Il vetro nell’antica Roma
Un’arte poco conosciuta, ma assai raffinata

La magia del vetro arriva da lontano: pietra fatta dall’uomo, miscela di sabbia e fondenti per effetto del fuoco, gemma calda, rigido come cristallo, irregolare come liquido.

Al vetro nell’antica Roma è stata dedicata una mostra ad Albenga, in occasione del restauro dello storico Palazzo Oddo e del fortuito ritrovamento di un piatto in vetro blu: un pezzo unico, il più antico ed il più bello al mondo nel suo genere.


La fornace del vetraio

La ricostruzione di un’officina vetraria antica è possibile grazie ad una miniatura del Codice di Montecassino, derivata da un disegno del IV o V secolo dopo Cristo, che mostra un personaggio seduto su uno sgabello a tre gambe intento a soffiare un vaso. Il piano di lavoro è quello antistante l’imboccatura del forno, ma poteva essere costituito da una semplice lastra. È solo tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo che si passa allo scanno, sorta di panca munita di braccioli.

Nelle varie fasi della lavorazione del vetro si utilizzavano strumenti particolari, ancor oggi in uso, che permettono di manipolare sia la massa fusa che gli oggetti finiti. Essendo per lo più in materiali deperibili come il legno o riciclabili come il metallo, solo in rarissimi casi ce ne sono pervenute testimonianze archeologiche.

Lo strumento principale del vetraio soffiatore è la canna da soffio, il sottile tubo che concentra il passaggio dell’aria dalla bocca dell’operatore alla massa vetrosa.

Le raffigurazioni di vetrai al lavoro presenti sul disco di due lucerne a volute (da Ferrara e dalla Dalmazia), mostrano l’utilizzo di una canna da soffio alquanto corta, dal che si è potuto supporre che i primi esemplari di questo utensile fossero in terracotta, dato che il metallo avrebbe ustionato il soffiatore.

Per sostenere un vaso appena soffiato e poterlo rifinire prima di staccarlo dalla canna, è necessario l’utilizzo di un apposito strumento, il pontello. Si tratta di un’asta in metallo pieno che viene saldata al vaso con un piccolo grumo di vetro vischioso, successivamente staccato, del quale a volte rimane la traccia ad anello sul fondo dell’oggetto.

Fra gli utensili minuti, le pinze, che permettevano di modellare la massa vetrosa ancora attaccata alla canna, le cesoie, utilizzate per ritagliare parti del vaso in sovrappiù, i martelli, usati per frantumare la fritta o i blocchi di vetro grezzo. Le matrici, aperte o chiuse (in due o tre pezzi), potevano essere in terracotta, pietra, legno o metallo.


Il vetro

Il primo tipo di vetro utilizzato dall’uomo per fabbricare punte di freccia e utensili taglienti è anche il più diffuso in natura: si tratta dell’ossidiana, nera e lucente, formatasi col raffreddamento della lava fusa, che conserva memoria del fluido che è stata nei vortici, nelle onde, nell’essenza riposta della sua natura. Solo molto più tardi si cominciò a fabbricare il vetro, anche se non si conoscono con esattezza il periodo e il luogo in cui avvenne questa fondamentale innovazione tecnologica. I più antichi vasi vitrei noti provengono dal Medio Oriente e risalgono a circa 1500 anni prima di Cristo.

Ossidiana

Frammenti di ossidiana colorata (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2009

Per un lungo periodo di tempo la miscela vetrificabile è rimasta la stessa: sabbia e natron, in percentuali diverse. Solo poche sabbie erano adatte allo scopo: Plinio cita quelle provenienti dalla foce del fiume fenicio Belus (ora in Israele) e dal litorale presso la foce del Volturno, a Nord di Napoli. Si tratta di sabbie silicee con alta percentuale di composti calcarei; in seguito si imparò ad aggiungere alla sabbia minerali quarziferi e calcarei, necessari per rendere il vetro più durevole. La componente fondente, il natron (un minerale naturale composto da carbonato e bicarbonato di sodio) proveniva invece dai ricchi giacimenti dell’Egitto e dell’Asia Minore.

