Maria Pasquinelli
Un percorso di dolore e speranza cristiana nel segno della Fede e della patria

Il 10 febbraio è stato scelto quale «Giorno del Ricordo» dell’Esodo giuliano, istriano e dalmata, della tragedia delle foibe e delle «complesse vicende del confine orientale», con la Legge 30 marzo 2004 numero 92, approvata dal Parlamento Italiano a suffragio quasi unanime. Si tratta di una data non casuale, perché il 10 febbraio 1947 venne firmato il «diktat» imposto all’Italia dai 21 stati vincitori o presunti tali: come è stato autorevolmente riconosciuto anche da parte di uomini «super partes» come Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, si sarebbe potuto evitare la firma, al pari della ratifica sopravvenuta nel breve termine in Assemblea Costituente (con una forzatura istituzionale di qualche rilievo giuridico), ma gli effetti non sarebbero stati diversi, in specie per il sacrificio di Istria, Fiume e Zara, col rischio di aggiungervi quello di Trieste.

Molti non ricordano o non vogliono ricordare che in quello stesso giorno il plumbeo mattino di Pola, su cui gravava una pioggia gelida come le partenze del Toscana con i suoi dolenti carichi di profughi avviati verso l’esilio, fu sconvolto da tre colpi di rivoltella: quelli con cui Maria Pasquinelli mise a segno l’estrema protesta della sua gente, indirizzandola nei confronti del Generale Robert De Winton, il comandante inglese della piazzaforte locale, simbolo incolpevole della miope insipienza, anzitutto etica, con cui i Quattro Grandi ed i loro alleati di varia estrazione politica avevano azzerato le speranze italiane, cadute senza appello dal settembre dell’anno precedente, dopo la terribile strage di Vergarolla del 18 agosto in cui furono massacrate oltre 100 vittime italiane, e dopo la cancellazione delle ultime alternative revisioniste in Conferenza della pace.

Quel 10 febbraio, Indro Montanelli si trovava in Istria come inviato speciale del «Corriere della Sera» sulle cui colonne sarebbero usciti diversi servizi puntuali ed obiettivi circa la tragedia dell’Esodo. Il grande giornalista ebbe la ventura di essere tra i primi a comunicare la notizia del gesto di Maria documentandone le reali motivazioni suffragate dalla dichiarazione manoscritta che le fu trovata addosso: anzi, toccò proprio a Montanelli confutare talune interpretazioni di fantasia tanto affrettate quanto infondate, a cominciare da quelle secondo cui avere colpito De Winton sarebbe stata la conseguenza di non meglio specificate provocazioni, se non addirittura un «delitto passionale».

All’epoca, Maria aveva 34 anni, essendo nata a Firenze il 16 marzo 1913, e si era già distinta per azioni di alto patriottismo volontario, compiute in Africa accanto ai combattenti italiani nella sua qualità di crocerossina; e poi in Dalmazia, dove aveva chiesto di essere destinata a svolgere la consueta attività di insegnante che vi intraprese nel 1942, e dove si era fatta premura di collaborare ad opere meritorie come l’esumazione di 106 caduti italiani nei tragici fatti occorsi a Spalato dopo l’armistizio del 1943, in modo da sottrarli all’estremo oltraggio delle fosse comuni ed avviarli all’onorata sepoltura. In questo, era figlia d’arte, perché alcuni anni prima aveva collaborato con il padre Archimede (già Direttore del settimanale cattolico «Il Campanone» di Bergamo) nella sistemazione del Sacrario di Redipuglia: un’esperienza che l’avrebbe segnata per la vita.

Bruno Coceani, che conobbe personalmente Maria ed ebbe modo di apprezzarne le doti, scrisse che la sua opera era stata motivata dal desiderio di portare ai congiunti dei caduti «almeno la prova della loro morte» con un chiaro esempio di «pietas» cristiana; ed aggiunse che per tali benemerenze gli Esuli da Spalato ne avrebbero sempre parlato «con riverente ammirazione»[1].

