Le Brigate Rosse (1972-1978)
Dal sequestro Macchiarini a Via Fani

Le Brigate Rosse, gruppo armato rivoluzionario d’ispirazione marxista, nascono col convegno di Pecorile (Reggio Emilia) dell’agosto 1970. Le loro prime azioni dimostrative sono state di volantinaggio nelle fabbriche e poi di attentati incendiari ai danni di dirigenti di aziende, esempio gli incendi del box di auto di Giuseppe Leoni, capo del Personale Sit-Siemens il 17 settembre 1970 a Milano, e quello dell’auto di Ermanno Pellegrini, capo dei Servizi di vigilanza della Pirelli il 27 novembre 1970. Poi cominciarono ad alzare il tiro, passando ai sequestri di persona. Il 3 marzo 1972 venne sequestrato a Milano Idalgo Macchiarini, Dirigente della Sit-Siemens. È stato un sequestro lampo e nel volantino di rivendicazione, Macchiarini era considerato un dirigente della dura linea neofascista, quella di «asservimento» e «sfruttamento» degli operai. Il volantino si concludeva con uno slogan: «Mordi e fuggi», seguito da «niente resterà impunito», «colpiscine uno per educarne cento». Si trattava della linea dura condotta dai brigatisti contro i vari industriali, funzionari e capireparto delle aziende, considerati «crumiri» e «fascisti» con la camicia bianca. Il sequestro Macchiarini ricordava il sequestro avvenuto in Francia il 9 marzo dello stesso anno di Robert Nogrette, Dirigente della Renault, a opera di «Nouvelle Resistance Populaire», organizzazione armata di Gauche Proletarienne (omologa dell’italiana Sinistra Proletaria).

Il 28 giugno 1973 le Brigate Rosse hanno sequestrato Michele Mincuzzi, Dirigente dell’Alfa Romeo a Milano. Era l’epoca dell’«austerity», dovuta all’aumento del petrolio per la guerra tra Israele e Paesi Arabi durante il Kippur, che ha comportato l’aumento della benzina e con la crisi economica la Fiat ha licenziato 250 operai. L’episodio ha scatenato la reazione delle Brigate Rosse, le quali il 10 dicembre 1973 hanno sequestrato a Torino Ettore Amerio, Capo Personale Fiat. Amerio venne portato in un covo, dove subì un «processo popolare», in cui venne interrogato su temi scottanti, quali licenziamenti e cassa integrazione. Con i cosiddetti sequestri lampo, le Brigate Rosse hanno voluto manifestare la propria fermezza, ma gradualmente cambiarono strategia, scatenando un’offensiva contro le istituzioni dello Stato.


L’attacco dei terroristi ai «servitori» dello Stato

A Genova il 18 aprile 1974 venne sequestrato il Sostituto Procuratore della Repubblica Mario Sossi, uomo di destra con un passato universitario nel FUAN e con all’attivo parecchie inchieste sull’eversione di sinistra. A sequestrarlo furono Alberto Franceschini, Renato Curcio, Margherita Cagol e Mario Moretti. Sossi è stato titolare di diverse inchieste inerenti il gruppo «22 ottobre», per il quale chiese quattro ergastoli. Il sequestro del magistrato è stato il primo attacco diretto dei terroristi contro lo Stato e le sue istituzioni. Furono 35 giorni di estenuanti trattative tra i brigatisti, le istituzioni e i familiari allo scopo di ottenere salva la sua vita. Il «Dottor Manette», come veniva chiamato il giudice negli ambienti della sinistra eversiva, oltre ad avere preso parte al processo in funzione d’accusa contro la formazione eversiva «22 ottobre», aveva fatto arrestare il nipote di Palmiro Togliatti, Vittorio e altri ex partigiani nell’ambito di un’inchiesta sulle nascenti Brigate Rosse. È stato tenuto prigioniero in un covo nei pressi di Tortona, dove venne processato da un «tribunale rivoluzionario» in cui gli venne contestato il suo ruolo di servitore dello Stato e di avere preso parte al processo contro il gruppo «22 ottobre». In un comunicato delle Brigate Rosse, era stata posta come condizione per la salvezza del giudice, la scarcerazione degli otto membri condannati del gruppo «22 ottobre», tra cui quattro ergastolani e il loro trasporto in un Paese straniero. Lo Stato si era dimostrato inflessibile nel trattare, provocando così l’ennesima minaccia dei brigatisti di eliminare fisicamente il giudice. Alberto Franceschini si era offerto volontario per l’esecuzione. Sossi verrà rilasciato il 23 maggio, esattamente dopo che era stata accolta quella loro richiesta di scarcerazione da parte della Corte d’Assise d’Appello di Genova, nonostante il parere contrario del Procuratore Generale Francesco Coco che era riluttante nel firmare l’ordine di scarcerazione. Sossi poi ritornò in incognito da solo col treno a Genova. L’8 giugno 1976, sempre a Genova, venne ucciso dai terroristi Francesco Coco assieme ai due uomini della scorta, Antioco Dejana e Giovanni Saponara. Egli era stato freddato per il motivo appena accennato, esattamente perché riluttante nei giorni del sequestro Sossi a firmare l’ordine di scarcerazione per i terroristi del gruppo «22 ottobre».


