Democrazia Nazionale
Anni Settanta: scissione a Destra e bocciatura elettorale

Il 21 dicembre 1976 fu una data importante nella storia della Destra italiana: infatti, quel giorno vide il battesimo di Democrazia Nazionale, un nuovo raggruppamento politico costituito da esponenti del Movimento Sociale Italiano che non si riconoscevano più nella linea del partito, accusando la Segreteria di averlo sostanzialmente estromesso dall’agone politico, isolandolo in una posizione nostalgica. Eppure, le elezioni del 1972 avevano coinciso con la massima espansione storica del Movimento Sociale Italiano, che aveva ottenuto 56 seggi alla Camera e 26 al Senato, attestandosi intorno al 9% dei suffragi, cui corrisposero tre milioni di voti, contro il mezzo milione dell’esordio (1948) quando i parlamentari eletti erano stati appena sei.

In realtà, le altre forze parlamentari riunite nel cosiddetto «arco costituzionale» (dai comunisti ai partiti di democrazia laica e dai cattolici ai liberali) si erano fatte premura di confinare il Movimento Sociale Italiano in una sorta di ghetto ideologico e di conseguente ostracismo che toglieva al partito buona parte dello spazio di manovra consentito dalla congiuntura politica del tempo. Nondimeno, non mancarono diverse occasioni di rilievo in cui il Movimento Sociale Italiano divenne protagonista attivo, come quando decise di schierarsi a fianco di alcune iniziative della Democrazia Cristiana a forte carattere etico, potenzialmente trasversali ma destinate al fallimento: accadde nel 1974 con la cosiddetta «crociata» contro il divorzio, nell’anno successivo con l’opposizione al nuovo diritto di famiglia e nel 1976 con quella sulla liberalizzazione dell’aborto.

Dal canto suo, il Movimento Sociale Italiano si fece paladino quasi unico dei valori nazionali, come accadde nel 1975 nella battaglia solitaria contro il trattato di Osimo, con cui l’Italia avrebbe ceduto alla Jugoslavia anche l’ultima parte Nord-Occidentale dell’Istria, già attribuita al Territorio Libero di Trieste: in tale circostanza, con l’ausilio personale di alcuni appartenenti alle forze governative, in aperto dissenso dai rispettivi partiti (fu il caso di alcuni democristiani come Paolo Barbi, Giacomo Bologna, Giuseppe Costamagna e Giorgio Tombesi, del socialdemocratico Fiorentino Sullo e del liberale Luigi Durand de la Penne, mentre tanti altri preferirono astenersi o eclissarsi).

I militanti missini, nel frattempo, continuavano a pagare un prezzo durissimo alla «dittatura d’assemblea» (come da pertinente definizione dell’insigne costituzionalista Giuseppe Maranini) sostenuta dalla maggioranza: fra i tanti, nel 1973 caddero i fratelli Stefano e Virgilio Mattei nel delitto di Primavalle, mentre l’anno dopo, nella federazione di Padova del Movimento Sociale Italiano, le Brigate Rosse uccisero Giuseppe Mazzola e Graziano Girolucci. Nel 1974, alle Vittime più note della Destra seguirono lo studente Mikis Mantakas del FUAN (Fronte Universitario di Azione Nazionale) freddato a Roma, e Sergio Ramelli del FDG (Fronte della Gioventù), scomparso a Milano dopo una violenta aggressione da parte di alcuni appartenenti a Potere Operaio, resa più atroce da circa due mesi di agonia.

D’altro canto, il Movimento Sociale Italiano non fruiva di una buona immagine, né tanto meno di favori ambientali. Non a caso, Arnaldo Forlani, tra i massimi esponenti della Democrazia Cristiana, sin dal 1972 aveva visto nella «Destra reazionaria» le cause del «più pericoloso dopoguerra» allora in atto, senza dire di alcuni arresti eccellenti per presunte iniziative di analoga matrice sovversiva: tra gli altri, si ricordano quelli del Colonnello Amos Spiazzi e del Generale Vito Miceli. Non basta: nel settembre 1975, l’Italia fu pervasa da un’ondata di sdegno per il «delitto del Circeo» compiuto a opera perversa di tre «pariolini» (Andrea Ghira, Giovanni Guido e Angelo Izzo) con l’uccisione di Maria Rosaria Lopez e il ferimento di Donatella Colasanti. Non si trattava di esponenti del partito, ma erano comunque noti per le simpatie di Destra extra-parlamentare, dando luogo a giudizi certamente affrettati se non anche impertinenti, ma destinati a sedimentare nella coscienza dell’uomo della strada.