Il processo di fusione seguiva più fasi, impiegando forni diversi: con la calcinazione delle materie prime si preparava la fritta (semilavorato cristallino), che poi era fusa in vasi refrattari (crogioli) dando luogo a vetro grezzo (semilavorato colato in lingotti o blocchi poi raffreddati); con la lavorazione il vetro fuso veniva trasformato negli oggetti finiti. In quest’ultima fase intervenivano i processi di colorazione o decolorazione, tramite l’aggiunta di ossidi coloranti (ferro, rame, cobalto o manganese) o decoloranti (antimonio e manganese).

Nella tecnica di lavorazione del vetro si distinguono due fasi, prima e dopo l’invenzione della soffiatura. Inizialmente si utilizzavano le tecniche della fusione a cera persa, della colatura in stampo e della modellazione su nucleo, su asta e a matrice capovolta. Con quest’ultima tecnica si realizzavano pure coppe «a mosaico», partendo da un disco ottenuto accostando rondelle tagliate da bastoncini di colori diversi, saldate insieme.

La soffiatura, libera o in matrice, è una tecnica esclusiva del vetro, inventata alla metà del I secolo avanti Cristo nel Vicino Oriente (Siria, Palestina) e giunta rapidamente, già a fine secolo, anche a Roma, dove si perfeziona con la sperimentazione di nuove forme e combinazioni di colori. Essa permette di creare molti manufatti in tempi molto brevi e dà l’avvio ad una grande diffusione del vetro, a carattere quasi industriale e a basso costo. Gli oggetti vitrei, prima esclusivo appannaggio di pochi, diventano ora accessibili a tutti: annota Strabone che «a Roma si dice che si sono fatte molte scoperte sia per produrre i colori, sia per semplificare la produzione, come, per esempio, nel caso dei vetri, dove si può comperare un bicchiere di vetro o una coppa per bere per una moneta di rame» (Strabone, Geografia, XVI, 2, 25, capitolo 758). Plinio ricorda che «si possono fare inoltre un vetro bianco, ed altri vetri che imitano i vasi di murrina o il giacinto e gli zaffiri, nonché pietre di tutti gli altri colori: perché non c’è materiale più duttile ad essere colorato. Comunque le pietre più apprezzate sono quelle bianche e trasparenti perché son le più simili al cristallo naturale» (Plinio, Naturalis Historia, XXXVI, 198).

I vasi potevano presentare vari tipi di decorazione, quali incisioni (ottenute a mano, con punteruoli); intaglio (realizzato alla ruota o al tornio, intaccando lo spessore del vetro, dava luogo a vari tipi di prodotti, come il vetro cammeo, composto da strati sovrapposti di colore differente e i vasi ad altorilievo, con decorazioni vegetali, animali o geometriche); applicazioni (di varia natura, quali filamenti a spirale, pastiglie o pezzetti di vetro colorato, «appliques»); pinzettature (piccole protuberanze effettuate a pinza sul vaso).


Il vetro e i profumi

A Roma è testimoniata dalle fonti letterarie la presenza di sostanze esotiche per creare unguenti e pomate, per impreziosire il sapore del vino nel corso di sontuosi banchetti, per profumare gli ambienti o da bruciare, come emerge dalla lettura di Plinio il Vecchio. Aromi di vario tipo venivano usati per la preparazione di medicamenti o per la composizione di unguenti esotici per la cosmesi delle matrone e delle concubine, per le vesti di senatori, cavalieri e parvenu, per gli usi connessi ai costumi termali. I più richiesti erano quelli prodotti dai profumieri alla moda, una delle professioni tra le più lucrose dell’antica Roma. Cosmetici, belletti e preparati medicinali erano costituiti dalle stesse sostanze di base: essenze derivate da fiori, piante aromatiche o spezie di ogni genere lasciate a macerare in olio o grasso animale miscelati (da qui la differenza fondamentale con i moderni profumi, infusi a base di sostanze alcoliche).

