I fascisti dopo il fascismo
Morto Mussolini, caduto il regime fascista in Italia, restava il problema degli Italiani «compromessi» con la passata dittatura. Una storia ancora poco raccontata

Catturato il 27 aprile 1945 da un gruppo di partigiani mentre tentava di raggiungere le truppe fasciste che si stavano radunando in Valtellina per opporre l’ultima resistenza (e non per fuggire in Svizzera, come ancora alcuni pretendono di raccontare), Mussolini venne frettolosamente fucilato il giorno seguente insieme alla sua amante, Claretta Petacci. Sulla sua morte furono date negli anni seguenti varie versioni dai suoi uccisori, tutte inconciliabili tra loro.

Ma non è di questo che si intende trattare. Il problema che si poneva dopo la fine del Duce era che, morto Mussolini, sepolto con lui il fascismo, restavano però i fascisti, non solo i 42.000 militi ancora in armi, ma tutte quelle persone che, a vario titolo, avevano seguito il fascismo (la quasi totalità della popolazione della Penisola: vi erano paesi, specialmente nel Sud Italia, dove tutti erano stati fascisti). Anche escludendo tutti coloro che erano stati fascisti durante il Ventennio ma non avevano aderito alla successiva Repubblica Sociale Italiana, il loro numero era comunque esorbitante. I commissari del popolo, tipica funzione comunista, battevano città e campagne per farsi dire nomi, cognomi e indirizzi di chi aveva sostenuto il regime, e se per questo sostegno aveva ottenuto favori. Poi cominciò la mattanza: tra vecchi fascisti non più in attività nel periodo della Repubblica Sociale Italiana, nuovi fascisti regolarmente arresisi nell’aprile del 1945 con la garanzia di aver salva la vita, ma soprattutto presunti indiziati di collaborazionismo col nazifascismo, vennero soppresse in modo sommario e spesso con indescrivibili modalità almeno 45.000/50.000 persone (alcuni autori ne riportano un numero maggiore), cifra a cui vanno aggiunte le circa 16.500 vittime delle foibe in Istria e nel Friuli[1]. «Noi eravamo i delinquenti,» scriverà Giorgio Pisanò, tra i «repubblichini» che riuscirono a superare indenni le stragi del dopo liberazione, «noi gli assassini, noi i traditori, noi che indossavamo ancora il grigioverde ed avevamo sempre avuto per bandiera un tricolore, quel tricolore che non vedevo più perché sostituito da bandiere inglesi, americane, rosse... Questa era la nuova legge dei vincitori, secondo la quale chi si era battuto lealmente, chi aveva fatto il suo dovere, difeso la sua terra e servito le sue idee era un criminale e come tale doveva essere diffamato, calunniato e ucciso... Ci vollero considerare tutti in blocco una banda di pazzi furiosi, di avventurieri prezzolati, di poveri dementi dal cervello offuscato. Non capirono, o non vollero capire, che quelle centinaia di migliaia di Italiani che si erano stretti attorno a Mussolini chiedendo di combattere per riscattare l’onore della patria erano stati mossi da un impulso ideale, da un senso di ribellione e da una volontà di rinnovamento che non avevano alcun precedente nella nostra storia. Gli antifascisti questo non lo capirono e ci blindarono in galera, nei campi di concentramento, ci processarono e ci lasciarono accoppare. Se uno solo di quei cervelloni tornati alla ribalta ci avesse detto: “Ragazzi, vi siete battuti in buona fede. Avete perso. Possiamo tentare di realizzare insieme quel nuovo mondo che avete sognato”, quel tale ci avrebbe raccolti intorno a lui, pronti a rimboccarci le maniche per ricostruire l’Italia. Ma questo non accadde. E tutti quei giovani poterono così misurare sino in fondo, nel sangue e nel dolore di una persecuzione senza precedenti nella storia d’Italia, la saldezza delle loro convinzioni...»