In questo quadro di riferimento la linea del Movimento Sociale Italiano, confermata dal Segretario Giorgio Almirante nel Congresso del 1973, decimo della serie, non poteva essere diversa da quella di piena adesione alla dialettica democratica basata sul confronto, anche se nel breve e medio termine significava accettare un dignitoso isolamento all’opposizione, fatta eccezione per le rare occasioni di possibile convergenza con la Democrazia Cristiana, o per lo meno con le sue correnti più disponibili (dorotei e fanfaniani). La scissione del Movimento Sociale Italiano – con la conseguente costituzione di Democrazia Nazionale – venne a maturazione in detto clima, cui non fu estranea la disponibilità delle predette correnti democristiane a promuovere l’iniziativa dei dissidenti, sia pure in maniera sostanzialmente vaga, come da prassi in uso nella dialettica politica.

Al momento della scissione il Movimento Sociale Italiano, in seguito alle elezioni del 20 giugno, poteva contare su una pattuglia parlamentare notevolmente ridimensionata rispetto a quella del 1972 e ridotta a 50 Deputati e Senatori. Il partito perse quasi un milione di voti con un’emorragia di quasi un terzo rispetto al citato massimo della consultazione precedente, cosa che apparve indice di stanchezza e d’immobilismo. A parte le ragioni collaterali di cui si è detto, comunque complesse e suscettibili di letture alternative, la causa fondamentale della scissione fu proprio la crisi elettorale.

Le distanze diventarono insanabili: un mese dopo il «pronunciamento» di dicembre, la fondazione ufficiale di Democrazia Nazionale – Costituente di Destra, affidata alla Segreteria di Ernesto De Marzio, diede luogo a nuovi Gruppi parlamentari che sottrassero metà degli effettivi a quelli del Movimento Sociale Italiano, il cui XI Congresso, tenutosi pochi giorni prima, aveva confermato un’ampia fiducia alla lista di Almirante (Unità nella chiarezza), con circa due terzi dei voti, ferme restando la fedeltà alla bandiera da parte di Pino Rauti (Unità futura) e quelle meno importanti di Massimo Anderson e Pietro Cerullo (Destra popolare) che del resto avrebbero avuto durata breve[1].

Il nuovo partito vedeva la luce all’inizio della legislatura e quindi aveva la possibilità di prepararsi bene alla lontana prova elettorale che salvo il rischio di scioglimenti anticipati delle Camere si sarebbe dovuta affrontare dopo un quinquennio. Nondimeno, i Gruppi parlamentari di Democrazia Nazionale non ebbero modo di assumere iniziative veramente qualificanti, mentre convennero sull’opportunità di evitare una scissione anche nella CISNAL (Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori). Nelle nuove battaglie per la ratifica del trattato di Osimo mantennero orientamenti coerentemente unitari con quelli del Movimento Sociale Italiano, la cui linea di maggiore intransigenza trovava conforto anche nei ripetuti delitti a danno della Destra, come l’uccisione di Stefano Pistolesi nel dicembre 1977, seguita in gennaio da quelle di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta (entrambi appartenenti al Fronte della Gioventù) e di Stefano Recchioni del Fronte Universitario di Azione Nazionale. Era solo l’inizio, perché nel breve spazio temporale del successivo semestre si ebbero altri 23 Caduti in analoghi agguati.

Sul piano politico, Democrazia Nazionale si distinse dal Movimento Sociale Italiano per avere votato con la maggioranza, nel novembre dello stesso anno, per l’entrata nello SME (Sistema Monetario Europeo) e per avere organizzato un Convegno sull’Europa di considerevole rilevanza mediatica.

Poi sopravvenne la fine anticipata della legislatura, con le dimissioni del quarto Governo Andreotti a fronte della crisi irreversibile in cui era entrata la cosiddetta «solidarietà nazionale» (gennaio 1979). Il momento del «redde rationem» fu costituito dalle elezioni di giugno dello stesso 1979, quando il Movimento Sociale Italiano, nonostante gli attacchi provenienti dalla maggioranza e dalla stessa Democrazia Nazionale, riuscì a conservare circa due milioni di voti e 43 parlamentari, mentre il «flop» della medesima Democrazia Nazionale fu totale, tanto più che lo scioglimento imprevisto delle Camere aveva trovato il partito in alto debito di preparazione: al suo battesimo con le urne, che sarebbe diventato anche il sepolcro, raccolse 220.000 voti per la Camera e 140.000 per il Senato senza ottenere alcun seggio, e quindi senza poter rieleggere nessuno degli uscenti. Soluzione obbligata fu quella dello scioglimento, compiuto nel breve termine e formalizzato in dicembre: alcuni esponenti si schierarono con la Democrazia Cristiana, ma senza apprezzabili fortune avvenire, mentre altri si ritirarono dal confronto politico dedicandosi al giornalismo, oppure ad altre attività[2].

