Il debito pubblico italiano
Un futuro per il nostro paese molto difficile

Debito pubblico pesante, bassa crescita economica, pressione fiscale elevata, sono tre fattori fortemente legati fra loro, coinvolgono molti altri elementi socio-economici e risultano ben presenti nel nostro paese, ma l’impatto di essi vede gli economisti in disaccordo.

Oggi lo spread (rendimento dei titoli pubblici italiani rispetto a quelli tedeschi) è più basso rispetto al periodo della crisi greca 2011-2012, ma la questione è comunque complessa. Il nostro spread è più basso perché la Banca Centrale Europea ha proceduto ad acquisti massicci di tali titoli, ma nel periodo terribile della crisi greca il nostro differenziale di rendimento con i titoli tedeschi era più basso di quello di Spagna e Portogallo, mentre oggi è il più alto in Europa insieme a quello della Grecia. Viene da chiedersi, se non ci fosse stato l’intervento della BCE saremmo oggi in default, ovvero in bancarotta al di là delle questioni terminologiche? Noi siamo storici e non amiamo le ipotesi, però ci viene da dire che difficilmente nel corso della storia recente e passata si sono visti casi di debito pubblico elevato e buona crescita economica. Notiamo che l’Italia è uno dei pochi paesi che ancora oggi presenta un Prodotto Interno Lordo inferiore a quello del 2008 quando si ebbe la crisi dei mutui subprime e il crack di Lehaman Brothers.

Non consideriamo ovviamente i fatti recentissimi legati al lockdown, perché non possiamo ancora farne un quadro economico preciso. Prendiamo il triennio 2015-2017 (dati annuali):


Paese


Crescita PIL


Debito pubblico


Pressione fiscale


Pressione fiscale effettiva



Italia

1,2
131,8
44,1
53,2


Francia

1,4
97
47,8
49,5


Germania

1,8
64,1
39,4
non disponibile


Gran Bretagna

2,2
87,7
37,3
40


Spagna

2,9
98,3
34,2
37,6

Risulta piuttosto evidente che le nazioni con un debito pubblico elevato come Italia e Francia hanno una bassa crescita economica, in particolare il nostro paese, considerato a rischio per gli investimenti, ancora più significativa è la relazione fra pressione fiscale elevata e bassa crescita economica, praticamente il rapporto è stretto e proporzionale. A conferma di tale situazione abbiamo i dati su Belgio e paesi scandinavi con pressione fiscale alta e bassa crescita economica, mentre due paesi dell’OCSE con tassazione molto bassa, gli Stati Uniti e l’Irlanda con una pressione fiscale intorno al 25%, presentano un tasso di crescita rispettivamente del 3 e del 6%.

Gli economisti hanno introdotto in anni recenti il concetto di pressione fiscale effettivo diverso da quello ufficiale. La ragione di tale nuova categoria è semplice, nel calcolo del Prodotto Interno Lordo è stato introdotto negli ultimi anni il dato, ovviamente presunto, della economia illegale e di quella sommersa. L’idea a prima vista singolare, non è errata, però crea una alterazione sul calcolo della pressione fiscale, le attività illegali o sommerse ampliano il PIL, ma ovviamente non contribuiscono al gettito fiscale che ricade interamente su quelli che potremmo chiamare gli operatori economici onesti.

Anche Giappone e Stati Uniti hanno un debito pubblico elevato in rapporto al PIL, ma la questione presenta aspetti diversi. Il Giappone per una particolare situazione contabile considera il debito dello stato verso alcuni importanti enti pubblici, in pratica un debito verso se stesso, mentre gli Stati Uniti hanno una crescita economica costante e notevole accompagnata da una pressione fiscale molto bassa, come dire l’Italia ha dato fondo alle sue riserve, la nazione americana ha molto a cui attingere in caso di necessità.