Arresto di Curcio e Franceschini

L’8 agosto del 1974, i carabinieri guidati dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Pinerolo (Torino) arrestarono Renato Curcio e Alberto Franceschini. Questo comunque grazie a un infiltrato, Silvano Girotto, noto negli ambienti brigatisti col nome di «Frate Mitra». Girotto (classe 1939) era un ex frate francescano, con un passato nella Legione Straniera in Algeria ai tempi della guerra d’indipendenza dalla Francia e poi guerrigliero comunista in Cile contro la dittatura del Generale Pinochet. Ai tempi del suo sacerdozio è stato molto vicino ai ceti operai nella zona di Omegna, tanto da meritarsi l’appellativo di «prete rosso». Successivamente andò come missionario in America Latina, dove assistette al colpo di Stato militare contro il regime progressista di Juan Josè Torres nel 1971, schierandosi con gli operai e i contadini e in Cile, dove ha assistito al golpe contro il Presidente Salvador Allende, da parte del Generale Augusto Pinochet (1973), unendosi alle forze ribelli. A causa di questa sua propensione per la lotta armata, la Curia di Torino l’aveva espulso con decreto dall’Ordine dei Frati Minori. Era comunque chiamato «Frate Mitra» per la sua partecipazione alla resistenza armata in America Latina. Se Girotto ha contribuito all’arresto dei due capi brigatisti, ciò è stato frutto di una sua riflessione. Infatti, per via dell’esperienza rivoluzionaria in America Latina e poi con l’episodio del sequestro del Magistrato Mario Sossi, intuì che l’azione politica e rivoluzionaria delle Brigate Rosse in Italia, poteva essere un fallimento e che avrebbe portato nuovi lutti.

Mario Moretti, altro capo delle Brigate Rosse, invece non fu arrestato, grazie a una telefonata anonima che aveva informato lui e gli altri brigatisti dell’imminente blitz antiterrorismo dei carabinieri. Moretti ha sempre sostenuto di avere cercato di avvisare Curcio e Franceschini riguardo il pericolo che stavano correndo, ma invano. Sull’episodio è anche sorto qualche dubbio, perché in precedenza tra Moretti e gli altri capi brigatisti sarebbero sorti dei contrasti per via della vicenda del Magistrato Sossi. Si era parlato di escludere Moretti dal Comitato esecutivo, per via della sua linea «intransigente» durante le trattative per la liberazione di Sossi. Si ipotizzò che lo stesso Moretti avesse voluto fare arrestare Curcio e Franceschini per prendere il comando oppure che quella famosa telefonata «anonima» a Moretti fosse servita a risparmiargli l’arresto, in modo tale che le Brigate Rosse si riorganizzassero meglio. Dal carcere i due esponenti brigatisti non hanno rinunciato alla lotta «per la rivoluzione», poiché per loro il carcere era un vero «terreno rivoluzionario». In quei giorni Curcio scriveva «che chi crede che la lotta sia finita per qualche arresto, sbaglia», continuando poi: «Il messaggio delle avanguardie rivoluzionarie è recepito solo da una parte della classe operaia, in futuro allargherà il suo consenso».