La creazione di Democrazia Nazionale, alla luce dei fatti, fu un’iniziativa di vertice priva di apprezzabile seguito popolare, e soprattutto incapace di intaccare lo zoccolo duro dell’elettorato che si riconosceva nelle posizioni del Movimento Sociale Italiano, la cui diffusione sul territorio non venne compromessa: basti dire che nemmeno una Federazione provinciale del partito si sarebbe trasferita sotto le bandiere di Democrazia Nazionale. La dirigenza del Movimento Sociale Italiano, dal canto suo, ritenne opportuno affrontare il rischio della scissione piuttosto che scendere a compromessi certamente sgraditi alla base, con particolare riguardo a quella giovanile. I risultati avrebbero dato ragione a questa scelta, ma negli anni successivi il partito, pur tornando a due milioni e mezzo di voti nelle elezioni del 1983, rimase ancora isolato nel ghetto creato dalla coriacea teoria del citato «arco costituzionale» fino alla svolta di «Mani pulite» e, soprattutto, dello «sdoganamento» da parte di Silvio Berlusconi: il medesimo personaggio che, non ancora entrato nella politica attiva, aveva contribuito a promuovere la scissione di Democrazia Nazionale e che, con la decisiva collaborazione del nuovo Segretario Gianfranco Fini, avrebbe accelerato la catarsi del Movimento Sociale Italiano compiutasi nel XVIII Congresso di Fiuggi (1995) con auto-proclamazione dello scioglimento e con la nascita immediata di Alleanza Nazionale[3].

Il triennio in cui si svolse l’esperienza politica demo-nazionale fu complesso e difficile come pochi: basti pensare alle migliaia di attentati terroristici compiuti dalle Brigate Rosse e dai loro fiancheggiatori, allo scandalo Lochkeed per la fornitura di aerei militari che coinvolse i Ministri Mario Tanassi e Luigi Gui sfiorando persino il Quirinale, e alla crisi seguita al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro (maggio 1978), fino alla bocciatura del finanziamento pubblico dei partiti tramite referendum popolare. Ne emerge che il ruolo della Destra, pur confinata all’opposizione in entrambi i suoi schieramenti, avrebbe potuto essere maggiormente attivo e propositivo: al contrario, i dissensi interni crearono una discrasia pregiudizievole, talvolta paralizzante e non estranea alla formazione di varie forze autonomiste, come nel caso della «Lista per Trieste» sorta a fronte della protesta contro il trattato di Osimo con un successo che ne avrebbe promosso la partecipazione alle stesse elezioni nazionali e a quelle europee, sia pure con risultati scarsi ma comunque ragguardevoli sul piano morale[4].

La parabola di Democrazia Nazionale non ha dato luogo a studi storiografici di ampio impatto, né tanto meno a un confronto esaustivo delle sue varie interpretazioni[5] con l’importante eccezione di quello proposto nel 2004 da Raffaele Delfino che – essendo parte in causa – ha suggerito un’esegesi conseguente. Eppure, si tratta di un’esperienza non certo remota, con effetti non marginali sull’evoluzione politica italiana e con rilievo importante per l’analisi del pensiero di Destra, se non altro sul piano deontologico.

Nell’auspicio che la lacuna possa essere elisa ciò non esime dal proporre alla comune riflessione il ruolo di quel tentativo, che nella sua parte migliore intendeva rispondere all’esigenza di ampliare lo spazio operativo di una forza politica nazionale, rilevante non solo sul piano dei numeri ma prima ancora su quello delle pregiudiziali etiche, sottraendola a un ostracismo aprioristico altrui, non certo qualificabile come modello di democrazia compiuta.

In conclusione, il tentativo di Democrazia Nazionale rimane agli atti della storia per quello che fu: un’iniziativa prematura volta ad acquisire uno spazio di manovra idoneo a garantire alle forze di Destra maggiore credibilità politica in un momento di particolari difficoltà, e per quanto consentito dai numeri parlamentari, a renderla concreta in termini di potere sia pure nettamente subordinato. D’altro canto, il modo in cui tale apertura divenne realtà effettiva, mettendo in crisi il carattere unitario della Destra missina che ne costituiva un patrimonio costante sin dalla fondazione pur nelle diverse origini e vocazioni, mise in luce immediata i limiti strategici dell’operazione, anche a prescindere dai successivi esiti elettorali.


Note

1 Anderson e Cerullo restarono nel Movimento Sociale Italiano ancora per breve tempo. Infatti, nel successivo giugno passarono anch’essi nelle file di Democrazia Nazionale, di cui lo stesso Cerullo fu l’ultimo Segretario Nazionale, dopo i predecessori Ernesto De Marzio e Raffaele Delfino. I nuovi Gruppi parlamentari ebbero un trattamento di sicuro favore: è stato opportunamente ricordato (Massimo Magliaro, La Fiamma che non si arrende, I Libri del Borghese, Roma 2019, pagine 157-183) che furono costituiti con immediatezza attribuendo loro un budget di finanziamento pari alla metà di quello del Movimento Sociale Italiano, mentre i debiti restarono tutti a carico di quest’ultimo. Si deve aggiungere che Cerullo, unico tra gli esponenti demo-nazionali, sarebbe riuscito a rientrare in Parlamento per una legislatura, diversi anni più tardi, candidandosi nelle liste della «Lega per l’Azione Meridionale» di Giancarlo Cito (1996).