Alla fine del I secolo dopo Cristo, sono presenti sul mercato della capitale spezie, aromi, balsami provenienti dalle regioni più diverse dell’Impero, dall’Italia, dalla Gallia, dalla Siria, dall’Egitto. Le merci più preziose giungevano soprattutto dall’Asia Centrale, dall’India, dall’Africa Settentrionale. Tramite le vie carovaniere raggiungevano i grandi porti del Mediterraneo Orientale (Alessandria, Antiochia, Gaza, Berythus), da dove venivano stivate nelle grandi navi onerarie che partivano per Roma e, in generale, per l’Occidente. Pregiato era il nardo, profumo proveniente in gran parte dall’India e dalle regioni trans-indiane (Malesia, Sumatra, eccetera), ma anche dalla Gallia, con evidenti differenze di prezzo secondo le diverse regioni di origine. Dall’India provenivano pure mirra, aloe e cardamomo; dall’Arabia, area di transito dei commerci carovanieri e marittimi provenienti da Ceylon e dall’India, incenso e mirra; dalle regioni dell’Africa Settentrionale, attraverso i percorsi sulle vie delle oasi, giungeva la gomma ammoniaca, una resina ricavata incidendo il tronco delle acacie, utilizzata in farmacopea. I contenitori impiegati per il trasporto delle materie prime o utilizzati per quantità massicce del prodotto (l’otre in pelle di animale o i recipienti in ceramica e canna attestati dalle fonti) non hanno lasciato tracce archeologiche. Lo studio dei balsamari vitrei, come classe autonoma di contenitori destinati alla vendita al minuto di sostanze aromatiche di vario tipo, consente di elaborare almeno un modello di analisi sui flussi commerciali di unguenti e vetri nell’Italia di età imperiale. Fino a tutto il I secolo dopo Cristo, anche se non mancano attestazioni di importazioni dal mondo orientale (siriaco e alessandrino), le produzioni italiche dominano il mercato interno, con forme che variano dal globulare al piriforme al troncoconico, con collo più o meno alto, che testimoniano di una produzione ampia e parcellizzata.

Dall’età Flavia e per tutto il II secolo, si assiste al graduale mutamento del concetto stesso di balsamario: il collo tende ad allungarsi, il corpo a farsi sempre più schiacciato e mutano le proporzioni stesse del contenitore. Il fenomeno si accompagna in Italia ad una concentrazione della produzione in manifatture localizzabili in area centro-italica (forse a Roma stessa) e soprattutto nella Cisalpina, certamente ad Aquileia e Ravenna, dove è testimoniata la presenza di officine sottoposte al controllo della casa imperiale.

Dal III secolo le importazioni, soprattutto dall’Oriente, sono predominanti, segno evidente della profonda crisi economica che colpisce le basi produttive, agricole (olio, fiori, piante medicinali) e artigianali (vetro) dell’Italia.


La cosmesi

I lunghi, estenuanti rituali che la matrona romana riservava alla sua persona si svolgevano con l’aiuto delle «ornatrices», cui spettava il compito di sistemarne le chiome, di depilarla e di truccarla, coprire con gesso e biacca la fronte e le braccia così da farle diventare bianche, arrossire con ocra o feccia di vino le guance e le labbra, annerire ciglia, sopracciglia e palpebre, disegnare sul viso piccoli nei ottenuti con cerottini neri, far risplendere la pelle cospargendola di polvere di ematite lucente dopo averla levigata utilizzando la pomice, rinvenuta ad Albenga in un pezzo di forma conica.

Le acconciature, talvolta costituite da toupet o da elaborate parrucche anche di capelli veri, erano spesso impreziosite da raffinate cuffie come quella a reticella aurea rinvenuta ad Albenga e fermate da aghi crinali utilizzati anche in gran numero.

Numerosi e assai vari erano gli strumenti utilizzati nelle pratiche della cosmesi e nell’igiene personale: pettini, strigili per detergersi, spatole di vario tipo in metallo o avorio usate sia nella preparazione di medicamenti e unguenti, che nelle pratiche chirurgiche. L’«auriscalpium», ad esempio, con una sorta di vaschetta emisferica all’estremità di un lungo e sottilissimo manico appuntito all’estremità opposta era usato come netta-orecchie e netta-unghie, ma anche per la pulizia di piccole ferite.

