Infoibatori e pensioni INPS
Provvedimenti discriminanti ed incostituzionali: un palese spregio di etica ed equità

Nella Repubblica Italiana nata dalla Resistenza gli scandali sono duri a morire, ma in qualche misura è bene che rimangano sempre in vita, a testimonianza di tante iniquità ed a futura memoria, se non altro per dimostrare che in quella greve stagione di guerra civile le ragioni non furono tutte dei vincitori, ed i torti non appartennero alla sola «parte sbagliata».

Nell’ambito di tali scandali, quello di vecchia data, ma sostanzialmente ignoto, delle «pensioni» agli infoibatori ed agli assassini del popolo giuliano, istriano e dalmata, continua tuttora nonostante i richiami che sono stati rivolti ai Governi di ogni estrazione politica, in specie da parte del mondo esule – ma non solo – affinché provvedessero alla revoca. Come è accaduto troppo spesso per tali attese, il silenzio di chi avrebbe dovuto rispondere è stato assordante.

Del resto, i rari processi postumi contro gli ex partigiani responsabili di tanti delitti non sono mai giunti a buon fine, come quello nei confronti di Ivan Motika, Oskar Piskulic ed Avianka Margetic. La giustizia italiana, in questo caso, è arrivata all’assurdo di dichiarare il non luogo a procedere per un’inesistente incompetenza territoriale, giacché i delitti in questione erano stati perpetrati quando in Istria, a Fiume e in Dalmazia esisteva ancora la sovranità italiana, cessata solo il 16 settembre 1947 con l’entrata in vigore del trattato di pace. In altri termini, avere negato la competenza giurisdizionale significa avere calpestato il diritto in ossequio alla bassa politica.

Per qualche ulteriore esempio, relativo ai casi di impunità integrata dagli assegni «previdenziali» elargiti ai colpevoli, c’è solo l’imbarazzo di una triste scelta. Qui, basti ricordare l’assassinio dei 12 carabinieri di Cave del Predil, presso Tarvisio, sequestrati da una banda di partigiani italo-sloveni il 23 marzo 1944 ed uccisi tre giorni dopo a Malga Bala dopo una serie allucinante di sevizie e di torture, giudicati da una Corte italiana a guerra finita e prosciolti, non già per incompetenza, ma per una surreale mancanza di prove, affermata in un contesto di complice omertà: anche costoro furono omaggiati, in tempi successivi, di una «pensione» italiana concessa in deroga ad ogni principio di elementare giustizia.

Queste «pensioni» elargite graziosamente agli infoibatori hanno interessato circa 32.000 assegni, erogati grazie ad un provvedimento dell’Onorevole Tina Anselmi (ex partigiana e Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, prima donna ad avere assunto la titolarità di un Dicastero della Repubblica Italiana) che aveva ripreso una direttiva dell’Unione Europea circa il riconoscimento della milizia partigiana ai fini contributivi, ma senza precisare l’opportunità di verificare la concessione alla luce della fedina penale di ciascun interessato.

La storia di queste prebende venne sostanzialmente ignorata per circa un ventennio, grazie al prudente insabbiamento istituzionale, ma ciò non impedì che tornasse prepotentemente alla ribalta grazie all’indagine del noto giornalista Fausto Biloslavo proposta nel 1996 dalla stampa quotidiana d’informazione e dal settimanale «Epoca». Nella fattispecie, l’informazione circa il numero dei beneficiari venne integrata con quella concernente l’importo globale corrisposto a tutti coloro che potevano vantare un periodo di «servizio» nelle bande partigiane, e calcolato in circa 200 miliardi di lire all’anno, pari a quasi 100 milioni di euro; il tutto, con l’aggiunta retroattiva di cospicui arretrati, a copertura del periodo precedente l’entrata in vigore della disposizione.

Già da allora, si pose il problema della possibile ed auspicabile revoca, che peraltro venne esclusa da un alto dirigente dell’INPS interpellato nella circostanza, il quale ebbe a dire che la presunzione di crimini a carico dei fruitori dell’assegno non poteva influire sulla corresponsione, in quanto avulsa da sentenze passate in giudicato. Ecco un bell’esempio di beffa accomunata al danno.

C’è di più. L’indagine del 1996 fu integrata con tanto di nomi e cognomi, tra cui quelli di autentici criminali che si erano distinti nell’opera di persecuzione a danno delle vittime, in specie italiane: ad esempio, Ciro Raner, comandante del campo di Borovnica dal 1945 in poi; Franc Pregelj, commissario del IX Corpus jugoslavo a Gorizia ed oggetto di istruttoria penale da parte della Procura Militare di Padova; Giorgio Sfiligoi, collaboratore del predetto; Giuseppe Osgnac, comandante della banda partigiana «Beneska Ceta»; Mario Toffanin, anch’egli collaboratore del IX Corpus e protagonista della strage di Porzus a danno degli Osovani. Tutti costoro, secondo la fonte in parola, fruivano di «pensioni» mensili oscillanti fra un minimo di 570.000 lire ed un massimo di 680.000, ed avevano percepito somme arretrate comprese fra 20 e 50 milioni di lire: una vera e propria cuccagna, a tutto carico dell’ignaro contribuente italiano.

