il vortice delle cose che a Roma passavano sotto i suoi occhi, l’infinita varietà, la facilità di variare incessantemente la propria esistenza con piaceri nuovi, infine la singolare situazione di aver l’Universo ai suoi piedi, tutto ciò sconvolse il suo spirito immaturo.

Così, il regno di Nerone non fu che una parodia dell’antichità: egli corse in Grecia a disputare le corone nei giochi olimpici; divenne attore, si fece auriga. Egli profanò ciò che aveva fin allora elevato la fantasia, gare atletiche, gare poetiche. È la fine dell’antichità. Sulla scorta di Tacito e Svetonio sono stati scritti i delitti di Nerone, quest’uomo che è rimasto come il simbolo della crudeltà e dell’infamia.

Per lunghi anni la sua tomba non mancò di fiori, e i liberti la ornarono tutti i giorni con ghirlande, ciò che prova come questi tiranni, qualunque ricordo abbiano lasciato di sé, si presentavano sempre al popolo minuto come difensori dell’umanità; le loro barbarie non avevano colpito che i signori. In effetti il male che essi causarono allo Stato non fu tanto la morte di alcune centinaia di persone quanto la spaventevole prodigalità con cui dilapidarono ciò che Tiberio aveva ammassato. Altro male ancora, i costumi privati così riprovevoli ad un livello così alto.

Per altro, questa storia ha bisogno di essere riesaminata. Il filo conduttore per seguirla è costituito dal progredire della legge civile.

Un Governo che dà delle buone leggi civili è sempre un buon Governo. La legge politica è raramente applicata, mentre la legge civile è di uso continuo. Essa è il tessuto stesso dell’esistenza. Così il Governo Imperiale è stato un immenso passo avanti per tutto l’Impero…

Quale differenza tra il tempo di Nerone e quello di Silla, quando venti tiranni saccheggiavano le province. Sotto l’Imperatore, i governatori delle province non osano predare; essi sanno che il principe li afferrerebbe a sua volta per strappar loro la preda. Essi sanno che sotto un uomo come Tiberio, la più oscura accusa, levatasi da un angolo della Grecia o della Macedonia, può colpire a morte il proconsole.

(anno 2005)

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