Per mescolare unguenti, belletti e polveri e per spalmare le sostanze medicamentose e cosmetiche era utilizzato il cucchiaio (ligula) in metallo, osso o vetro.

Per filtrare, miscelare e travasare venivano impiegati piccoli imbuti («infundibula»), come il raro esemplare in vetro rinvenuto ad Albenga. Pinzette («volsellae») e forbici («forfex») in bronzo o ferro potevano essere utilizzate per la depilazione, pratica assai diffusa pure tra gli uomini, per la quale si usufruiva anche di particolari polveri e sostanze naturali.

Scatole di dimensioni più modeste – in avorio, metallo o vetro – conservavano ciprie e polveri per il trucco degli occhi. Flaconi in vetro, alabastro, cristallo di rocca o altre qualità di pietre dure erano destinati a contenere unguenti, pomate o belletti. Una bottiglietta vitrea rinvenuta in una tomba di Albenga conteneva farina di pomice, usata nella composizione di medicamenti per gli occhi o di dentifrici.

La parure da cosmetica era generalmente conservata in cofanetti («capsae» o «alabastrotecae») di legno o di metallo prezioso, spesso riccamente decorati, come quelli dove si riponevano i gioielli che arricchivano l’abbigliamento.

Anelli, collane e bracciali con gemme e perle in vetro che imitavano a minor costo il colore e la trasparenza delle pietre più preziose, completavano la cosmesi della matrona.


Il vetro e i banchetti

«Qui fa che portino i vini e gli unguenti odorosi e i fiori troppo effimeri della leggiadra rosa, finché le cose e l’età e i fili oscuri delle tre Sorelle lo consentono ancora» (Orazio, Odi, II).

I banchetti duravano molte ore e comprendevano innumerevoli portate per le quali erano necessari servizi e apparati di rappresentanza conservati in appositi armadi dove potevano trovare posto anche contenitori per i cibi.

Vetri per mensa

Armadio con contenitori in vetro per la mensa (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2009

Contenitori in vetro fecero la loro comparsa nei servizi destinati alla mensa già molti secoli prima della nascita di Cristo. Aristofane (fine V secolo avanti Cristo), nel descrivere il mirabile sfarzo della corte persiana, ricorda con stupore l’uso di coppe in vetro per bere il vino. In effetti, la complessità della lavorazione del vetro, in queste epoche così antiche dominata soltanto da una ristretta cerchia di artigiani, rendeva estremamente rara e pregiata la suppellettile vitrea, appannaggio esclusivo delle mense reali. L’introduzione, in età ellenistica (IV-II secolo avanti Cristo), di tecniche che consentivano una produzione più rapida grazie all’utilizzo di matrici e stampi, permise una diffusione relativamente maggiore di recipienti per il consumo del vino (coppe soprattutto) nei banchetti, anche se quest’uso rimarrà per lungo tempo un lusso dell’èlite sociale. Sarà soltanto con l’invenzione della soffiatura (metà del I secolo avanti Cristo) che avrà inizio la grande diffusione del vetro nel mondo antico. La nuova tecnica garantiva infatti una notevole velocizzazione del lavoro, garantendo così una produzione seriale a basso costo dei contenitori vitrei, finalmente accessibili ad ampi strati della popolazione. «I vetri costano anche poco» farà dire Petronio, scrittore del I secolo dopo Cristo, a Trimalcione, nel corso del sontuoso banchetto descritto nelle pagine del Satyricon. Soltanto allora, inoltre, si compresero e si sfruttarono appieno le innumerevoli qualità del vetro, materiale non soltanto bello da vedersi, ma anche capace di contenere per lungo tempo alimenti o liquidi senza alterarne il sapore («lasciatemelo dire, però io per me preferisco il vetro, almeno non puzza. Che se non fosse fragile, io per me lo preferirei all’oro. Così invece vale niente», dirà ancora Trimalcione); vennero così realizzati nuovi tipi di recipienti, come le bottiglie e le olle, destinati alla conservazione delle derrate nella dispensa.

