Le prime accoglienze italiane agli Esuli del confine orientale (1945-1948)
Un dramma poco conosciuto: quando l'Italia si mostrò matrigna verso i suoi stessi figli

La grande tragedia dell’Esodo giuliano, istriano e dalmata che negli anni del dopoguerra coinvolse almeno 350.000 Italiani, di nient’altro colpevoli se non di amare la loro Patria quasi «più dell’anima», come avrebbe detto Maria Pasquinelli quando fu chiamata a motivare le ragioni del suo gesto celebre e disperato[1], è stata oggetto di crescenti ricerche storiografiche e di tante testimonianze lasciate a futura memoria dai protagonisti di un dramma epocale, al pari di quello delle foibe, strettamente connesso.

Oggi, la prima generazione degli Esuli è stata largamente e progressivamente ridotta dalla legge inesorabile del tempo, ma proprio per questo è giusto conservare la consapevolezza delle motivazioni, in primo luogo etiche, in virtù delle quali oltre il 90% della popolazione di due intere regioni scelse di affrontare l’ignoto, con tutti i lunghi e sofferti disagi derivanti da tale opzione. Nel medesimo tempo, è doveroso non dimenticare le accoglienze ricevute in Italia, talvolta fraterne (in specie nel Mezzogiorno), ma più spesso ostili, orchestrate da coloro che accusavano i profughi di avere abbandonato il «paradiso» di Tito.

Sulle ragioni dell’Esodo non esistono dubbi, con certezze che sono state consolidate anche formalmente dalla Legge 30 marzo 2004 numero 92, istitutiva del «Ricordo» da celebrarsi ogni 10 febbraio, data del «diktat» e della tragica protesta compiuta dalla Pasquinelli: non era possibile convivere con l’usurpatore, responsabile delle 20.000 uccisioni di vittime infoibate od altrimenti massacrate; accettare il sequestro collettivista dei propri averi, delle proprie attività e persino delle tombe avite; stravolgere radicalmente consuetudini e costumi di una civiltà millenaria; tollerare l’avvento dell’ateismo di Stato che aveva coinciso, fra l’altro, col sacrificio della vita di tanti religiosi (primo fra tutti, il Beato Don Francesco Bonifacio).

Invece, è il caso di memorizzare in maniera meno episodica l’atteggiamento della madrepatria nei confronti del mondo esule, e l’ostracismo manifestato nei confronti di chi era stato costretto ad abbandonare tutto, col solo bagaglio di una valigia e nella migliore delle ipotesi, di un frammento dell’Arena di Pola e di una boccetta d’acqua dell’Adriatico[2]. A questo proposito, esiste una larga messe di testimonianze, tra cui assume significato emblematico l’affermazione secondo cui i «banditi giuliani» erano assimilabili al famoso «bandito Giuliano» che in quello scorcio degli anni Quaranta si stava macchiando di una lunga serie di delitti in terra siciliana[3].

L’elenco sarebbe lungo, ma gli episodi verificatisi ad Ancona e Venezia, all’arrivo degli Esuli Polesi, od a Bologna, quando i treni dei profughi transitavano dalla stazione ferroviaria, sono rimasti scolpiti a lettere di fuoco nel cuore e nella mente dei protagonisti, e meritano di essere riproposti all’attenzione degli ignari, o di coloro che avrebbero voluto dimenticare in fretta. Basti dire che nel capoluogo veneto i portuali rossi offesero, assieme ai profughi, le spoglie mortali di Nazario Sauro, che i suoi concittadini di Capodistria non avevano voluto lasciare alla mercé del nuovo padrone; ovvero, che nella città dorica vennero gettati nel fango, ad opera della marmaglia comunista, i generi di primo conforto che erano stati predisposti all’arrivo del Toscana col suo carico dolente, partito da Pola tre giorni prima[4].

Siffatto comportamento non fu dovuto alle «iniziali incomprensioni» cui fa riferimento la lapide commemorativa installata sul primo marciapiede della stazione di Bologna. Al contrario, fu una costante di lunga durata, come attestano svariate testimonianze. La prima è quella di Francesco Avallone, Esule da Fiume e figlio di un infoibato, transitato dalla città petroniana nello scorcio conclusivo del 1945, diretto a Salerno[5], senza che fosse possibile distribuire a lui ed agli altri bambini una tazza di latte preparato dalla Pontificia Opera di Assistenza, perché i ferrovieri comunisti avevano promesso di scendere in sciopero e di paralizzare il traffico qualora il treno dei profughi avesse sostato in stazione. La seconda è quella di Lino Vivoda, Esule dal capoluogo istriano, fratello di una vittima di Vergarolla ed ex sindaco del Comune di Pola in Esilio, transitato da Bologna nel febbraio 1947 con un convoglio proveniente da Ancona e diretto a La Spezia, oggetto di un’accoglienza del tutto analoga: quasi a confermare che, diversamente dalla «vulgata» dell’incomprensione transeunte, quella del latte versato fu una prassi posta in essere, o semplicemente minacciata, per almeno un triennio (non soltanto a Bologna, ma – ad esempio – anche a Reggio Emilia). Cosa che la dice lunga sulla reale accoglienza riservata ad un popolo in fuga per la vita e privo di tutto, con la sola eccezione della propria fede.