Questi dettagli ribadiscono il carattere immorale del provvedimento, senza dire della sua palese incostituzionalità, suffragata anche da altri fattori: da una parte, perché prescindeva dalla tempistica minima di servizio richiesta per fruire della quiescenza, e dall’altra perché prevedeva una reversibilità a favore del coniuge superstite nella misura del 100% anziché in quella del 60 statuita per tutti i pensionati italiani. Evidentemente, anche in questo caso i partigiani hanno fatto valere la prerogativa di essere più uguali di coloro che non ebbero meriti resistenziali, veri o fasulli che fossero.

Il numero degli assegni tuttora in essere non è conosciuto, ma lo scorrere inesorabile del tempo fa presumere che ormai si tratti di una cifra poco più che simbolica, dato che molti beneficiari, qualora in vita, sarebbero quasi centenari; ma in una congiuntura difficile come quella attuale sarebbe buona norma economico-finanziaria, oltre che un imperativo categorico di natura etica, procedere alla revoca, iterando la prassi correttamente seguita per i cosiddetti falsi invalidi. Tale auspicio appare giuridicamente fondato, oltre che moralmente ineccepibile. Infatti, il carattere del provvedimento originario non aveva avuto alcuna motivazione di necessità ed urgenza, ma soltanto una matrice politica conforme alle esigenze della cosiddetta «solidarietà nazionale».

Si deve aggiungere che parecchie richieste del mondo esule, a cominciare da quelle per l’indennizzo dei beni «abbandonati» all’usurpatore, sono state disattese perché non ci sarebbero i mezzi per supportarle, ma con tutta evidenza non è questo il caso delle «pensioni» agli infoibatori, al pari della riforma dei libri di storia per le scuole[1], della questione anagrafica[2] e di una «conciliazione» spesso e volentieri a senso unico.

È amaro constatare che, mentre si è continuato a pagare questi assegni formalmente «previdenziali» (!) in riconoscimento dei delitti compiuti a danno del popolo giuliano e dalmata e quale surreale ricompensa dei «meriti» acquisiti a fianco dei partigiani di Tito, alle forze combattenti della Repubblica Sociale Italiana che si batterono regolarmente, e spesso eroicamente, per l’ultima difesa dell’Istria Italiana sino a perdere la vita nelle foibe o nelle fosse comuni, è stato negato il diritto alla pensione di guerra per superstiti, vedove ed orfani. Ciò, senza dire dell’oltraggio con cui le Medaglie al Valore conferite ai militari repubblicani vennero revocate immediatamente dal potere ciellenista: un esempio straordinario, oltre che unico, di faziosità discriminante.

Non a caso, si è potuto amaramente affermare che gli infoibatori sono stati considerati meritevoli di «pensione» e gli infoibati no! Eppure, le vittime della barbarie erano incolpevoli. Due pesi, due misure, una sola iniquità.


Note

1 La questione dei testi scolastici continua a costituire un «vulnus» permanente in deroga alle intenzioni espresse in diverse circostanze dagli organi competenti. Qui, sia sufficiente ricordare il paralogismo secondo cui col trattato di pace del 1947 l’Italia avrebbe «restituito» alla Jugoslavia i territori della Venezia Giulia e della Dalmazia che, a parte ogni impregiudicata considerazione storica e culturale, la Repubblica federativa ed il precedente Regno degli Slavi del Sud non avevano mai posseduto.

2 Il riferimento riguarda la costante inosservanza della Legge 15 febbraio 1989 numero 54, che fa divieto di dichiarare «nati in Jugoslavia» (e per analogia, negli stati suoi eredi), a valere per tutti i documenti anagrafici pubblici e privati, coloro che erano venuti alla luce prima del 16 settembre 1947 nei territori giuliani e dalmati su cui la sovranità italiana si era estesa fino all’entrata in vigore del trattato di pace. Ciò, nonostante le numerose circolari ministeriali di sollecitazione ad operare in conformità a detta normativa, rimaste senza seguito per una ragione molto semplice: la mancanza di sanzioni nei confronti dei soggetti inadempienti, che permane tuttora.


Bibliografia

Autori Vari, Foibe: la storia in cammino verso la verità. Atti del Convegno ISSES di Studi storici (Napoli, 28 gennaio 2001). Confronta, in particolare, gli interventi di Angela Verdi, Le scandalose pensioni di Osimo, pagine 65-66; e di Benedetta de Falco, Gli infoibatori premiati dall’INPS, pagine 121-127

Fausto Biloslavo, Ma qualcuno pagherà mai? Intanto paghiamo noi le pensioni ai partigiani di Tito, in «Epoca» del 30 agosto 1996, pagine 98-102, citato in Massimo Gustincich, C’era una volta Fiume, Roma 2016, pagine 496 e seguenti. Nella stessa ottica, confronta Paolo Granzotto, Lo stato dà la pensione ai criminali di guerra, in «Il Giornale», Milano, 24 agosto 1996.

(dicembre 2016)

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