Parallelamente si moltiplicarono anche le forme vitree legate al banchetto: non più soltanto coppe e bicchieri, ma anche brocche («oinochooi»), tazze («skiphoi»), attingitoi («simpula»), vassoi («lances»), cucchiai («ligulae»), coppette per condimenti («acetabula») o per la salsa di pesce («gararia»). In molti di questi casi i prototipi dei contenitori vitrei saranno offerti dalle ben più costose versioni in metallo pregiato (argento e oro) e non (bronzo).

Anche le pedine dei giochi da tavolo più diffusi in epoca romana, come il «ludus latrunculorum» o la «tabula» (quest’ultimo non molto dissimile dal nostro backgammon), verranno realizzate in vetro, offrendo dei surrogati più a buon mercato delle pedine in metallo o pietre preziose.

Il vetro divenne quindi il materiale d’uso comune, che accompagnava i diversi momenti della vita quotidiana e dal quale non ci si voleva separare neppure dopo la morte, deponendo nelle tombe quei fragili e affascinanti oggetti che erano serviti anche per l’ultimo e definitivo commiato dal mondo: il banchetto funebre.


Il rituale funerario

Dopo la morte il defunto, vestito con gli abiti da cerimonia, veniva trasportato su una lettiga nel luogo di sepoltura, ubicato per legge all’esterno della città. Al corteo funebre («pompa»), formato dai parenti e dagli amici, si associavano spesso le prefiche.

Se il defunto doveva essere inumato, si procedeva direttamente alla sepoltura, che poteva consistere nella deposizione in un sarcofago o in una semplice fossa, spesso ricoperta di tegole («cappuccina»). Il rito funerario dell’inumazione, praticato sporadicamente prima del II secolo dopo Cristo, divenne esclusivo nei secoli successivi, soprattutto dopo l’avvento del Cristianesimo. La cremazione, diffusa per tutto il periodo repubblicano fino al II secolo dopo Cristo, poteva svolgersi nel punto preciso in cui le ceneri sarebbero state seppellite («bustum») oppure in un luogo apposito («ustrinum»). Deposto il feretro sulla pira, insieme con doni di vario genere e ampolle contenenti essenze profumate, prima di appiccare il fuoco si aprivano gli occhi del defunto ed il suo nome era gridato, invocato per l’ultima volta. Quando il rogo era spento, a piedi nudi e discinti, i parenti raccoglievano le ceneri che, asperse di vino, venivano deposte in un’urna, generalmente di pietra, terracotta o vetro. L’urna era quindi chiusa nella tomba vera e propria, spesso una semplice fossetta scavata nel terreno, foderata da tegole o lastre di pietra. Insieme con le ceneri era deposto pure il corredo funerario, la cui ricchezza e composizione poteva variare a seconda dello stato sociale del defunto. Esso comprendeva comunque oggetti connessi con la vita terrena, dal banchetto (coppe, bicchieri, piatti, eccetera) alla cosmesi (balsamari, specchi, gioie, eccetera). La presenza nel corredo di lucerne e di monete, usate come «obolo di Caronte», si ricollegava invece a credenze connesse con il mondo dell’oltretomba. Ad Albenga, singolare per ricchezza è il corredo di una tomba femminile (tomba 14), composto da una quarantina di oggetti di cui ben 30 in vetro.

Subito dopo la sepoltura i parenti dovevano sottoporsi a riti di purificazione con fuoco ed acqua, per decontaminarsi dall’impurità della morte; nello stesso giorno si consumava un banchetto presso la tomba («silicerium»). Al termine di un periodo di lutto rigoroso della durata di nove giorni, di cui rimane ancora oggi traccia nel cerimoniale vaticano, si svolgeva un altro banchetto, la «coena novendialis»; in questa occasione la sepoltura era irrorata da una libagione agli dèi Mani.