Le azioni brigatista intanto continuarono: l’incendio alla Face Standard. Altri esponenti vennero arrestati come Prospero Gallinari (successivamente evaso e che poi diventerà figura centrale ai tempi del sequestro Moro) e Alfredo Buonavita. Le redini dell’organizzazione erano state assunte da Mario Moretti e Margherita Cagol, moglie di Curcio. Gli arresti sono stati una prima sconfitta per le Brigate Rosse, ma nonostante ciò si volle dimostrare che loro erano sempre in piedi, a lottare a oltranza. Venne ripresa la lotta originaria, quella del 1970-1971: incendi di macchine e attentati con bombe molotov e il reclutamento nelle fabbriche e nel movimento operaio. L’11 dicembre 1974 ci fu l’assalto alle sedi SIDA di Mirafiori e Rivalta e poi alla SINGER di Leinì il 3 febbraio 1975.

Il 1975 è stato caratterizzato da due fatti importanti: la liberazione di Curcio dal carcere di Casale Monferrato e la morte della moglie Margherita Cagol. Renato Curcio venne fatto evadere dal carcere il 18 febbraio. È stata un’azione studiata nei minimi dettagli dalla direzione strategica retta da Giorgio Semeria e Mara Cagol. Mara Cagol si era presentata alla guardia carceraria con la scusa di presentare un pacco a un detenuto, permettendo così al commando di irrompere all’interno della struttura prelevando il detenuto. Al blitz parteciparono Mario Moretti, Rocco Micaletto e Pierluigi Zuffada. Il Comitato o direzione strategica aveva inquadrato nuovi militanti e creato nuove colonne con Curcio responsabile a Torino, la Cagol a Milano mentre Moretti era a Roma per organizzare la nuova colonna, decidendo l’«autofinanziamento» o esproprio non solo con rapine a banche, ma colpendo nomi noti del capitalismo italiano. La Cagol, Curcio e Moretti concordarono il sequestro dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia, proprietario della famosa azienda vinicola. Sequestrare personaggi legati all’industria era una prassi diffusa nell’America Latina presso i gruppi rivoluzionari proprio a scopo di autofinanziarsi per proseguire con la lotta rivoluzionaria. I capi brigatisti prevedevano che l’azione sarebbe stata facile anche perché conoscevano bene il territorio tra Canelli (provincia di Asti) e Alessandria. Si era pensato di chiedere un riscatto da un miliardo di lire e di concludere le modalità del suo rilascio in pochi giorni. Il sequestro avvenne il 4 giugno del 1975. Renato Curcio, visto che era evaso da pochi mesi e che la sua foto segnaletica era diffusa ormai in tutta Italia, si decise di escluderlo dall’azione, diretta ed eseguita dalla consorte. Gancia era stato portato in una cascina in località Spiotta d’Arzello vicino ad Acqui Terme. L’operazione era sembrata facile, solo che due giovani brigatisti, per giunta inesperti, con la loro auto provocarono un incidente automobilistico con un’altra vettura, un’utilitaria Fiat 500. I due brigatisti si dichiararono disponibili ad assumersi la responsabilità dell’accaduto. Della vicenda vennero informati i carabinieri che accorsero sul posto, ma appena giunsero trovarono un solo brigatista, il quale si diede alla fuga, ma che fu in seguito catturato e poi tradotto al comando. Venne accertato che si trattava di Massimo Maraschi. Gli inquirenti, che già erano stati posti in allarme per il sequestro dell’industriale, inizialmente non pensarono minimamente che esso fosse stato sequestrato dalle Brigate Rosse. Ma la presenza di Maraschi e del complice, autori del già menzionato incidente d’auto, era a pochi passi dal luogo del sequestro. Poi il Maraschi stesso ammise tutto. Quindi ormai era evidente un collegamento. Il giorno successivo una pattuglia di carabinieri guidata dal tenente Umberto Rocca nel corso di una serie di pattugliamenti individuò la cascina dov’era prigioniero Gancia. I brigatisti, appena videro la pattuglia, iniziarono a lanciare bombe a mano e si diedero alla fuga. Il tenente Rocca rimase ferito a un occhio e al braccio sinistro. Margherita Cagol rimase uccisa nel conflitto a fuoco. Vallarino Gancia alla fine venne liberato.