La strage di fascisti, veri o presunti, una vera e propria «macelleria messicana» (come è stata definita), si protrasse per più giorni, finché gli Alleati Anglo-Americani decisero di porvi fine; come vedremo più avanti, avevano i loro buoni motivi per farlo, motivi strategici più che umanitari. Per chi ebbe salva la vita, si aprirono le porte del carcere. Ci fu chi venne condannato per aver dato da bere un cucchiaio di olio di ricino ad alcune persone che avevano aggredito e malmenato dei ragazzini fascisti; chi venne incarcerato per denunce senza fondamento fatte per invidie e gelosie di paese; chi ebbe l’unica colpa di possedere un fazzoletto di terra di proprietà (ho conosciuto personalmente alcune di queste vittime). Tra fascisti, imprigionati più per reati politici che per reati comuni, e tra partigiani (messi in gattabuia prevalentemente per il secondo motivo), il carcere milanese di San Vittore ebbe nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra gravissimi problemi di sovraffollamento e di ordine interno; le rivolte, gli incidenti fra reclusi di opposta fede politica e diversi tentativi di fuga a gruppi resero ancor più dura la detenzione. «Quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera»: di slogan simili, sulle pareti delle carceri dell’Italia Settentrionale e Centrale nel biennio 1945-1946 se ne trovavano a decine; Coltano (Pisa), Scandicci, Collescipoli, Rimini furono sedi di campi di concentramento per decine di migliaia di soldati nazifascisti, tra cui i cosiddetti «NON» (sta per: non traditori, non collaboratori del nemico, non passivi accettanti la resa). Non si possono fare paragoni ragionevoli con le camere a gas e i forni dei lager nazisti, eppure delle atrocità e delle sofferenze subite da «repubblichini» e Tedeschi in quei mesi cadde da subito un silenzio duro a essere spezzato. Ancor oggi c’è chi pretende, in sede storiografica, di considerare Coltano un semplice campo di prigionia militare, sebbene tutte le testimonianze siano concordi nel dipingerlo delle tinte più fosche (qualcuno mi dovrebbe spiegare come si possa fare storiografia azzerando tutte le testimonianze – anche fotografiche – dell’epoca o degli eventi di cui si tratta); mio nonno materno, Giulio Rossi, fu deportato dopo l’8 settembre 1943 in un campo di concentramento nazista, e in seguito internato a Coltano a guerra ampiamente conclusa: qui, disse, l’avevano trattato peggio che in Germania... una voce, la sua, tutt’altro che isolata!

Le incarcerazioni si svilupparono in parallelo a un’epurazione da tutte le cariche pubbliche e dalle più grosse realtà aziendali private che, a parte un limitato periodo iniziale, risultò realisticamente impossibile a realizzarsi del tutto data l’esorbitante quantità di epurandi (in pratica, più del 62% della popolazione attiva nazionale). L’amnistia di Togliatti del 22 giugno 1946 fu dettata anche dall’oggettiva inapplicazione dell’epurazione di elementi ex fascisti o vicini al fascismo (anche solo riguardo al periodo della Repubblica Sociale Italiana) dai quadri lavorativi della Nazione. Oltre all’intenzione manifesta di pacificare definitivamente il Paese, l’amnistia servì a insabbiare, insieme alle pratiche e ai procedimenti a carico di fascisti, anche quelli – ben più numerosi – relativi agli abusi e ai crimini partigiani. Anche sulle Corti d’Assise straordinarie e sui Tribunali del Popolo, principali strumenti giudiziari dell’antifascismo, divenne opportuno calare il sipario.

In ambiente fascista, il periodo post-amnistia sarà un proliferare di associazioni clandestine di modesta entità numerica, dedite chi ad azioni destabilizzanti contro la neonata Repubblica Italiana chi, rinunciando a qualsiasi lotta politica o terroristica, a un semplice nostalgismo impregnato di commemorazioni e rievocazioni (famosa, per i suoi connotati grottesco-sentimentali, sarà la sfilata di ex gerarchi del regime davanti a Rodolfo Graziani nella sua tenuta di Affile, nell’autunno del 1952, con cui l’ex Maresciallo d’Italia volle battezzare il suo ingresso nel Movimento Sociale Italiano). Ancora nel 1946, deputati e senatori andavano in Parlamento armati, per timore di un tentativo di colpo di Stato, fascista o più probabilmente comunista. Col trascorrere dei lustri, l’orizzonte della clandestinità andò sempre più costellandosi di gruppuscoli a matrice sempre meno idealista e sempre più attiva sul terreno dello scontro – armato e non – con le istituzioni democratiche, quali le S.A.M. (Squadre d’Azione Mussolini), i F.A.R. (Fasci d’Azione Rivoluzionaria), un effimero e improbabile P.F.D. (Partito Fascista Democratico) costituito da non più di 200 simpatizzanti, quindi O.N. (Ordine Nuovo) e altri ancora. «Il voler tracciare una linea di continuità tra talune attività terroristico-criminali dell’estrema destra nell’ultimo trentennio e lo squadrismo tanto dell’ante-Marcia che del periodo della Repubblica Sociale Italiana,» scrive Giovanni Curatola nel 2002 «oltre che costituire una forzatura storica giacché ogni evento con le sue cause e i suoi effetti non può essere inquadrato se non nel clima in cui nasce, si sviluppa e muore, nasconde un preciso intento politico: quello di dar linfa a quella superficiale e generica demonizzazione del fenomeno fascista. Demonizzazione che se nell’immediato dopoguerra trovava una sua spiegazione (anche se non giustificazione) nell’opportunismo di carriera, nell’esigenza contingente del momento e in una collettiva rinascita politico-sociale giocoforza obbligata all’affrancamento dal passato, ad oltre mezzo secolo di distanza non ha ormai più motivo di persistere» (Giovanni Curatola, Ritmi littori, Aurora Edizioni, Stradella 2002, pagine 273-274).