Il legame tra il mondo dei vivi e quello dell’oltretomba era costantemente mantenuto attraverso numerose feste, che prevedevano libagioni di liquidi, vino, miele, olio sulle tombe. Oltre alle ricorrenze private, ad esempio in coincidenza con la data di nascita del defunto, le feste pubbliche dedicate ai morti erano piuttosto numerose, soprattutto nel periodo concomitante con la ripresa vegetativa: i Feralia, in febbraio, i Lemuria, a maggio, i Rosalia, tra maggio e giugno.


Il grande piatto blu di Albenga

Piatto blu

Il grande piatto blu esposto a Palazzo Oddo, Albenga (Italia)

Il grande piatto in vetro blu è stato rinvenuto nel dicembre del 1995 in una tomba (tomba 26) di un recinto funerario della necropoli Nord di Albenga, nei pressi del moderno Viale Pontelungo, il cui tracciato ricalca quello dell’antica Via Iulia Augusta.

La tomba, costituita da una grande fossa scavata nel terreno (metri 2,70 x 1,80, profonda 0,36), è del tipo detto «a cremazione diretta» o «bustum», in cui il luogo della cremazione e della sepoltura coincidono. Al centro della fossa, una fossetta rettangolare più piccola (metri 1,20 x 0,60, profonda 0,43) era la tomba vera e propria. Evidentemente la fossa più grande, che presentava le pareti arrossate dal rogo, aveva ospitato la pira funebre, i cui resti erano stati raccolti successivamente nella fossa minore. I frammenti combusti delle ossa indicano l’appartenenza della sepoltura ad un soggetto maschile adulto, di cui non è possibile conoscere l’identità: le vicissitudini subite dalla tomba attraverso i secoli hanno infatti cancellato le tracce di ogni eventuale segnacolo che riportasse un’iscrizione con il nome del defunto.

Nella fossetta, insieme con le ceneri e i carboni del legname usato nella pira e nella barella funebre, è stato rinvenuto il corredo funerario. Numerosi, inoltre, i resti di balsamari vitrei fusi, destinati a contenere gli «olea et odores» offerti al defunto durante la cremazione.

Oltre che il piatto in vetro blu, il corredo comprendeva una lucerna in ceramica e tre bottiglie vitree. La lucerna, del tipo detto «a canale aperto», databile all’inizio del II secolo dopo Cristo, reca il bollo del produttore APRIO, corrispondente ad un’officina attiva nell’Italia Padana. Le tre bottiglie, dall’imboccatura ad imbuto e dal corpo piriforme, realizzate in vetro incolore sottilissimo, sono di un tipo diffuso in Medio Oriente tra il I ed il IV secolo dopo Cristo, ma raro in Italia.

Degli oggetti che compongono il corredo è la sola lucerna che consente di datare in modo più preciso la sepoltura. Le tre bottiglie ed il grande piatto non sono infatti determinanti per la datazione, dato l’ampio arco cronologico delle prime e la singolarità del secondo, che appartiene ad una produzione prima d’ora non ancora inquadrabile con precisione. La datazione della tomba ai primi decenni del II secolo è confermata dai dati stratigrafici e dalle analisi radiocarboniche condotte sui carboni del legno usato come combustibile nella pira.

Tale datazione fornisce il termine per individuare cronologicamente (terminus ante quem) tutti gli oggetti del corredo, che furono quindi realizzati in un momento antecedente. I dati cronologici sono della massima importanza per datare con sicurezza un oggetto singolare come il piatto blu, grazie al quale è ora possibile inquadrare la più antica produzione di vetri figurati ad intaglio.

Datato con sicurezza – grazie ai dati di scavo – al periodo fra la fine del I secolo dopo Cristo e gli inizi del II secolo, il grande piatto è stato realizzato in vetro blu cobalto mediante colatura a stampo. Molato e levigato al tornio su entrambe le facce, il piatto è decorato sulla superficie inferiore con intagli alla ruota e al tornio, completati da incisioni eseguite con una punta, a mano libera.