Anche i giornalisti nel mirino dei terroristi

Anche la stampa era entrata nel mirino dei brigatisti, perché svolgeva secondo i terroristi una funzione di «azione controrivoluzionaria» e i giornalisti erano considerati «Servi del Regime». Il 1° giugno 1977 a Genova venne ferito il Direttore de «Il Secolo XIX», Vittorio Bruno, poi a Milano venne gambizzato Indro Montanelli (2 giugno 1977). A sparare contro Montanelli è stato un commando composto da tre persone, ossia Calogero Diana, Franco Bonisoli e Lauro Azzolini. Una cosa particolare di quell’episodio e che ci furono ambienti della buona borghesia milanese di idee progressiste, come Montanelli annotò nei suoi diari, i quali brindarono al suo attentato e deprecarono che fosse sopravvissuto: i salotti di Inge Feltrinelli e di Gae Aulenti. Inge Feltrinelli, non dimentichiamo, era la moglie del compianto Gianfranco, ideologo della rivoluzione e fondatore dei primi gruppi Gap nel 1969-1970 e morto tragicamente a Segrate nel 1972.

Il 3 giugno a Roma rimase ferito Emilio Rossi, Direttore del TG1. Un altro giornalista, Carlo Casalegno, Vicedirettore del quotidiano torinese «La Stampa», finì tragicamente ucciso sotto il piombo brigatista (16 novembre 1977), colpevole di essersi scagliato contro i terroristi con i suoi articoli chiedendo che venissero applicate le leggi ordinarie. Il commando di fuoco era composto da quattro uomini: Raffaele Fiore, Patrizio Peci, Piero Panciarelli e Vincenzo Acella. Casalegno era stato scelto come obiettivo a causa di un suo articolo, in cui incitava tutti a resistere al terrorismo. Da non dimenticare che in quei giorni drammatici a Torino si stava svolgendo il processo a Curcio e compagni e, di conseguenza, molti avvocati avevano rinunciato ad assumere la difesa dei brigatisti perché minacciati di morte. Infatti nell’aula del Tribunale di Torino il portavoce degli imputati presenti al processo, Maurizio Ferrari, aveva letto un comunicato, in cui praticamente giustificavano le loro lotte contro il regime anti proletario, sostenendo che non avevano bisogno per tale motivo di essere difesi, anzi invitavano i civilisti nominati d’ufficio ad astenersi, in quanto se non l’avessero fatto, sarebbero stati considerati «servi» e «complici» del regime. Fulvio Croce, Presidente dell’ordine avvocati di Torino, pagò con la vita l’aver dovuto accettare quell’incarico, anche ai sensi di una norma costituzionale, ossia l’articolo 130 del Codice di procedura penale che imponeva al Presidente dell’ordine di accettare l’incarico, in caso di rifiuto per molte defezioni.


Il sequestro di Aldo Moro: 55 giorni che tennero una Nazione col fiato sospeso

Il 16 marzo 1978, un commando di Brigate Rosse sequestrò il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. I due uomini della scorta, il Maresciallo Oreste Leonardi e l’Appuntato Domenico Ricci, entrambi carabinieri, vennero uccisi. Moro e i due carabinieri viaggiavano a bordo di una Fiat 130 seguita da un’Alfetta con a bordo tre poliziotti, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, anche loro sterminati. Ad aprire il fuoco furono i brigatisti Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli, travestiti da avieri Alitalia. Mario Moretti guidava una Fiat 128 con targa diplomatica, che bloccò la 130 dove viaggiava Moro. La terrorista Barbara Balzerani invece era rimasta a bordo della Fiat 128 a presidiare l’incrocio tra Via Fani e Via Stresa.

Per 55 giorni Moro rimase prigioniero dei terroristi in un cosiddetto «carcere del popolo», dove si tentò uno scambio con altri brigatisti detenuti dallo Stato. Il 9 maggio il suo cadavere venne ritrovato in un bagagliaio di una Renault 4 rossa in Via Caetani, a pochi isolati sia dalla sede della Democrazia Cristiana di Piazza del Gesù e sia da quella del Partito Comunista Italiano in Via delle Botteghe Oscure. Quel giorno si doveva votare la fiducia al nuovo Governo Andreotti, il quarto della storia repubblicana. Ma la novità consisteva che a votare la fiducia e a potere far parte del nuovo Governo era il Partito Comunista Italiano, dopo 30 anni di esclusione. Come e perché venne deciso il sequestro di Moro?

