Autunno d’Italia
Relativismo, crisi dei valori etici, coscienza e memoria storica in Italia (ed in Europa) all’inizio del III millennio

Una recente «indicazione» dell’Europa comunitaria ha avuto il surreale merito di far crescere il prodotto interno lordo dei Paesi membri con singolare immediatezza. Infatti, è stato deciso di considerare valido, per il calcolo del reddito nazionale, anche l’apporto del traffico di droga, della prostituzione, del contrabbando, e di altre attività illecite: ciò, con particolare soddisfazione dell’Italia, dove stime prudenzialmente riduttive valutano i proventi di tali lodevoli occupazioni in almeno 16 miliardi di euro «fatturati» in larga prevalenza dalle prime due, collocando il bel Paese al primo posto europeo quanto a specifica incidenza percentuale sul PIL. A ciascuno il suo primato!

Non c’è che dire. Si tratta di un riconoscimento ufficiale dell’illecito, o meglio del reato, davvero senza precedenti; e nello stesso tempo, di un evento morale in cui non è azzardato ravvisare una precisa connotazione diabolica, nei cui confronti ogni esorcismo diventa arduo, alla luce di un «imprimatur» politico così autorevole.

La stampa economica, fedele alle sue tradizioni pragmatiche, ha festeggiato l’evento, che d’altra parte non ha sollevato forti opposizioni da parte di una pubblica opinione già consapevole di droga e prostituzione quali settori largamente produttivi di utili «gestionali» e, oltre tutto, in apprezzabile controtendenza rispetto alle attività lecite. Qualcuno ha ironizzato, ma nella grande maggioranza dei casi c’è stata l’accettazione del fatto compiuto: nell’Europa e nell’Italia di oggi, l’atmosfera di gran lunga prevalente è sostanzialmente rassegnata, se non addirittura nichilista.

Giovanni Spadolini, in una delle sue opere più conosciute, aveva parlato di un triste «Autunno del Risorgimento» con chiara allusione alla crisi dei valori etici che avevano presieduto al moto di unificazione e che vennero notevolmente fagocitati dall’Italia liberale, agnostica e laica. Ora, riprendendo quella metafora, si dovrebbe parlare di autunno dell’Italia, con l’aggravante di una rapida rincorsa verso l’inverno che non è certo un buon viatico per la conquista di quella leadership europea che sembra vivere nella sola fertile fantasia del Presidente del Consiglio.

I vertici di Bruxelles si erano già posti in evidenza lanciando una sorta di crociata alla rovescia con l’elisione di ogni valore cristiano sin dal preambolo della Carta Europea. In questo senso, il nuovo marchio di sostanziale liceità conferito a droga, prostituzione ed analogie varie ne costituisce un semplice corollario, suffragato dal relativismo della maggioranza, anche se contraddetto dall’indignazione di una minoranza che peraltro, come spesso accade, potrebbe essere destinata a «fare» la Storia.

L’autunno dell’Italia trova conferma in una serie di episodi che attestano, in aggiunta a quella di matrice europea, una profonda crisi del senso etico dello Stato e della stessa Unità Nazionale, in aperta contraddizione con la verità acquisita, ma in aderenza alle false suggestioni indotte dalle vulgate. Ne sono un esempio i conati separatisti, tanto più anacronistici se non anche grotteschi nell’epoca della globalizzazione, e tanto più illusori nella presunzione che il ritorno all’economia del campanile o della «piccola Patria» possa essere la panacea di un disagio profondo, derivante dalla sperequazione dei nostri costi rispetto a quelli dei Paesi in via di sviluppo; dalle oggettive difficoltà di accesso al credito; da una burocrazia paralizzante diffusa dovunque e comunque; e via dicendo.

Nella medesima ottica si inseriscono interpretazioni storiche sempre più propense all’azzardo, motivate da un’ignoranza alimentata dalla scuola tuttora succube del Sessantotto e delle sue pregiudiziali anarcoidi. Anche in questo caso, può bastare un esempio: quello dello Sloveno Iztok Furlanic, Presidente del Consiglio Comunale di Trieste, che in una lunga intervista rilasciata il 16 ottobre 2014 (a quasi 70 anni dai fatti) ha affermato che la liberazione della città di San Giusto si deve ai partigiani di Tito scesi dalla Jugoslavia nella primavera del 1945. Peccato che, grazie a loro, si fossero moltiplicate le efferatezze di una persecuzione nei confronti del popolo giuliano e dalmata iniziata da anni e rimasta a caratteri indelebili nella memoria collettiva: 350.000 esuli e 20.000 vittime confermano senza riserve la tesi di Italo Gabrielli, secondo cui si trattò di un vero e proprio genocidio. In altri termini, di un delitto contro l’umanità.

Nel preambolo del suo grande romanzo, Alessandro Manzoni scrisse che la Storia si può definire una grande guerra contro il tempo. È un pensiero da condividere nella misura in cui esprime la necessità di promuovere una conoscenza meno effimera, e nello stesso tempo di cancellare i falsi artatamente diffusi da chi intende modificare il vero a suo piacimento, per inseguire obiettivi politici apparentemente fuori del tempo ma sempre in grado di riproporsi alla suggestione indotta dall’ignoranza, in specie se supportata dalla miseria.

Accanto all’autunno dell’Italia e dell’Europa, esiste quello della coscienza civica e della memoria storica le cui conseguenze non sono meno gravi della patente di liceità surrettizia che Bruxelles ha rilasciato a droga e prostituzione nel maldestro tentativo di far crescere a tavolino il prodotto lordo del Vecchio Continente. Nondimeno, coscienza e memoria appartengono alla persona ben prima di poter essere cristallizzate o manipolate nelle sedi istituzionali, e sono in grado di seminare il germoglio di una rinascita morale e civile: come sta scritto, le vie dell’iniquità non sono eterne.

(aprile 2016)

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