Italia e Libia
Accordo Berlusconi-Gheddafi: si compiono dieci anni dalla chiusura del contenzioso successivo all’esodo italiano dalla Libia (1970). Un bilancio amaro nel quadro di alcune riflessioni sulle analogie con la vicenda giuliano-dalmata

Compiuto il decennio dalla fine delle vertenze italo-libiche, avvenuta col trattato sottoscritto dal Governo di Silvio Berlusconi con quello del Colonnello Gheddafi, e con la successiva ratifica suffragata da un’ampia maggioranza trasversale (2009), l’impressione derivante dalle condizioni attuali e dai mutamenti intervenuti è che, invece di dieci anni, siano passati diversi secoli: cosa che conferma l’esistenza di forti accelerazioni nell’evoluzione politica internazionale, particolarmente significative nello scacchiere dell’Africa Mediterranea. In questo senso, assumono valenza emblematica sia il disfacimento della Libia dopo la scomparsa del «rais» sia il carattere drammaticamente prioritario, anche nella dialettica politica italiana, assunto dalle immigrazioni attraverso il Mediterraneo.

Come era avvenuto ai tempi del trattato di Osimo (1975) o in quelli più lontani del «diktat» (1947), il Governo Italiano ebbe la possibilità di fruire del favore aggiunto di alcune importanti opposizioni, ma fu costretto a prendere atto del voto contrario espresso da qualche gruppo parlamentare di area democratica come l’Unione di Centro e l’Italia dei Valori, e da qualche voce dissenziente nell’ambito della maggioranza, come quelle di Gianfranco Paglia, Medaglia d’Oro al Valor Militare, e dell’ex Ministro degli Esteri Antonio Martino, che nei loro interventi svilupparono critiche tanto più motivate in quanto gli esuli dalla Libia, dopo 40 anni di attesa, si erano visti riconoscere un risarcimento ridotto a 150 milioni di euro, oltre tutto spalmato in tre anni, mentre il danno stimato ammontava a un valore effettivo superiore di almeno venti volte.

Le motivazioni di chi non si era schierato con il Governo o aveva scelto la strada dell’astensione erano diverse, e si possono riassumere nella sperequazione di fondo fra dare e avere, a tutto vantaggio della Libia e di qualche potentato economico con interessi specifici per la chiusura del contenzioso a qualsiasi condizione, sia pure molto onerosa: è appena il caso di ricordare che il suo costo complessivo si sarebbe ragguagliato a non meno di cinque miliardi. Fra le tante considerazioni negative a posteriori, vale la pena di ricordare che l’Italia aveva già saldato vecchi debiti prima dell’avvento di Gheddafi (1970) mentre questi si era fatto premura di annullare gli accordi italo-libici antecedenti e aveva imposto nuove condizioni vessatorie, non solo di tipo economico, costringendo gli Italiani di Libia all’esodo immediato e alla confisca dei beni.

Fra gli scopi dell’accordo, in cui erano stati inseriti impegni simbolici di alto rilievo politico come la restituzione della Venere di Cirene assieme a clausole di rilevante entità finanziaria, il Governo Italiano aveva esaltato le intese per la prevenzione degli sbarchi clandestini, che peraltro erano rimaste senza esiti apprezzabili, tanto che il Ministro dell’Interno Roberto Maroni, dopo averne denunciato l’incremento nella misura del 130% (2008) aveva minacciato più volte di opporsi alla ratifica, visto che tale obiettivo politicamente prioritario rimaneva sulla carta. Comunque, la ratifica approvata da un’ampia maggioranza non fu una sorpresa: la ragione di Stato e gli interessi legati allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi non potevano prevedere soluzioni diverse, anche se le dissociazioni nell’ambito della coalizione di Governo e l’avallo contestuale del più forte partito di opposizione restano fatti storici su cui riflettere.

In ogni caso è da sottolineare che ancora una volta si era perduta una buona occasione per venire incontro alle attese degli esuli, invece di tacitarli con un’offerta di risarcimento pressoché irrisoria, e soprattutto, con l’avallo di una legge inesorabile e moralmente iniqua, in specie se strumentalizzata a fini politico-economici, come quella del tempo. Del resto, non era la prima volta in cui si contava sullo scorrere degli anni per attutire, e poi per sopire le pur legittime attese di chi era stato costretto all’esodo immediato e al disastro economico, senza alcuna responsabilità.

L’Italia era presente in Libia sin dal 1912, a seguito della guerra contro la Turchia, vecchia detentrice del «protettorato» su Tripolitania e Cirenaica, e durante il ventennio fascista aveva alimentato una forte corrente di emigrazione programmata, con importanti interventi nelle infrastrutture e nella colonizzazione agraria – ma non altrettanto nella ricerca petrolifera –, oggetto di apprezzamento anche da parte della Monarchia Senussita, salita al trono libico a seguito del trattato di pace del 1947, tanto che molti Italiani optarono per restare, nel quadro di una cooperazione accettata e condivisa ma bruscamente e drammaticamente disattesa a seguito del colpo di Stato di Gheddafi che ebbe buon gioco, grazie al potere conquistato con la rivoluzione, nel contestare l’iniziativa bellica assunta a suo tempo dal Governo Giolitti, e poi gli interventi contro le opposizioni locali, praticati dal fascismo soprattutto in Cirenaica.

