Maggio 1945: pace senza onore
Le attività del Consiglio dei Ministri nel primo mese del dopoguerra

In Italia, alla fine della seconda Guerra Mondiale, culminata nei fatti di Piazzale Loreto con la morte di Benito Mussolini e di vari Ministri della Repubblica Sociale, e con la resa delle forze germaniche operanti nella Penisola, firmata a Caserta diversi giorni prima di quella conclusiva del Reich, non si ebbe un vuoto delle istituzioni analogo a quello di altri Paesi sconfitti, perché la continuità dello stato fu assicurata dalla Monarchia e dal suo Governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, il vecchio patriota dell’epoca prefascista.

Nondimeno, come emerge dagli atti ufficiali del Consiglio dei Ministri[1], ancor prima che dalla storiografia, le condizioni generali del Paese occupato dai vincitori, privo di effettiva sovranità, e ridotto allo stremo dalla miseria, dalla fame, e da un tragico collasso morale, erano decisamente pessime. Non esisteva nemmeno la libertà di movimento, da un lato perché le comunicazioni ferroviarie e stradali erano state quasi paralizzate dai danni del conflitto, ma dall’altro, perché per spostarsi da un luogo all’altro era necessaria, per gli stessi Ministri, l’autorizzazione degli Alleati.

In tale disastro, che precludeva qualsiasi iniziativa autonoma, in primo luogo nell’ambito della politica estera, durante il mese di maggio, sebbene fosse il primo dell’agognata pace, la resa dei conti ebbe modo di esprimersi in modo discrezionale, e spesso agghiacciante, come attestano le cronache del tempo, senza bisogno di interpellare le pur significative fonti fasciste. Preoccupazioni particolari sorsero anche nell’ambito del Governo per le vicende del confine orientale, ed in particolare per quelle di Trieste e dell’Istria, essendosi rapidamente diffuse le notizie circa il comportamento delle forze di Tito, con uccisioni indiscriminate ed efferate, che nel solo maggio furono parecchie migliaia[2].

Era logico dare la priorità alla ricostruzione ed affermare, come avvenne, che le decisioni finali sull’assetto del dopoguerra sarebbero scaturite da una futura conferenza di pace, certamente non immediata, ma la perdita della sovranità fu accompagnata da quella dell’onore. Infatti, nel primo Consiglio dei Ministri del dopoguerra, che si tenne a Roma il 3 maggio, il primo atto fu quello di ringraziare gli Alleati e le forze combattenti partigiane che avevano «liberato» l’Italia e la stessa Trieste, la cui appartenenza «indiscutibile» alla madrepatria venne comunque ribadita, almeno sul piano deontologico. Per il resto, il Ministro degli Esteri Alcide De Gasperi ed altri esponenti del Governo si limitarono ad «augurarsi» che le notizie provenienti dalla Venezia Giulia non fossero vere.

Eppure, come emerge dal proclama del Generale Josip Cerni[3], alto militare titoista che – nonostante la contestuale presenza del Corpo Neozelandese – si era subito proclamato Governatore di Trieste (documento allegato al verbale di quel Consiglio dei Ministri), tali auspici risultavano decisamente infondati giustificando le maggiori preoccupazioni che erano state avanzate, in particolare, dal Ministro dei Lavori Pubblici, Meuccio Ruini.

Se il successivo 9 giugno l’Armata Popolare Jugoslava fu costretta a ritirarsi da Trieste e da Pola, ma non da Fiume e dal resto dell’Istria, dove la tragedia delle foibe e dei massacri sarebbe continuata in tempi lunghi, ciò accadde unicamente a seguito dell’intervento del Generale Harold Alexander presso Tito, e delle maggiori attenzioni riservate da Stalin alle vicende dell’Europa Orientale ed alle prospettive di espansione sovietica, trascurando quelle dell’Alto Adriatico. In buona sostanza, l’impressione che si ricava dall’atteggiamento del Governo di Roma è quello di una totale e rassegnata impotenza: basti dire che negli stessi giorni gli Alleati, nonostante la consegna quasi integrale della flotta, già avvenuta nel 1943 a seguito dell’8 settembre, pretesero quella di un ultimo cacciatorpediniere, che il Consiglio dei Ministri avrebbe puntualmente avallato. Analogamente, non mancarono apprezzamenti per la decisione alleata di mettere a disposizione dell’Italia un certo numero di prigionieri tedeschi per collaborare alle prime esigenze dei lavori pubblici, nella presunzione che il loro apporto fosse positivo: ciò, senza pensare che sarebbe stato verosimilmente più congruo e funzionale, in un’ottica di efficace cooperazione, che l’offerta fosse riferita a prigionieri italiani, assai numerosi anche in patria (ma l’ipotesi era politicamente meno gradita alle forze di occupazione).

