Come prima e come sempre
Il Gattopardo: una filosofia politica di costante attualità

Qualora si voglia «che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi». La pensosa affermazione del Principe di Salina, protagonista del celebre romanzo storico di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sintetizza l’essenza del conservatorismo in un tagliente aforisma che non esprime il pensiero di una vecchia aristocrazia logorata dalla legge del tempo come quella borbonica, ma esterna un sentimento popolare molto diffuso e convalidato dall’esperienza italiana, dalle Alpi alla Sicilia. In effetti, quanto va accadendo da tre quarti di secolo ne costituisce una dimostrazione probante.

Nel campo politico, i vari Governi della «solidarietà nazionale» o della «non sfiducia» andarono a sostituire quelli del «progresso senza avventure» o delle «convergenze parallele», con esclusione di traumi che non fossero puramente semantici; più tardi, con la stagione di «mani pulite» parve giunto il momento di tornare a un’antica pregiudiziale rigorista, ma alla resa dei conti il sistema ha finito per adagiarsi in contesti oscillanti fra un quadro da avanspettacolo e una sorta di frenetico attivismo incapace di eliderne la sostanziale carenza etica. Il tutto, lontano anni luce dall’antica definizione dell’impegno politico, inteso come arte di agire nella vita associata con lo scopo di perseguire il bene comune e l’interesse generale.

Il recente avvento del cosiddetto «Governo del cambiamento» (2018) è sembrato coincidere con una svolta storica, tale da sovvertire l’amara e realistica conclusione del Principe di Salina, ma le sue prime mosse sembrano avere innescato un ulteriore avvitamento della crisi, non disgiunto da valutazioni internazionali della congiuntura italiana sempre più critiche, con effetti conseguenti sul piano degli equilibri finanziari, degli investimenti e dello sviluppo. Qualche buona intenzione non è mancata; nondimeno, come tutti dovrebbero sapere, le vie dell’Inferno sono lastricate proprio dalle buone intenzioni, in specie quando non siano supportate dalla competenza e dalla riflessione, ma improntate a una facile demagogia di permanente valenza elettorale.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di ogni cittadino. Il debito pubblico, grazie all’apporto di tutti i Governi, a prescindere dalle diverse estrazioni politiche, ha raggiunto un’incidenza sul prodotto interno lordo largamente superiore alla media europea, e risulta superiore al doppio di quanto statuito nel Trattato di Maastricht, tanto che ogni cittadino è indebitato per una cifra molto più alta del suo reddito medio. I tempi di Quintino Sella o quelli di «quota novanta» sono una pallida reminiscenza riservata agli specialisti.

La recessione morale è ancora più grave di quella economica: troppi giovani coltivano soltanto sogni di facile successo nel mondo dei calciatori, dei cantanti o delle «veline», mentre talune persone mature di riferimento trovano un impegno a tutto campo nella finanza d’assalto e qualche volta nell’usura. Intanto, l’utilizzo della droga seguita a crescere alimentando quote sempre più ampie di delinquenza organizzata, e non solo di quella proveniente dall’immigrazione clandestina. La «dittatura del consumismo» cui si fanno diffusi riferimenti, non solo giornalistici, induce modelli di comportamento che hanno «gradualmente conquistato l’aspetto intellettuale della vita psichica» con l’apporto decisivo della «seduzione pubblicitaria trasmessa dai mezzi di comunicazione di massa».

Chi consideri in maniera oggettiva la realtà dei fatti, secondo la prescrizione machiavelliana, e prescinda dalle facili apparenze, dovrà convenire che oltre le etichette esteriori nulla è veramente cambiato, se non «in pejus».

Basti dire che l’Italia ha ripudiato la guerra nella solenne affermazione della sua Carta Costituzionale, ma partecipa da anni a operazioni belliche dell’Occidente «civile» come quelle svolte in Afghanistan, Iraq, Libano, Serbia, e via dicendo, nel tentativo di importarvi una democrazia generalmente improbabile, e mettendo a forte rischio la vita dei suoi figli migliori. Basti aggiungere che gli Istituti di credito, compresi quelli a matrice pubblica, continuano a perseguire strategie di profitto massimizzato lontane più di prima dalla trasparenza e dal ruolo di supporto allo sviluppo che sarebbe di loro dichiarata competenza. Basti concludere rammentando che i Sindacati dei lavoratori, lungi dall’impegnarsi in programmi di occupazione, sono arroccati su posizioni di tutela del privilegio di chi possiede un salario, e sostanzialmente inclini alla conservazione, che un acuto osservatore della realtà storica e della psicologia umana come Gaetano Salvemini aveva definito, già da tempi lontani e insospettabili, come comportamento ricorrente, tipico di chi «si trova benone come sta».