Socialisti, keynesiani e in una certa misura populisti euroscettici ritengono positiva una forte spesa pubblica, la spesa pubblica significa grandi erogazioni di denaro a famiglie e imprese, ma senza addentrarci in grandi teorizzazioni, tale distribuzione di ricchezza è apparente, lo stato elargisce coi soldi dei contribuenti, come dire fare regali coi soldi del beneficiario. Lo stato e i suoi funzionari non sono i soggetti più adatti a gestire le attività produttive, il buon senso ci dice che il migliore gestore di denaro è il proprietario dello stesso, che ci tiene alla sua cura. Negli ultimi anni abbiamo avuto una variante di tale visione economica, gli investimenti pubblici sarebbero particolarmente utili alla società, se così fosse l’Unione Sovietica, la Cina Popolare e gli altri paesi comunisti del Novecento sarebbero dovuti divenire paesi eccezionalmente ricchi.

La domanda aggregata, ovvero i consumi hanno un effetto positivo sull’economia, questo era vero soprattutto ai primi del Novecento quando una massa di esseri umani consumava poco a causa del suo basso reddito. L’aumento della domanda significa maggiori vendite per le imprese e quindi uno stimolo alle attività produttive, ma a certe condizioni: una pressione fiscale non eccessivamente onerosa, un mercato del lavoro privo di eccessivi vincoli, una burocrazia che non impedisca direttamente o indirettamente l’apertura o l’ampliamento delle attività economiche, infine che gli esseri umani abbiano fiducia nel loro futuro, diversamente prevale la tendenza verso il risparmio per fare fronte a possibili periodi di difficoltà. Nel 2019 è stato introdotto in Italia il reddito di cittadinanza interamente destinato al consumo, il suo effetto sul sistema economico produttivo è stato minimo, diversamente da quanto ritenevano i keynesiani la spesa pubblica e lo stimolo della domanda da soli non sembrano efficaci per migliorare la situazione economica.

La pressione fiscale alta ha diverse ricadute sul sistema economico. Disincentiva le attività economiche (imprenditoriali e di altro tipo), riduce i consumi e gli investimenti, almeno quelli privati, rende i propri prodotti meno concorrenziali rispetto a quelli esteri, infine spinge le aziende a operare all’estero (delocalizzazione) e determina un’analoga spinta a investire in altri paesi. Infine va detto che la pressione fiscale eccessiva alterando in maniera negativa il sistema economico, determina uno squilibrio produttivo a favore delle attività meno colpite (o dove è possibile l’evasione e l’elusione fiscale) e in maniera singolare provoca un calo delle entrate tributarie. Questa tendenza venne espressa con particolare precisione dall’economista Arthur Leffer che ispirò la politica del presidente americano Ronald Reagan che dopo alcune difficoltà iniziali diede come sappiamo ottimi risultati. Interessante notare anche la riduzione della pressione fiscale operata nel 2017 dal presidente Trump, nonostante che l’economia già marciasse a ritmo sostenuto, la riforma ebbe effetti positivi sulla occupazione e sulla crescita economica in generale. Al contrario l’aumento dell’Iva in Giappone a ottobre 2019 dall’8 al 10% ha avuto conseguenze molto pesanti, contribuendo al calo di oltre il 7% del PIL nell’ultimo trimestre di quell’anno.

Gli euroscettici in qualche modo si avvicinano al pensiero socialista, credono molto in artifizi creditizi, nella economia cartacea (diversa da quella produttiva di beni e servizi) e che il cambio della moneta porti per ragioni non molto chiare a un miglioramento economico. Molti di loro ritengono che il debito pubblico non sia un grande problema, convinti che un creditore si troverà sempre, teoria probabilmente poco realistica. Il libero scambio e la cooperazione, almeno fra paesi omogenei, cioè con un sistema fiscale e un mercato del lavoro simile, comporta vantaggi per tutte le parti. Il Miracolo Economico italiano degli Anni Cinquanta fu dovuto in gran parte all’ampliamento dei mercati, le istituzioni europee come tutte le strutture umane hanno i loro limiti, ma i benefici si può ritenere superino gli inconvenienti.

