Forum Ambrosetti 2021
Cernobbio – la tradizionale conferenza economico-finanziaria conferma la consolidata funzione promotrice dello sviluppo, tra speranze diffuse e motivate attese per interventi incentivanti e correttivi strategici

Da quasi mezzo secolo, il Forum Ambrosetti costituisce un punto d’incontro fondamentale per il mondo dell’alta finanza e della grande industria, non senza contributi altrettanto importanti del momento politico e dei grandi della Terra: basti dire che dall’anno di fondazione dell’iniziativa (1975) in poi, fra gli interventi al massimo livello si sono annoverati quelli del Santo Padre Benedetto XVI, della Regina Rania di Giordania, e dei Presidenti Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.

Nel 2021, perdurando la pandemia del Covid-19, il virus ha assunto le sembianze di un convitato di pietra, pur nelle diffuse espressioni di moderato ottimismo circa le prospettive avvenire, sia in Italia, sia nel mondo. Fra i tanti contributi, a parte la prolusione del Presidente Russo Vladimir Putin, improntata a valutazioni di circostanza, ma non certo di segno negativo pur nell’ambito di un ragionevole realismo, possono bastare, per un’illustrazione sintetica dei grandi temi attuali, quelli di Carlo Cottarelli, Direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani; di Fabiola Giannotti, Direttrice generale del CERN di Ginevra; di Riccardo Illy, noto operatore economico dell’industria italiana.

Nel giudizio di Cottarelli, già dal primo trimestre del 2022 «l’Italia raggiungerà lo stesso livello di PIL che aveva nel quarto trimestre del 2019, ultimo prima del Covid»: sarebbe un risultato imprevedibile sino a pochi mesi or sono. Per Giannotti «il futuro è funzione degli sviluppi tecnologici e scientifici che si potranno e si vorranno perseguire» donde la necessità di adeguati strumenti in chiave finanziaria. Ne consegue, secondo Illy, la condivisione di un «ottimismo ragionato» e subordinato alla necessità propedeutica di invertire la curva demografica in cui si esprime il calo della popolazione attiva.

Rilievo non meno importante è stato riservato a questioni più specificamente politiche in senso stretto, come nell’auspicio espresso dall’Ambasciatore Stefano Pontecorvo, appena rientrato dall’Afghanistan dopo le note vicende concluse col ritiro dell’Occidente, quando ha posto in evidenza la necessità sia pure «non facile» di trovare una mediazione che consenta di collaborare con i nuovi poteri islamici nel comune interesse, e nell’ovvio rispetto dei diritti umani fondamentali, da tutti vagheggiato ma non certo dietro l’angolo.

La tesi dell’Ambasciatore, poco condivisa dalla classe politica italiana, merita di essere approfondita anche alla luce di qualche cifra. Infatti, bisogna sapere che quella dell’Afghanistan, un Paese con oltre 30 milioni di abitanti, è una realtà molto depressa dal punto di vista socio-economico, dove gli analfabeti sono pari al 60% della popolazione; dove i laureati assommano a meno di 30.000; dove esistono tre medici ogni 10.000 abitanti; dove l’accesso all’acqua potabile è assicurato a non oltre la metà dei cittadini; e via dicendo. In queste condizioni, è chiaro che ogni giudizio, anche in materia di diritti, deve essere calibrato alla luce di una condizione di vita spesso primordiale, dove i fabbisogni primari, peraltro scarsamente soddisfatti dalla cooperazione internazionale, non lasciano soverchi spazi a tutto il resto. Senza dire che il caso dell’Afghanistan, pur nelle sue peculiari specificità, presenta importanti analogie in molti altri Paesi del Terzo Mondo.

Sono passati oltre due millenni da quando Aristotele aveva affermato che l’uomo è un animale politico e che nella vita associata, in conseguenza, quasi tutto è politica. Una conferma probante, ammesso che ve ne sia bisogno, è giunta puntualmente anche dall’ultimo Forum Ambrosetti, quando il salotto ovattato dell’alta finanza e della grande industria è stato scosso dal sofferto ma realistico richiamo di Pontecorvo; a più forte ragione, dal confronto (assai dibattuto nel campo dell’informazione) tra il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, e la Presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, con particolare riguardo al «reddito di cittadinanza». In realtà, il primato della politica finisce sempre per emergere, anche nelle stagioni della sua conclamata decadenza, come quella attuale.

In sintesi, la leader dell’unico movimento di opposizione al Governo di «Supermario» ha interpretato ampie critiche al reddito di cittadinanza e alla sua fallimentare esperienza, diffuse fra tutte le forze parlamentari con la sola eccezione del Movimento Cinque Stelle. Poi, Giorgia Meloni è pervenuta alle estreme conseguenze dichiarando che l’iniziativa si è rivelata una sorta di droga, avendo lasciato nel libro dei sogni il suo obiettivo fondamentale: quello di creare nuovi posti di lavoro e di «eliminare la povertà» cui Luigi Di Maio aveva fatto riferimento come un fatto compiuto, parlando dal balcone di Palazzo Chigi non appena il reddito di cittadinanza era diventato legge dello Stato (e richiamando alla memoria collettiva altri infausti balconi).

Dal canto suo, il Ministro Orlando ha replicato non senza durezza quando, pur ammettendo la necessità di talune correzioni, ha eccepito che quanti propongono di cancellare un provvedimento tanto importante nell’ottica sociale non sanno che cosa significhi essere poveri. In Italia tutte le occasioni – e quella del Forum Ambrosetti non poteva fare eccezione – sono utili alle campagne elettorali, anche se nella fattispecie in questione è di tutta evidenza che i posti di lavoro non si creano a tavolino, ma per mezzo di opportuni investimenti e delle condizioni atte a promuoverli, con l’eccezione dei cosiddetti «navigatori» che, assunti a migliaia sull’onda dell’entusiasmo momentaneo, avrebbero dovuto creare l’incontro fra manodopera e datori di lavoro, oggettivamente velleitario. In tale ottica, meglio sarebbe stato chiamare il reddito di cittadinanza col più vero nome di sussidio, ma meglio ancora, evitare la creazione di uno strumento che alla resa dei conti si sarebbe rivelato, nella migliore delle ipotesi, fonte di qualche lavoro «sommerso» non propriamente compatibile con l’offa governativa. In altri termini, potevano bastare altre misure già in essere, utilmente potenziate.

La Repubblica Italiana è «fondata sul lavoro», come statuisce il primo articolo della Costituzione che dovrebbe essere conosciuto da chiunque. Proprio per questo, il programma di sviluppo connesso alla creazione di valide iniziative a carattere produttivo, e non a quella di sussidi a tempo sostanzialmente indeterminato, dovrebbe essere condiviso in maniera plebiscitaria, e senza tanti distinguo, alla stregua di ciò che il Forum di Cernobbio non ha mancato di auspicare, e non certo da oggi. In una democrazia compiuta come quella italiana (?) l’imperativo categorico è quello di dare a tutti l’occasione di affermare i valori del comune impegno sociale, e giammai alle ricorrenti suggestioni del parassitismo.

(ottobre 2021)

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