Nonostante la Costituzione della nuova Repubblica Italiana vietasse la ricostituzione di partiti che si richiamassero espressamente al fascismo («È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito Fascista», XII disposizione transitoria e finale della Costituzione Italiana), i reduci della Repubblica Sociale Italiana aggirarono nominalmente l’ostacolo dando al loro nuovo organismo politico il nome di Movimento Sociale Italiano (M.S.I.). Nato ufficialmente a Roma il 26 dicembre 1946, ebbe segretario dapprima Arturo Michelini, poi dal 1969 Giorgio Almirante (persona politicamente capace e ammirata anche da alcuni esponenti della sinistra), ex capo di gabinetto del Minculpop durante la Repubblica Sociale Italiana e padrino politico di Gianfranco Fini. Nel partito confluirono personaggi di maggiore o minore spicco di Salò: dal principe Valerio Borghese, ex comandante della Decima MAS, al Generale Rodolfo Graziani, ex capo della Guardia Nazionale Repubblicana, a Pino Rauti (futuro fondatore e presidente del Movimento Sociale Italiano – Fiamma Tricolore). Il richiamo del nuovo partito politico alla Repubblica Sociale Italiana fu talmente esplicito che non mancarono da subito illazioni circa la sua stessa sigla (M.S.I. secondo alcuni starebbe per: Mussolini Sei Immortale) o il suo simbolo (il basamento nero che sorregge la fiamma tricolore raffigurerebbe la tomba del Duce). Il partito si impegnerà in alcune «battaglie» importanti in favore del Paese, per esempio sarà l’unica forza politica a votare compatta contro l’infame e assurdo Trattato di Osimo con cui l’Italia nel 1975 cederà alla Jugoslavia, senza alcuna contropartita, l’intera Zona «B» del mai costituito Territorio Libero di Trieste. Il Movimento Sociale Italiano conterà fino ai primi anni Novanta su un apporto elettorale compreso fra il 5% e il 10%, superando sporadicamente tale soglia a Roma, a Napoli e in altre città a tendenza tradizionalmente di destra come Trieste, Verona, Catania, Ascoli e Reggio Calabria. Gianfranco Fini lo trasformò poi in Alleanza Nazionale, partito col quale andò al Governo nel 1994 con la coalizione di centrodestra; in seguito lo ribattezzò Futuro e Libertà, con cui la sua esperienza politica – ormai del tutto priva di ogni richiamo, anche velato, al fascismo – si spense. Il partito tradizionalmente di destra è oggi Fratelli d’Italia, presieduto da Giorgia Meloni, che negli ultimi anni ha goduto di un consenso elettorale sempre maggiore.