La decorazione può essere pienamente apprezzata per trasparenza solo quando il piatto è sollevato. Intorno all’orlo corre un fregio formato da una corona di perle e da una fascia di ovoli; al centro, nel disco incorniciato dall’anello del piede, è una scena figurata formata da una coppia di putti bacchici danzanti; quello a sinistra, alato, tiene una siringa a sei canne con una mano, mentre con l’altra impugna un bastone ricurvo da pastore («pedum»). L’altro putto, privo di ali, stringe con la sinistra un otre di pelle ferina caricato sulle spalle, mentre la destra regge il tirso, sul quale è annodata una benda.

Lo schema figurativo dei due putti bacchici è documentato ampiamente nell’arte romana di età imperiale, dove personaggi simili compaiono sui sarcofagi a partire dal II secolo dopo Cristo, con evidente richiamo al culto e all’escatologia dionisiaca; al di fuori del contesto sepolcrale, scene simili a quella raffigurata sul piatto di Albenga sono diffuse in un ampio arco cronologico su una vastissima gamma di suppellettili d’uso quotidiano, dalle argenterie, alla ceramica da mensa, alle lucerne. Un personaggio simile al putto con otre del piatto di Albenga si ritrova, ad esempio, nel pannello centrale del vassoio argenteo di Arianna, da Kaiseraugst (Svizzera), datato al IV secolo dopo Cristo.

Per il modulo piuttosto schiacciato ed il notevole sviluppo in larghezza, la forma del piatto sembra derivare da prototipi metallici, in particolare da quella dei grandi piatti da portata in argento («lances») della media età imperiale decorati a sbalzo o a cesello, di cui il piatto è la trasposizione in vetro. Nel piatto di Albenga, la decorazione ad intaglio, che riproduce nel vetro l’effetto a rilievo delle opere eseguite a sbalzo e a cesello, costituisce un ulteriore elemento di confronto con le grandi «lances» argentee figurate, come per esempio, la «lanx» rinvenuta nel tesoro di Chaourse in Francia, che richiama appunto il piatto di Albenga per la forma schiacciata e la decorazione concentrata nel medaglione centrale. Proprio come un vassoio argenteo cesellato o sbalzato, il piatto di Albenga è orlato da un fregio di perle ed ovoli e le figure rappresentate al centro del disco sono definite in senso plastico, più che disegnativo, grazie all’effetto chiaroscurale ottenuto attraverso un attento controllo della profondità degli intagli.

Come è noto, il rapporto fra l’argenteria e la produzione vetraria, in particolare quella di lusso, cui il piatto di Albenga appartiene, è molto stretto. Per le sue particolari caratteristiche fisiche, il vetro è infatti capace di riprodurre qualsiasi forma ottenibile con il metallo, alle cui doti di levigatezza e di brillantezza aggiunge, come sua caratteristica peculiare, la trasparenza della luce, propria dei cristalli. A queste prerogative del vetro, nel confronto con il metallo nobile, si associano il basso costo delle materie prime e la relativa rapidità nelle tecniche di lavorazione.

I confronti con il vasellame argenteo da mensa («argentum escarium») indicano che il piatto di Albenga è un vassoio usato per presentare le vivande nel banchetto. «Lances» argentee simili sono documentate con frequenza nei servizi da tavola («ministeria») di età imperiale, soprattutto a partire dalla fine del I secolo dopo Cristo; il loro uso come piatti da portata è illustrato con efficacia nel famoso mosaico nella Casa del Buffet Supper di Antiochia datato età Severiana, dove compaiono vassoi contenenti i cibi. Piatti da portata erano inoltre usati per presentare offerte votive agli dèi e nei banchetti funerari, come su un sarcofago del III secolo dei Musei Vaticani, dove è raffigurato un convito in onore di una defunta, che vi partecipa circondata da personaggi che recano «lances» con le vivande.

Per il contesto sepolcrale in cui è stato rinvenuto, il piatto di Albenga richiama appunto l’immagine del banchetto funerario ed è possibile che esso sia stato effettivamente usato durante le cerimonie in onore del defunto, che prevedevano un banchetto presso la tomba, il giorno stesso delle esequie («silicernium»).


