Difesa dell’Unità nazionale
Un imperativo categorico nel CLX anniversario (1861-2021)

Il relativismo e il pressappochismo sono diventati di moda da parecchio tempo, con nuove manifestazioni di tutta evidenza nel terzo millennio, grazie al linguaggio dei messaggi brevi e della comunicazione elettronica.

Può quindi accadere, e non sorprende, che persino Umberto Bossi, ai tempi del suo successo mediatico e politico, avesse azzeccato qualche affermazione come quella secondo cui gli Italiani non conoscono l’inno nazionale e non sanno chi sia stato Goffredo Mameli, eroe di quel Risorgimento nazionale che il coriaceo esponente leghista non perdeva occasione per contestare. Intendiamoci: sebbene in parte minoritaria, quel giudizio di Bossi poteva essere pertinente perché una parte dei cittadini italiani vive tuttora nella beata ignoranza della storia d’Italia, a causa di precise responsabilità dei Governi di varia estrazione che si sono alternati alla guida della Repubblica, a decorrere dagli anni Cinquanta del secolo scorso.

Oggi, trascorsi 160 anni dalla proclamazione dell’Unità nel fatidico marzo 1861, la storiografia è diventata più oggettiva, e per quanto possibile aliena da giudizi dichiaratamente di parte. Anche per questo, il Risorgimento può essere criticato alla luce di tante ragioni, a cominciare dalle basi assai ristrette e dalla mancanza di una vera condivisione popolare, pur coperta con le maggioranze «bulgare» dei plebisciti per l’annessione abilmente pilotati da Torino. Nondimeno, sostenere che sarebbe il caso di dare spazio alle bandiere se non anche agli inni regionali, come fece l’ineffabile Bossi, è un insulto alla ragione e al sentimento patriottico sviluppatosi nelle trincee della Grande Guerra e pervenuto a piena maturazione negli anni del consenso al fascismo, ammesso senza mezzi termini dalle menti più lucide dell’opposizione. Del resto, anche in tempi più recenti c’è stato un apprezzabile ritorno di patriottismo: tra l’altro, per l’opera illuminata del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

Il carattere irrazionale del particolarismo tuttora pervicace è più grave, sul piano politico, delle pur ignobili offese ai valori nazionali, che coinvolgono la sfera etica. Oggi il mondo si evolve verso un globalismo ormai irreversibile, e certamente inconciliabile con quelle anacronistiche illusioni o meglio, con persistenti degenerazioni campaniliste. Di fronte alle suggestioni delle «piccole patrie» proposte da precisi interessi elettorali collegati all’opportunità di cavalcare il dissenso nei confronti di un centralismo improduttivamente burocratico, piuttosto che aderente a valori nazionali, viene da pensare che l’Italia si vada evolvendo più di prima e quasi peggio di prima verso il celebre «particulare» teorizzato da Francesco Guicciardini ed elevato a opinabile sistema individualista facendo strame dell’assunto machiavelliano secondo cui la «salvezza» dello Stato dovrebbe prevalere sulle consorterie locali e sui pur legittimi interessi privati.

Nell’ambito della nuova maggioranza di Governo che ha visto la luce in concomitanza col CLX anniversario dell’Unità (anche a causa della pandemia) si tende a sottovalutare la forza disgregatrice di queste tendenze, in permanente opposizione ai valori del migliore Risorgimento, pur senza dimenticarne i limiti oggettivi, come quelli che distinsero la «conquista del Sud» di cui alla motivata critica meridionalista (con riguardo specifico all’opera di Carlo Alianello). Si tratta di un atteggiamento comprensibile sul piano politico, perché collegato alla necessità di garantire la stabilità di maggioranze tutt’altro che coese, ma non è irragionevole presumere che i latenti conati centrifughi, presenti un po’ dovunque con i «distinguo» del caso, possano indurre conseguenze sia pure potenzialmente dirompenti, qualora siano cavalcate da una protesta indiscriminata di frequente ricorrenza nella storia d’Italia.