Tornando ai tempi più recenti, spiace dover aggiungere che nel mondo giuliano e dalmata, protagonista di un’altra drammatica diaspora a seguito della Seconda Guerra Mondiale (che aveva coinvolto un intero popolo di oltre 100.000 famiglie), emerse qualche protesta per l’erogazione dei 150 milioni ai 20.000 profughi dalla Libia, definiti per l’occasione di «serie» volutamente superiore: a parte il fatto che siffatto indennizzo a livello di elemosina iterava la prassi delle vecchie offerte agli Istriani, Fiumani e Dalmati e che talune loro Associazioni si erano limitate a ringraziare, non sarebbe stato il caso di «fare sistema» e di unificare proteste che nell’uno e nell’altro caso sarebbero state oggettivamente sacrosante? Del resto, non va dimenticato che gli esuli da Eritrea, Etiopia e Somalia, oltre a quelli dal Dodecaneso, erano stati trattati anche peggio, forse perché in numero quantitativamente minore.

La protesta giuliana e dalmata era stata supportata, fra l’altro, dal rilievo secondo cui i profughi d’Africa avrebbero avuto meno diritti in quanto «colonizzatori» e non autoctoni costretti a lasciare la propria terra da un trattato di pace decisamente iniquo. L’osservazione, a prima vista, aveva un fondamento ovvio ma trascurava il fatto fondamentale che tutti gli esuli, senza distinzioni, erano figli della stessa Patria, e nella stragrande maggioranza dei casi, immuni da qualsiasi colpa. Ciò posto, sarebbe stato il caso che la polemica si stemperasse in una cordiale intesa, e che le Organizzazioni da cui giunse la protesta si rendessero conto di quanto fosse preferibile un comportamento meno rigido, se non anche fraterno.

Del resto, vista la sostanziale pochezza del risarcimento statuito a favore degli Italo-Libici, anche in proporzione alle cospicue «riparazioni» che erano state oggetto dell’accordo Berlusconi-Gheddafi, quelle stesse Organizzazioni non esclusero di potersi accontentare di un programma di risarcimenti a stralcio, e in quanto tale assai ridotto, invece di battersi per il famoso indennizzo «equo e definitivo» su cui si era insistito più volte nel confronto coi Governi delle varie estrazioni politiche.

Non c’è dubbio sul fatto che l’esodo giuliano e dalmata era stato di gran lunga più consistente rispetto a quello libico imposto da Gheddafi, e che era stato accompagnato dal sacrificio di troppe vittime innocenti, ma questa non avrebbe potuto essere una buona ragione per insorgere contro chi, a sua volta, era stato oggetto di un altro «diktat» in termini immediatamente cogenti come quello del settembre 1970: al contrario, doveva costituire motivo di comprensione e di ricerca dell’unità, che nella dialettica politica ed economica è sempre arra di forza.

Nel nuovo millennio, ciò di cui non si avverte il bisogno è un comportamento simile a quello dei capponi di Renzo, eternato da Alessandro Manzoni nel loro triste beccarsi a vicenda, ignari del destino che li aspettava: quello di finire in pentola. Fuor di metafora, se le forze residue consentono di esprimere solo proteste flebili e proposte regolarmente ignorate, si cerchi almeno di evitare paradossali contrasti di natura familiare, e si metta in mora – almeno dal punto di vista morale – chi è responsabile, nei confronti di tutti gli esuli, di un pervicace attendismo e di beffarde incomprensioni.

Oggi le relazioni con la Libia, o per meglio dire con le fazioni di Tripoli e Bengasi in perenne opposizione nel quadro di un’antica logica tribale, sono governate in misura quasi esclusiva dai problemi dell’immigrazione clandestina in Italia e dai rilevanti interessi petroliferi. Nel primo caso, il ruolo libico è quasi esclusivamente di transito e di gestione spesso disumana delle moltitudini in fuga dall’Africa sub-sahariana che attraversano il deserto per tentare la costosa e rischiosa traversata del Mediterraneo; nel secondo, assumono rilevanza non meno significativa i problemi riguardanti concessioni e gestioni del territorio su cui insistono i pozzi. Tutto il resto, a parte i lucrosi traffici di armi, non ha rilevanza politica.

In questa ottica, i sacrifici imposti all’Italia dal patto Berlusconi-Gheddafi di dieci anni or sono rivelano, a più forte ragione, la loro inidoneità ad avviare un rapporto costruttivo di lungo termine, costruito su basi paritetiche, iterando il carattere velleitario di molte imprese africane sin dalle prime esperienze coloniali del tardo Ottocento. Ancora una volta, la politica estera dell’Italia, con particolare riguardo a quella perseguita nel Continente Nero, ha manifestato i limiti della dipendenza da interessi particolari, o peggio ancora, di una sostanziale improvvisazione. Ricordando l’anniversario di quel trattato che sembrava aver dischiuso una prospettiva di nuove speranze poi tristemente naufragate, suscita non poca amarezza la permanente attualità dell’affermazione di un ottimo diplomatico come l’Ambasciatore (A.R.) Gianfranco Giorgolo, secondo cui l’Italia è sempre stata «maestra nel fare gli interessi degli altri».

(dicembre 2019)

Tag: Carlo Cesare Montani, accordo italo-libico, Silvio Berlusconi, Muhammar Gheddafi, Gianfranco Paglia, Antonio Martino, Roberto Maroni, Venere di Cirene, Giovanni Giolitti, relazioni tra Italia e Libia, Alessandro Manzoni, Renzo Tramaglino, Gianfranco Giorgolo.