Prima di arrivare a sceglierlo come possibile bersaglio, secondo la testimonianza del terrorista Franco Bonisoli, in realtà si era pensato di rapire Giulio Andreotti oppure Amintore Fanfani. Poi si accertò alla fine che rapire Andreotti era impossibile perché godeva di una forte protezione della polizia difficile da annientare. Rapire una personalità importante come Moro era un vero colpo al cuore dello Stato, alla Democrazia Cristiana, definita un vero regime simbolo delle Multinazionali Imperialiste a cui l’Italia era asservita. Le Brigate Rosse definivano il Partito Comunista italiano asservito al regime democristiano, di cui Moro era una sorta di gerarca autorevole e di conseguenza un avversario da battere. Le Brigate Rosse si volevano proporre alla guida della sinistra italiana per attuare la rivoluzione in Italia. Il rapimento di Moro e la sua atroce fine ricordavano il rapimento dell’Industriale e Presidente della Confidustria Tedesco-Occidentale Hans Martin Schleyer, avvenuto in Germania a opera dei terroristi di estrema sinistra RAF (Rote armee fraktion) nel 1977.

Dopo l’agguato la notizia si sparse per tutto il Paese: tutte le attività lavorative interrotte, le lezioni scolastiche interrotte prima per organizzare delle assemblee gestite dagli studenti, le trasmissioni radiofoniche interrotte per dare spazio alle edizioni straordinarie. La vicenda tenne tutto il Paese col fiato sospeso, come ai tempi dell’attentato a Togliatti nel 1948. La prima rivendicazione venne fatta dal terrorista Valerio Morucci con una telefonata alla sede dell’Ansa: «Questa mattina abbiamo sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato: Brigate Rosse». Successivamente i terroristi in un nuovo messaggio rilasciato la sera del 16 marzo alla sede Ansa di Torino, chiesero in cambio della vita dell’ostaggio il rilascio di 48 brigatisti detenuti in quella città. La Democrazia Cristiana non era intenzionata a piegarsi ai ricatti. Questi 55 giorni di prigionia furono caratterizzati dai nove comunicati che le Brigate Rosse avevano inviato alla stampa, per esempio nel primo era annunziato che avevano appena concluso l’azione di sequestro di Aldo Moro e l’uccisione dei cinque uomini della sua scorta. Essi usavano un tono antimperialista, definendo il leader della Democrazia Cristiana «gerarca autorevole» succeduto a De Gasperi ed esecutore della politica cosiddetta di «controrivoluzione imperialista» voluta dal regime democristiano. Ma anche le lettere scritte da Moro in quei giorni drammatici e dirette agli uomini del suo partito, rendono evidente la sua amarezza per come stavano seguendo la sua vicenda. Per esempio, nella lettera datata 8 aprile scriveva: «Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente a una carica che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri». Alcune lettere però non arrivarono mai ai diretti destinatari, anzi alcune furono ritrovate mesi dopo la sua morte in un covo brigatista a Milano in Via Monte Nevoso, altre ancora addirittura nel 1990, sempre nello stesso appartamento, durante alcuni lavori in corso. Era stata comunque azzardata l’ipotesi che quanto aveva scritto Moro, fosse stato fatto sotto «dettatura» da parte delle Brigate Rosse. C’era chi invece sosteneva che avesse subìto una sorta di «lavaggio del cervello». Insomma, non erano lettere autentiche. Anche Papa Paolo VI, fece un appello affinché i terroristi lo restituissero alla sua famiglia. Circa la linea da adottare, il mondo politico era diviso: da un lato Democrazia Cristiana, Partito Socialdemocratico Italiano, Partito Liberale Italiano e i Repubblicani erano contrari a trattative con i terroristi, invece il Partito Socialista Italiano guidato da Bettino Craxi era per una linea di dialogo. Il Partito Comunista Italiano e il Movimento Sociale Italiano si espressero per la durezza assoluta. La morte di Moro, a 40 anni di distanza attende ancora delle risposte. Steve Pieczenick, consulente americano dell’allora Presidente Carter, era stato inviato a Roma per aiutare i servizi segreti italiani a scovare e salvare Moro. Però capì che la situazione era molto diversa da quella che poteva apparire, nel senso che si temeva a Wahington, ma anche presso i politici italiani alleati degli Stati Uniti, una possibile destabilizzazione politica dell’Italia, considerata l’anello debole dell’Alleanza Atlantica. Nemmeno la CIA, guarda caso, aveva fornito un dossier esauriente sulle Brigate Rosse. A Washington, si temeva che il compromesso tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano e l’ingresso di quest’ultimo, dopo 30 anni di esclusione, nel Governo potesse avere un effetto devastante per la situazione interna e l’economia del Paese. Si temeva sempre che il Partito Comunista Italiano e Berlinguer raggiungessero un forte consenso e poi il potere. E appunto per questo non si tolleravano questi segni di cedimento da parte del leader democristiano. Gli Americani temevano che questa apertura potesse essere un pericolo anche dal punto di vista militare per la NATO, in quanto molti segreti sarebbero finiti ai Sovietici e poi, con i comunisti al Governo, essi sarebbero stati cacciati dalle basi militari presenti sul suolo italiano. Sia gli Americani, ma anche lo stesso Francesco Cossiga, preferirono non trattare onde scongiurare questi pericoli, anche se il prezzo da pagare sarebbe stato la vita di Moro. Per Pieczenick e per Cossiga si è trattato di una scelta dolorosa.