Gli Alleati, come si è ricordato più sopra, avevano i loro motivi per cercare di salvare i fascisti: avrebbero voluto prender vivo Mussolini, forse per rimetterlo al potere come baluardo anticomunista durante la Guerra Fredda, e comunque offrirono agli ex combattenti della Repubblica Sociale Italiana molte possibilità di impiego nel mondo sotterraneo delle attività spionistiche e militari (ricordiamo che il Partito Comunista Italiano aveva organizzato le Quinte Colonne paramilitari che sarebbero dovute entrare in azione per sgombrare la strada all’Armata Rossa quando questa avesse varcato – come si pensava dovesse presto accadere – i confini della Penisola). Ha scritto lo storico di sinistra Eric J. Hobsbawm (Il secolo breve 1914-1991, BUR Rizzoli, Milano 2018, nota a pagina 199): «La forza armata segreta anticomunista conosciuta come “Gladio”, dopo che la sua esistenza venne rivelata da un uomo politico italiano nel 1990, fu allestita nel 1949 per continuare la resistenza interna in vari Paesi Europei dopo un’eventuale occupazione sovietica. I membri di questa organizzazione erano armati e pagati dagli USA, erano addestrati dalla CIA e dai servizi segreti britannici, e la loro esistenza veniva tenuta nascosta ai Governi nei cui territori essi operavano; solo qualche personaggio ben selezionato ne era a conoscenza. In Italia, e forse altrove, questo gruppo era formato originalmente da fascisti irriducibili che erano stati lasciati come nuclei di resistenza dalle forze dell’Asse ormai sconfitte. In seguito costoro si riabilitarono nella veste di fanatici anticomunisti. Negli anni Settanta, quando l’invasione da parte dell’Armata Rossa non sembrava più plausibile neppure agli agenti dei servizi segreti americani, i “gladiatori” trovarono un nuovo campo di azione come terroristi di destra, talvolta mascherandosi da terroristi di sinistra».

Agli sgoccioli del decennio in cui i drammatici eventi bellici avevano traghettato la Nazione da Regno a Repubblica, la ricostruzione era pressoché compiuta, il benessere economico premeva, i «favolosi anni Sessanta» erano alle porte: si cantavano e si ballavano i motivi americani, si girava sullo scooter Vespa della Piaggio o sulla Seicento (utilitaria messa sul mercato dalla FIAT nel 1955, dopo la Topolino e la Cinquecento), si passava la serata davanti alla televisione, quel nuovo focolaio domestico che dai bar stava lentamente entrando nelle abitazioni private (la televisione di Stato italiana iniziò le sue trasmissioni il 3 gennaio del 1954, ma solo sul finire del decennio si imporrà definitivamente nella vita delle persone, arrivando a modificarne in maniera profonda e irreversibile abitudini e costumi). Il reddito nazionale cresceva in media del 6% all’anno, si avvertiva un generale stato di soddisfazione e di allegria, si inneggiava al pacifismo, ci si adeguava alla mentalità consumistica giunta dall’America. Era cambiata soprattutto l’ideologia del nostro Paese: gli echi e le rovine della guerra erano lontani, il Ventennio, il suo cerimoniale, le sue divise, le sue insegne, erano tutti ricordi sbiaditi che non si aveva voglia di rispolverare. Erano passati 15 anni dalla morte di Mussolini, ma in un’Italia completamente trasformata c’era l’inevitabile schiera del dissenso, la nostalgia del vecchio e il disappunto per il nuovo stile di vita in cui troppo spesso la moneta aveva preso il posto della morale.

Nei primi anni Settanta il fascismo era roba di sei lustri addietro, i testimoni più attempati di quel periodo iniziavano a lasciare questo mondo, almeno loro per morte naturale, mentre i protagonisti più giovani si affacciavano alla sessantina. L’ideologia fascista era ormai del tutto improponibile, eppure continuava la «caccia alle streghe», la fobia del fascista nuovo o del fantasma di quello vecchio, la discriminazione per il «nero», alimentata di continuo anche dal terrorismo di nuovi gruppi eversivi di estrema destra. Ormai gli ultimi discriminati in quanto ex fascisti avevano abbandonato il lamento e il più o meno fondato vittimismo, e guardavano gli altri con l’occhio graffiante del sarcasmo e dell’ironia, ultime armi a loro concesse.

Oggi, il linguaggio della sinistra utilizza la parola «fascista» per etichettare non solo gli ex fascisti propriamente detti, quanto chi non accetta di adeguarsi a un mondo dove la regola principale è quella del profitto e parla di patria, di valori, di ideali, oltre a chi conduce una vita agiata, ai conformisti, e naturalmente agli egoisti e ai violenti, trasferendo il termine dal piano politico a quello socio-economico, e aggrappandosi agli appelli a una «guerra di liberazione» o «guerra resistenziale» contro un nemico che non esiste più da decenni per mascherare il proprio vuoto di idee e la propria totale mancanza di senso critico e storico.


Nota

1 Emblematica la vicenda di Norma Cossetto, una ragazza di soli 24 anni che fu rapita dai partigiani titini (probabilmente con la complicità di partigiani comunisti italiani), ripetutamente violentata e gettata – forse viva – dentro una foiba profonda 136 metri. Secondo alcune ricostruzioni, la ragazza fu seviziata e mutilata: le furono tagliati i seni e le venne infilato nei genitali un pezzo di legno.

(febbraio 2021)

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