I più antichi vetri romani intagliati con scene figurate

Nel mondo romano la più antica produzione su larga scala di vetri intagliati con scene figurate viene comunemente fatta risalire all’inizio del III secolo dopo Cristo, quando si diffondono le coppe intagliate con scene mitologiche del cosiddetto Gruppo di Linceo.

Nonostante l’esistenza di un piccolo nucleo di vetri figurati ad intaglio, peraltro assai frammentari, rinvenuti negli anni Trenta del XX secolo nel tesoro del palazzo reale di Begram (Afghanistan), lungo la Via della Seta, datati sulla base di considerazioni indiziarie tra la fine del I e l’inizio del II secolo dopo Cristo, l’ipotesi che l’inizio della produzione fosse da anticipare di circa 100 anni, rispetto ai vetri del Gruppo di Linceo, era rimasta fino ad oggi priva di supporto scientifico.

Il piatto di Albenga, datato con grande precisione, grazie ai dati di scavo, tra la fine del I e l’inizio del II secolo, fornisce ora un caposaldo cronologico importantissimo, dimostrando infatti che la produzione di vetri figurati ad intaglio è più antica di circa un secolo rispetto a quanto si era ritenuto finora. Il suo eccezionale stato di integrità permette inoltre di approfondire la conoscenza di questa classe di oggetti, nata come imitazione in vetro delle preziose argenterie di età imperiale decorate a sbalzo e a cesello. Delle argenterie vengono infatti riprodotte le forme e la decorazione, resa attraverso la tecnica del cosiddetto «rilievo negativo», che consiste nel creare sulla superficie del vetro l’impressione di plasticità, propria di un oggetto in metallo sbalzato o cesellato, attraverso l’intaglio eseguito sulla faccia opposta. Questa tecnica, che si ricollega direttamente alla tradizione tecnica dell’intaglio delle pietre dure (glittica), è particolarmente adatta a rendere in modo rapido ed efficace la complessità delle scene figurate, tanto da meritare una particolare fortuna nella successiva evoluzione dell’arte vetraria.

Sembra evidente che i primi vetri intagliati, per il loro pregio e la rarità, dovuti al notevole impegno tecnico e stilistico richiesti per la loro esecuzione, fossero riservati ad un’èlite ristretta. Non sorprende, quindi, che gli scarsi ritrovamenti di questi prodotti di lusso siano disseminati soprattutto lungo i confini dell’Impero o in territori lontani dove, presso le popolazioni barbare, contribuivano a propagandare efficacemente l’assoluta eccellenza e la straordinaria raffinatezza della cultura di Roma.

È probabile che i più antichi prodotti figurati ad intaglio siano da attribuire ad officine mediorientali, più probabilmente di Alessandria, capitale dell’Egitto romano, di cui è noto il primato nel campo delle arti applicate e nella produzione di beni di lusso. Sembra che questi vetri possano essere opera di artigiani formatisi in ateliers specializzati nell’intaglio di gemme, che operando all’interno di officine in cui si producevano vasi sfaccettati decorati in modo più semplice, come quelli con il caratteristico motivo che imita un favo d’ape, abbiano sperimentato per la prima volta sul vetro le scene figurate, seguendo le diverse tendenze di gusto e di stile presenti nel dominante clima di eclettismo artistico della media età imperiale.

Lo stringente confronto nella tecnica e nello stile dell’intaglio, l’originalità delle forme, derivate da prototipi metallici, l’appartenenza alla categoria dei beni di lusso, suggeriscono l’attribuzione del piatto di Albenga e dei vetri di Begram ad uno stesso ambito di produzione, da cui si svilupperà, su più ampia scala, a partire dalle coppe del Gruppo di Linceo, tutta la successiva produzione di vetri figurati ad incisione e ad intaglio.

Il vetro è anche l’inestimabile sfavillio delle vetrate delle cattedrali, smeriglio di vetro calpestato; ma, pure, una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia…

(giugno 2013)

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