Con gli Americani il rapporto non era mai stato idilliaco sin dal 1964, epoca delle prime aperture verso la sinistra, ma anche per via dell’autonomia politica di Moro nei confronti degli Stati Uniti, come per esempio quando spinse l’Italia a un dialogo con il mondo arabo e poi quando appoggiò l’ingresso della Cina nell’ONU. Dobbiamo infatti ricordarci di un incontro avvenuto a Washington nel 1974 con l’allora Capo di Stato Americano Henry Kissinger, il quale gli disse: «Se non cambi la tua linea politica, la pagherai cara». Le minacce provenienti da oltreoceano si accentuarono a partire dal 1973. Di quell’incontro con Kissinger ne aveva parlato Corrado Guerzoni, suo fedele collaboratore per tanti anni, il quale disse che il leader democristiano era rimasto deluso dell’atteggiamento degli Americani, ritenendo che non avessero capito nulla della reale situazione difficile in cui si trovava l’Italia. Guerzoni inoltre aveva detto che Moro intendeva fare una dichiarazione al quotidiano milanese «Il Giorno» in cui si parlava proprio di Kissinger, e poi inoltre parlò di una misteriosa sparizione di documenti dallo studio di Moro e fatti giungere alle Brigate Rosse. Il giornalista Mino Pecorelli, ammazzato poi nel 1979, aveva scritto di una certa loggia contraria alla sua liberazione, proprio quando il Generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa riferì all’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti di avere individuato la sua prigione e di volere fare intervenire i suoi uomini con un blitz. Tale loggia massonica probabilmente era la P2, della quale alcuni anni dopo il sequestro era stato trovato un documento contenente i nomi di uomini delle istituzioni e delle forze armate, tra cui il Generale Giuseppe Santovito, capo del SISMI. Si è parlato di un coinvolgimento diretto dei servizi segreti italiani nella vicenda, di un loro alto ufficiale presente sul luogo al momento dell’agguato. I servizi erano addirittura in connessione con lo Stato per la linea dura, quella di non trattare. Alcuni ufficiali dei servizi segreti a Beirut nel maggio 1978 stavano trattando con l’OLP di Yasser Arafat, affinché quest’ultimo intercedesse presso i vertici brigatisti per la liberazione dell’ostaggio in cambio del rilascio dei brigatisti incarcerati. L’operazione fallì, perché un esponente dell’OLP, Bassam Abu Sharif, aveva informato i servizi segreti di un Paese dell’Europa Occidentale, che ne informò il SISMI. Gli uomini di questa fallita trattativa, ossia il Colonnello Stefano Giovannone e i suoi collaboratori, furono poi allontanati dal SISMI, costretti alle dimissioni o al pensionamento. Il giorno dopo Moro venne ucciso. Questi retroscena vennero rivelati all’agenzia giornalistica Ansa nel 2008 dal terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez alias «Carlos», noto per le sue idee leniniste e filoislamico. Si era ipotizzato un coinvolgimento dell’Unione Sovietica, cioè che il rapimento fosse stato addirittura organizzato dal servizio segreto sovietico (KGB). Gli Americani dal canto loro stabilirono che Moro in fondo non avesse saputo nulla di importanti segreti della NATO.


Bibliografia

Pino Casamassima, Il Libro Nero delle Brigate Rosse: gli episodi e le azioni della più nota organizzazione armata dagli anni di piombo fino ai giorni nostri, Newton Compton editori, Roma 2007

M. Moretti, C. Mosca, R. Rossanda, Brigate Rosse. Una storia italiana, Anabasi, Milano 1994

Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica: storia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano 2016

Emmanuel Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro, Cooper edizioni.

(maggio 2019)

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