Lo stato dispensatore di beni, che provvede a ogni necessità, è un mito dei socialisti di ogni tempo, difficile tuttavia distribuire ricchezza se prima non la si produce. Le istituzioni non possono tappare le falle continuamente, occorre che il sistema economico sia il più possibile autosufficiente, solo eventi economici straordinari possono essere affrontati dallo stato che deve poi nei periodi prosperità recuperare in qualche modo ciò che ha concesso in tempi di magra. Altrettanto appare poco valida l’idea di realizzare un sistema economico partendo dal mondo dei desideri, con retribuzioni molto alte, garanzie e interventi dello stato sempre disponibili, più costruttivo appare l’approccio di chi studia la situazione economica in cui vive e opera scelte per migliorarla, cosciente dei limiti che ogni soluzione comporta. La diatriba fra rigoristi e sostenitori di un continuo ampliamento delle finanze rischia di essere sterile, non c’è a priori una politica valida, va adattata alla situazione che si vive, difficile non essere rigoristi se i creditori e gli investitori diventano diffidenti verso lo stato emittente del credito.

La pressione fiscale in Italia non è solo eccessiva, comporta una spesa notevole per consulenti commercialisti e uno studio delle imposte che sottrae tempo da dedicare alle attività produttive. Con il Portogallo e la Bulgaria, l’Italia è il paese europeo dove è più complicata la normativa fiscale. La Banca Mondiale ritiene che a una piccola impresa italiana, ogni anno, occorrono in media 29,7 giorni lavorativi solo per la documentazione necessaria. La media UE è di 18 giorni. Le tasse da pagare sono infatti molto numerose, complessivamente circa un centinaio.

La pressione fiscale italiana appare sperequata e la tassazione sulle imprese risulta decisamente molto alta. Dai dati di Banca Mondiale e CGIA, in testa c’è la Francia con il 60,7%, segue l’Italia con il 59, 1%, il Belgio con il 55,4%, la Germania sta al 48,8% e l’Irlanda al 23%, la media europea si ferma al 38,9%. Anche in questo caso vediamo una relazione molto significativa fra imposizione fiscale e basso sviluppo economico. Altre fonti riportano che il peso del fisco sulle piccole e medie imprese sia nel nostro paese del 68,3%, il maggiore in tutta Europa. Inoltre elevati appaiono anche i contributi previdenziali e il cuneo fiscale, nonché le tasse specifiche su beni e servizi. Si può ritenere che fra i vari mali che affliggono la nostra economia quello fiscale sia il principale e la causa di fondo di tutti gli altri.

L’esperienza storica ci dice che un sistema economico è efficiente quando le sue componenti, capitale, imprese, lavoro, sono in equilibrio fra loro, diversamente da quanto ritenevano i marxisti se una componente è vessata ne risentono negativamente tutte le altre, ovvero il sistema economico nel suo complesso. Le aziende italiane sono le più penalizzate in Europa e questo comporta minore produzione di beni e servizi e maggiore disoccupazione.

Non esiste un livello di debito pubblico oggettivamente insostenibile, il debito raggiunge tale situazione quando i creditori perdono fiducia nello stato debitore, quindi diversi sono i fattori che contribuiscono al collasso economico dello stato. Nel marzo 2020 il Libano, con le sue grandi banche, ha dichiarato bancarotta con un debito pubblico calcolato fra il 150-170% del PIL, una cifra piuttosto vicina a quella che raggiungerà lo stato italiano nei prossimi mesi. Difficile dire se l’Italia andrà verso il default o la cosiddetta ristrutturazione del debito che può essere molto simile, viene comunque da ritenere che se non ci saranno cambiamenti di politica economica importanti il nostro paese è destinato a una lunga stagnazione economica.

(luglio 2020)

Tag: Luciano Atticciati, debito pubblico, spesa pubblica, pressione fiscale eccessiva, pil, crescita economica, Arthur Laffer, Libano, socialisti, keynesiani, spread, debito pubblico italiano.