Quelli appena descritti non furono episodi marginali, dovuti all’iniziativa estemporanea di qualche agitatore. Al contrario, si inquadravano in un preciso disegno politico che mirava sin dall’inizio alla frammentazione del mondo esule, quasi a fagocitarne l’identità culturale: non a caso, l’idea di creare una «Nuova Pola» nel Gargano od in Sardegna, già oggetto di specifiche attenzioni e proposte, venne prontamente scartata, come se conservare almeno in parte un contesto unitario degli Esuli avesse creato il presupposto di chissà quali rischi per la giovane Repubblica Italiana. C’è di peggio: il Governo Scelba si permise l’arbitrio di ordinare che ai profughi venissero rilevate le impronte digitali, con un provvedimento inutile, oltre che iniquo, subito annullato per il provvidenziale intervento del Vescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin.

Il latte versato sui binari di Bologna e la pasta gettata nel fango di Ancona restano nella memoria collettiva come gesti simbolici in cui il rifiuto di una pur minima solidarietà indusse conseguenze che in parecchi casi furono irreversibili, a cominciare dalla decisione di emigrare oltremare, che tante famiglie esuli dovettero assumere loro malgrado[6], non avendo trovato lavoro né casa, salvo le balle di paglia degli oltre cento campi di raccolta: un ulteriore dramma epocale, che per molti profughi non avrebbe avuto termine prima degli anni Sessanta.

Allora, è il caso di rammentare che la tragedia del popolo giuliano, istriano e dalmata non ebbe matrice unica nelle angherie di un sistema capace di elevare il genocidio a sistema di governo[7]; ma in qualche misura, anche nel comportamento di un’Italia matrigna, incapace di comprendere che il prezzo della guerra perduta era stato pagato, prima di tutto e soprattutto, da quel popolo civile, onesto, paziente, sempre fedele ad un’etica cristiana consolidata dalla sofferenza ed infine, da una «lieta speranza».


Note

1 Maria Pasquinelli (Firenze 1913 – Bergamo 2013), patriota di provata fede, crocerossina, insegnante, protagonista dell’assistenza agli Esuli da Pola nel duro periodo di preparazione intercorso dalla strage di Vergarolla ordita da emissari dell’Ozna (18 agosto 1946) alle prime partenze del Toscana (febbraio 1947), espresse la protesta del suo popolo contro l’iniquità del Trattato di pace nel testamento spirituale che portava seco nel colpire il Generale Robert De Winton, responsabile militare della «enclave» polese. Condannata a morte da una Corte Inglese, ebbe la pena commutata in quella dell’ergastolo; graziata nel 1964, condusse vita integerrima e riservata, con forti venature religiose.

2 Fra le tante testimonianze sull’argomento, tra le più recenti confronta Remo Calcich, Italiano con la coda, Besa Editrice, Nardò 2014, pagina 82: di particolare interesse specifico, anche a proposito del lungo viaggio da Pola ad Ancona (durante il quale venivano gettati a mare i «pesanti sacchi» contenenti i resti mortali di chi non era sopravvissuto al dolore od alla malattia), e poi a Brindisi; ma soprattutto perché l’Autore non nasconde le proprie simpatie di Sinistra ma ne riconosce il sostanziale tradimento da parte jugoslava.

3 La similitudine, con tanto di pesante ironia semantica, venne proposta in Liguria da un candidato del Fronte Popolare alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, che si conclusero, come noto, con la pesante sconfitta del blocco social-comunista. Per la cronaca, quel candidato rispondeva al nome di Eros De Franceschini (confronta Carlo Montani, Venezia Giulia – Dalmazia, Sommario storico / historical Outline, Edizioni Ades – Regione Friuli Venezia Giulia, Trieste 2002, pagina 113).

4 Remo Calcich, Italiano con la coda, Besa Editrice, Nardò 2014, pagina 82. Le infermiere della Croce Rossa, racconta l’Autore, avevano preparato un piatto di pasta da offrire ai profughi, ma una «folla eccitata» rese impossibile questo semplice gesto di umanità; anzi, sempre secondo la medesima testimonianza, quegli «esagitati ci volevano linciare». Fu così che gli Esuli si resero conto improvvisamente e dolorosamente di avere sognato un’Italia «che forse non esisteva»: del resto, gli ospiti di alcuni campi profughi, come quelli di Pradamano (Udine) e di Tortona (Alessandria), erano rigidamente controllati dai Carabinieri, mentre in alcune città, come Novara, era invalsa l’usanza di «tenere buoni i figli birichini» con la minaccia che altrimenti sarebbero stati condotti dai profughi per essere… mangiati (come da diffuse tradizioni orali, citate in Giuliano Subani, Triestinitaet, Luglio Editore, Trieste 2014, pagina 87).

5 La testimonianza di Francesco Avallone è stata illustrata, fra l’altro, nella conferenza su Esodo e Foibe tenutasi in Campidoglio (Roma) il 7 febbraio 2014 in occasione delle celebrazioni per il «Giorno del Ricordo» e quindi, riproposta nei documenti distribuiti alla Camera dei Deputati durante la commemorazione della strage di Vergarolla (Pola) tenutasi il 13 giugno 2014 ad iniziativa della Vice Presidente Onorevole Marina Sereni, dell’Onorevole Laura Garavini e dell’Onorevole Ettore Rosato.

6 L’ampiezza del dramma di un Esodo destinato a tradursi in Esilio è testimoniata dalle cifre dell’emigrazione, che finì per coinvolgere circa un quarto dei profughi, nell’ordine delle 80.000 persone: partenze – appunto – quasi sempre irreversibili, anche perché le destinazioni furono riferite in larga maggioranza a Paesi lontani (Stati Uniti, Canada, America Latina, Australia).

7 Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, Lithostampa, Udine 2011, pagina 57 (con particolare riferimento alla condanna, da parte delle Nazioni Unite, del crimine di genocidio di cui alla definizione che ne venne data nel 1943 dal giurista polacco Raphael Lemkin).

(novembre 2014)

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