Il Bel Paese non ha le tradizioni unitarie dei grandi Stati Europei, tanto più che rimane uno Stato relativamente «giovane» avendo celebrato in sordina i suoi primi 160 anni di vita (con la giustificazione poco credibile dell’emergenza). Tuttavia, non mancano valori culturali e religiosi condivisi, a cominciare dall’architettura giuridica d’impronta romana e da una fede cattolica spesso superficiale ma non per questo meno diffusa, specialmente a livello popolare; per non dire dell’unità linguistica che viene da lontano, almeno nell’ambito delle classi medio-superiori. Da questo punto di vista, Dante e Petrarca non sono passati invano, a riprova dell’unità culturale italiana come fatto oggettivo e come patrimonio etico che seppe anticipare di parecchi secoli quella politica e giuridica. Ecco un motivo in più per considerare alla stregua di un imperativo categorico l’obbligo morale e civile di onorare questo valore fondante.

Le dodici minoranze alloglotte presenti sul territorio nazionale dalle Alpi alla Sardegna non superano il 3% degli Italiani. Ebbene, il fatto che almeno un cittadino su due si esprima in dialetto non vuol dire che non sappia, o quando necessario non debba farlo nell’idioma nazionale: di qui, l’assurdità di un’altra sortita «storica» dello stesso Bossi secondo cui i dialetti (spesso assai diversi nell’ambito di una stessa regione, e talvolta di una medesima provincia) dovrebbero diventare oggetto dell’insegnamento scolastico. Caso mai, il problema è un altro, dovendosi ravvisare nella dura realtà di un’immigrazione necessariamente priva di valori assimilabili a quelli della Nazione Italiana, e difficilmente in grado di farli propri attraverso processi educativi sinora inesistenti.

L’impeto «riformista» di alcune formazioni politiche è giunto – anche in tempi recenti – al punto di pensare alla riesumazione delle gabbie salariali che furono eliminate alla fine degli anni Sessanta dopo una memorabile vertenza sindacale, caratterizzata da evidenti aspetti politici. Si è detto che ciò dovrebbe costituire un incentivo agli investimenti nel Mezzogiorno, nel chiaro presupposto di ridurre le retribuzioni meridionali, con quale giustizia perequativa è facile immaginare; ma non si è voluto pensare che l’abbattimento del potere d’acquisto sarebbe un altro buon contributo al sottosviluppo, e che un’impresa moderna trova convenienza a investire, almeno in Italia, non tanto in un’antistorica discriminazione salariale quanto nella necessaria riduzione degli oneri indiretti; e prima ancora, nella realizzazione di grandi infrastrutture e nella fagocitazione della criminalità (due interventi di specifica competenza pubblica su cui la classe politica è chiamata a dare risposte concrete e prioritarie ma finora contraddittorie se non anche flebili).

Alessandro Manzoni, in un verso memorabile, scolpì a chiare lettere che l’Italia, già nella sua epoca, era «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cuore». Oggi, l’assunto è sempre valido, pur avendo trovato il giusto «contemperamento» (come avrebbe detto Giovanni Botero in omaggio alla sua teoria della Ragione di Stato) nelle autonomie locali garantite dalla Costituzione, dove peraltro è statuito che «la bandiera nazionale è il tricolore italiano». Quel glorioso vessillo che a più forte ragione deve essere sempre onorato, anche se un’ampia maggioranza trasversale volle, assieme a quella dell’alto tradimento, la depenalizzazione del reato di oltraggio alla bandiera di cui, guarda caso, proprio il summenzionato Umberto Bossi si era reso responsabile con espressioni non ripetibili per carità di patria e con l’aggravante di menarne vanto nell’ambito di una speculazione politica che la dice lunga sul livello etico di una certa Italia.

Mai come ora, sebbene siano passati sette secoli, sarebbe il caso di fare proprie le parole del Poeta: «Virtù contra furore prenderà l’arme, e fia il combatter corto, chè l’antiquo valore negli italici cor non è ancor morto».

(maggio 2021)

Tag: Carlo Cesare Montani, unità nazionale, Umberto Bossi, Goffredo Mameli, Carlo Azeglio Ciampi, Francesco Guicciardini, unità d’Italia, Carlo Alianello, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Alessandro Manzoni, Giovanni Botero, difesa dell’Unità nazionale.