In questo clima da basso Impero, reso effervescente da spettacoli televisivi spesso deteriori e da vicende di «gossip» che hanno funzioni analoghe a quelle degli antichi giochi del circo rivolti a tenere buona la plebe, non sorprende che nulla cambi, e che discriminazioni e prevaricazioni siano sempre all’ordine del giorno.

Per citarne qualcuna, alcuni infoibatori ex jugoslavi tuttora in vita continuano a percepire la pensione dell’INPS, percepita a fronte di servizi minimi resi all’Italia, e a farsi beffe di una giustizia mai tanto latitante come quella applicata (si fa per dire) nei loro confronti dichiarando il non luogo a procedere per una fantomatica incompetenza territoriale; e gli ultimi veterani della Repubblica Sociale Italiana, in spregio agli auspici di conciliazione saltuariamente promossi da qualche alta cattedra, continuano a vedersi negare qualsiasi riconoscimento morale, giuridico ed economico da parte di una volontà politica legata tuttora alla tesi partigiana del «fronte sbagliato».

L’Italia è fedele al rango di Stato a sovranità limitata acquisito da tre quarti di secolo e pervicacemente mantenuto e accresciuto con dimostrazioni talvolta aberranti come quella del 1975, quando la stipula del Trattato di Osimo coincise con la rinuncia senza contropartite a una quota importante di territorio nazionale: la zona «B» del mai costituito Territorio Libero di Trieste. In proposito, è il caso di rammentare che, se avesse avuto fondamento giuridico la tesi di quanti sostennero che la cessione aveva avuto già luogo col Memorandum di Londra del 1954, non ci sarebbe stato bisogno di sottoscrivere un patto surreale come quello firmato a Villa Leopardi, in un’atmosfera carbonara, da Milos Minic e Mariano Rumor.

Si potrebbe pensare che l’affievolimento della sovranità sia stato un effetto della resa incondizionata pretesa dagli Alleati nel 1943 in modo senza dubbio miope, perché il risultato – come lo storico Andreas Hillgruber ha posto in giusta evidenza – avrebbe potuto essere «ottenuto anche senza una simile esasperazione degli obiettivi di guerra»; ma non sfugge come ben diversa sia stata la capacità reattiva a medio e lungo termine degli altri Stati che subirono la stessa sorte, quali Germania e Giappone. Del resto, il Generale Dwight Eisenhower, Comandante in capo degli eserciti alleati, affermò che l’armistizio, per il modo in cui venne gestito dal Governo Badoglio, fu uno «sporco affare», mentre il Generale Harold Alexander aggiunse, con una sintesi non meno icastica, che l’Italia non lo aveva chiesto per avere esaurito la sua capacità bellica, ma per affrettarsi a «salire sul carro del vincitore».

Anche Bettino Craxi, sebbene sia stato il solo Presidente del Consiglio italiano capace di confrontarsi duramente con gli Stati Uniti in occasione della vicenda di Sigonella, si rese responsabile di scelte opinabili sul piano della «Realpolitik» (a parte il contributo al disastro economico dato dal suo Governo in misura piuttosto rilevante) quando fece riparare a Belgrado il terrorista islamico Abul Abbas, responsabile del dirottamento della nave da crociera Achille Lauro e della proditoria uccisione di un turista americano per giunta invalido, non senza avere dichiarato «partner di assoluta preferenza» una Jugoslavia già allo sfascio, che nel giro di pochi anni sarebbe crollata come un castello di carte.

Gridare allo scandalo sarebbe corretto ma inutile, essendo di solare evidenza che in Italia prospera come non mai il «particulare» di Francesco Guicciardini e che la «salvezza dello Stato» (fine ultimo dell’azione politica teorizzata dal Segretario Fiorentino: il sommo Nicolò Machiavelli) vive nella sfera dell’utopia, a prescindere dai comprensibili dubbi sull’esistenza stessa dello Stato. Nondimeno, chi «rifletta con mente pura» e faccia proprio il grande sogno di Giambattista Vico ha tutte le buone ragioni per dissociarsi da quanti sostengono, non da oggi, che esisterebbero cambiamenti di grande spessore all’insegna di un presunto progresso morale, politico e spirituale praticamente indefinito al pari di quello tecnologico, l’unico realmente vero.

L’attualità del Gattopardo Principe di Salina, e della sua realistica interpretazione di uomini e cose, è destinata ad avere un lungo futuro.

(settembre 2018)

Tag: Carlo Cesare Montani, Principe di Salina, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Quintino Sella, Trattato di Maastricht, Gaetano Salvemini, Trattato di Osimo, Territorio Libero di Trieste, Memorandum di Londra, Milos Minic, Mariano Rumor, Andreas Hillgruber, Dwight Eisenhower, Harold Alexander, Pietro Badoglio, Bettino Craxi, Abul Abbas, Francesco Guicciardini, Nicolò Machiavelli, Giambattista Vico, Gattopardo, Governo del cambiamento, politica italiana.