2 Tra i nomi di maggiore spicco che avevano scelto di legarsi a Democrazia Nazionale, oltre a quelli dei tre Segretari sono da ricordare Gastone Nencioni, Mario Tedeschi e Angelo Nicosia, anch’essi provenienti dal Movimento Sociale Italiano; Alfredo Covelli e Achille Lauro di origine monarchica (il primo – già Segretario del Partito Nazionale Monarchico – fu anche Presidente di Democrazia Nazionale); e l’Ammiraglio Gino Birindelli della Destra Indipendente. Infine, tra i non appartenenti al mondo parlamentare si schierarono con la nuova formazione politica il Segretario della CISNAL Giovanni Roberti e la Generalessa Piera Gatteschi Fondelli (unica donna italiana ad avere raggiunto il massimo grado militare) già Comandante del Corpo delle Ausiliarie durante i 16 mesi della Repubblica Sociale Italiana.

3 «Mutatis mutandis», il nuovo partito sorto quale immediato seguito allo scioglimento del Movimento Sociale Italiano (sebbene non condiviso dalla minoranza ormai esigua di Pino Rauti) si sarebbe richiamato, almeno in chiave semantica, alla vecchia Democrazia Nazionale, con una sorta di singolare rivalutazione postuma. Nondimeno, questa è tutt’altra storia.

4 La Lista, meglio nota come Movimento del Melone alla luce del suo emblema, ebbe natura fortemente trasversale raccogliendo le proteste diffuse sia nella maggioranza di governo (democristiana e laica) sia nella stessa Destra missina o demo-nazionale. Ciò contribuisce a spiegare l’ampiezza del successo immediato e l’elezione di Manlio Cecovini quale parlamentare europeo ma nello stesso tempo a motivare le ragioni della crisi fino alla sostanziale scomparsa, dovute proprio all’eterogeneità delle provenienze politiche e al carattere transeunte della convergenza. Quanto alle forze di Destra, le loro distonie contingenti fecero il resto.

5 L’assunto trova conferma nel breve giudizio su Democrazia Nazionale formulato da Marco Tarchi, tra i massimi esegeti storici della Destra italiana, quando ha definito quello dei secessionisti dal Movimento Sociale Italiano come «un esercito di Generali senza soldati» (confronta Cinquant’anni di nostalgia: la Destra italiana dopo il fascismo, Rizzoli, Milano 1995, pagina 90) e sin dall’origine, privo di ogni possibilità di «presa sui militanti» oltre che caratterizzato da un «comportamento trasformistico tale da squalificarlo senza appello «agli occhi della base». D’altro canto, Tarchi non ha lesinato critiche nemmeno alla coeva Segreteria missina di Giorgio Almirante, accusato di «cesarismo» nel senso di «gestire in totale autonomia la linea del partito, ora accentuando l’avvicinamento alle forze moderate, ora riaffermando l’identità nostalgica e antisistema del Movimento Sociale Italiano». Quanto a Democrazia Nazionale, lo stesso Tarchi, a parte la fondamentale osservazione sulla mancanza di seguito popolare, ne ha illustrato le diverse sensibilità, nell’ambito di un’egemonia espressa soprattutto da De Marzio e da Nencioni, favorevoli a «offrire una sponda alla Democrazia Cristiana» in senso anticomunista.
Peraltro, a differenza della tesi sostenuta dal medesimo Almirante, si è dichiarato scettico sul fatto che «gli scissionisti fossero direttamente foraggiati da Piazza del Gesù»: in effetti, sempre a giudizio dello storico fiorentino, è più verosimile che «la Democrazia Cristiana preferisse fare da alternativa centrale a due polarità delegittimate, piuttosto che appoggiarsi a una di esse, sia pure in seguito a sua revisione ideologica» peraltro inesistente (Ibidem, pagina 89). In sostanza, la critica di Tarchi è oggettivamente bipolare: tra quelle di più alto spessore nei confronti di Almirante, è da ricordare il dissenso sulla scelta di Gianfranco Fini quale Segretario del Fronte dlla Gioventù, sebbene altri candidati, fra cui Stefania Paternò e Biagio Cacciola, avessero ottenuto maggiori suffragi in assemblea; d’altra parte, il diritto finale di nomina tra i sette membri eletti competeva, secondo lo statuto, al Segretario nazionale (Ibidem, pagina 127).

(febbraio 2021)

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