Si deve aggiungere che il Governo Sabaudo non era espressione della volontà popolare, ma di una necessità indotta dall’emergenza, e che comprendeva esponenti di forze politiche la cui sostanziale inconsistenza sarebbe stata confermata dalle elezioni, in tempi successivi: basti dire che lo stesso Presidente del Consiglio era stato espresso da Democrazia del Lavoro, una formazione che, al pari del Partito d’Azione, di Democrazia Italiana e di altri aggregati con seguito popolare praticamente nullo, sarebbe stata cancellata dallo scenario politico italiano. In effetti, le presenze più autorevoli, a parte il prestigio personale di Bonomi, uomo di cultura e di vecchia esperienza, furono quelle della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, nelle figure rispettive di Alcide De Gasperi e di Palmiro Togliatti, cui era affidato il Dicastero della Giustizia: personaggi di ben diversa estrazione e di programmi non certo convergenti, ma accomunati dal medesimo appiattimento nei confronti degli Alleati, imposto dalla sconfitta militare, e non certo dall’ethos, tanto più che l’Ammiraglio Ellery Wheeler Stone, massima autorità di occupazione e titolare di conseguente sovranità reale, non era indisponibile sul piano umano e civile[4].

Scorrendo gli atti del Consiglio dei Ministri di maggio, è facile constatare che le «preoccupazioni» per Trieste e per le zone del confine orientale, ricorrenti nella prima metà del mese, tendono a scomparire nelle settimane successive: l’ordinaria amministrazione finisce per prevalere, non tanto vista l’urgenza di tanti altri problemi o la necessità «politica» di provvedimenti connessi all’epurazione (come quelle di Valerio Borghese e di altri ufficiali superiori che avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana), quanto per l’incapacità di assumere un atteggiamento di efficace protesta consentito dalle circostanze, ed in particolare, dalla frattura già in atto tra Anglo-Americani ed area sovietica, all’epoca tuttora inclusiva della Jugoslavia. In tutta sintesi, quella del maggio 1945 appare un’Italia desolatamente rassegnata, ancora incapace, persino a livello governativo, di avviare un percorso di ricostruzione morale, non meno urgente di quella materiale.

Gli Alleati non mancavano di seguire le regole della normale cortesia diplomatica, come accadde poco più tardi, quando il Governo Bonomi fu sostituito da quello di Ferruccio Parri, cui i Governi di Londra e di Washington non mancarono di indirizzare un cordiale augurio, ma l’Italia, come De Gasperi avrebbe detto a Parigi, in apertura del suo intervento alla Conferenza di Pace, poteva contare sulla sola «personale cortesia» di alcuni interlocutori, e non certo sulla volontà politica di recuperare una piena sovranità: eppure, Benedetto Croce aveva già affermato che «la linea del possibile si sposta grandemente» proprio con l’ausilio di una «volontà che veramente vuole».


Note

1 Verbali del Consiglio dei Ministri (luglio 1943-maggio 1948), Edizione critica a cura di Aldo G. Ricci, volume IV, Governo Bonomi (12 dicembre 1944-21 giugno 1945), Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma 1995, 1.068 pagine. I documenti del maggio 1945 si riferiscono alle sei sedute consiliari tenutesi nel mese (pagine 623-825).

2 La bibliografia sulle grandi stragi del dopoguerra in Italia, ed in particolare sulla tragedia giuliana e dalmata, è quasi sterminata. Qui basti ricordare, per una silloge esaustiva di tipo storico e giuridico, l’opera di Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, Lithos Stampa, Udine 2011, 160 pagine; e per gli elenchi aggiornati delle vittime infoibate od altrimenti massacrate, la fondamentale ricerca di Luigi Papo, Albo d’Oro, Unione degli Istriani, Trieste 1989 (e le successive edizioni aggiornate a cura di Giorgio Rustia e Adriana De Filippi). In base a tali contributi, è ragionevole fare riferimento sostanzialmente definitivo a non meno di 16.500 scomparsi (che diventano oltre 50.000 nei monumentali lavori di Giorgio Pisanò e di Arturo Conti riguardanti tutto il territorio nazionale della Repubblica Sociale Italiana), senza dire dei 350.000 esuli dispersi nella diaspora senza ritorno.

3 Verbali del Consiglio dei Ministri, opera citata, pagina 737. Il proclama in parola venne letto dal Ministro degli Esteri De Gasperi durante la seduta del 9 maggio 1945 e fu pubblicato ne «L’Unità» dello stesso giorno, a firma del «Comandante della Città di Trieste», inneggiando alla «guerra appena terminata con la vittoria delle armi alleate» ed alla «marcia del popolo lavoratore verso un nuovo avvenire» concludendosi con il tradizionale auspicio di «fratellanza» fra l’Italia e la Jugoslavia, e con il consueto motto di «morte al fascismo e libertà ai popoli».

4 Verbali del Consiglio dei Ministri, opera citata, pagine 744-745: nella seduta tenutasi in data 11 maggio, venne data notizia, sempre da parte di De Gasperi, dell’iniziativa assunta dal Governo presso l’Ammiraglio Stone circa «la situazione della Venezia Giulia» e le ultime notizie «sempre molto gravi» aggiungendo che gli Alleati avevano assunto «l’impegno di interessarsi per la definizione della questione». In effetti, tale impegno avrebbe trovato espressione importante nella missione del Generale Alexander a Belgrado e nel ritiro delle forze armate jugoslave da Trieste e da Pola, conseguentemente accettato da Tito (9 giugno).

(aprile 2017)

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