In Dalmazia, Maria fu costretta a fronteggiare gli orrori e i rischi del conflitto, in misura maggiore di quanto le era accaduto in Africa Settentrionale. Venne arrestata dalle milizie di Tito ed il 13 settembre 1943 fu oggetto di un tentativo di stupro partigiano cui ebbe modo di sottrarsi per la forte reazione che fu capace di esprimere. Durante il periodo di prigionia in mano croata ebbe l’aiuto di alcune donne che erano «ammirate della sua bontà» e le permisero di sopravvivere alla fame ed alle angherie. Liberata a seguito del momentaneo ritorno dell’Asse, il 27 ottobre decise di imbarcarsi alla volta di Trieste con la Goffredo Mameli e riuscì a salvarsi anche dalle bombe alleate che vennero sganciate sulla nave dove fecero parecchie vittime, tra cui il Professor Camillo Cristofolini, apprezzato collega della Pasquinelli.

Durante gli ultimi mesi del conflitto, ben comprendendo il tragico destino che incombeva su Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, si era impegnata nell’impossibile ma pervicace tentativo di costituire un fronte comune antislavo composto da Regno del Sud, Repubblica Sociale Italiana e Comitato di Liberazione Nazionale, destinato ad abortire in partenza perché gli Alleati, assieme al Governo Badoglio ed alle forze partigiane, avevano già preso accordi irreversibili con Tito.

Nell’immediato dopoguerra fu ugualmente attiva, prima a Trieste, e poi soprattutto a Pola, quale Assistente degli Esuli sia in ordine alle faticose incombenze burocratiche, sia nella prioritaria ottica psicologica: le svariate testimonianze di chi la conobbe sono state concordi nel riconoscerne l’altruismo e la sensibilità. Furono questi stati d’animo, fatti di forti emozioni e di commossa partecipazione al dramma di un intero popolo, a suscitare nel cuore di Maria l’idea di esprimere la protesta di tutti con un gesto capace di coniugare nobile sentire e forte agire, e di suscitare la reazione di quel popolo nei confronti dell’ingiustizia: un obiettivo che si rivelò utopistico ed avrebbe alimentato la motivata disillusione della protagonista, ma senza compromettere una fede che lo scorrere del tempo finì per corroborare.

Maria Pasquinelli, levando alto e chiaro il suo grido di dolore, prese ad esempio la «maschia Giaele» di manzoniana memoria, l’urlo di Antigone contro l’ingiustizia istituzionalizzata di Creonte, il coraggio giovanile di Carlotta Corday nello «spegnere» Jean Paul Marat, un tiranno sanguinario e crudele che aveva trovato di che vivere nel nuovo mestiere di rivoluzionario; così facendo, si ergeva ad interpretazione solitaria e drammaticamente contemporanea dell’antitesi fra un potere cieco, quasi sempre auto-referenziale, e le «alte non scritte ed inconcusse leggi» in ricorrente contrasto col diritto positivo.

Come avrebbe detto Giovanni Botero, quello di Maria è certamente un «eccesso del giure comune» ma non per vile appiattimento sulle esigenze della ragione di Stato: al contrario, per un «ethos» talmente superiore da rendere compatibile il delitto con la fede in quel medesimo Dio che tanto tempo prima aveva «guidato il colpo» di Giaele. Del resto, la Pasquinelli era immediatamente rientrata nell’alveo della legge «ordinaria» riconoscendo la propria responsabilità, affrontando con fermezza il giudizio della Corte Alleata e rinunciando, secondo la testimonianza di Bruno Coceani, all’ipotesi di salvarsi tramite un’evasione bene organizzata. Anzi, dopo avere ascoltato la lettura della sentenza capitale da parte del Presidente John Chapman (pronunciata dopo una Camera di Consiglio protrattasi per soli 20 minuti), Maria giunse al punto di esprimere ai suoi giudici la gratitudine per le «cortesie» che le erano state usate anche attraverso il suggerimento di firmare la domanda di grazia, assolutamente inutile perché lei non avrebbe potuto accettarlo.

La giovane patriota fiorentina aveva lucidamente previsto di essere uccisa sul luogo dell’attentato, dove «attese sgomenta» le conseguenze immediate della propria azione maturata nel clima di angoscia creato dalle decisioni dei Quattro Grandi, e talmente straziante da far «esplodere» – come da pertinente espressione di Coceani – tutta la sua ribellione. Maria, in effetti, non odiava gli Alleati né tanto meno De Winton: durante il processo disse di riconoscere e rispettare la sacralità di tutte le Patrie e volle precisare, alla stregua di quanto evidenziato nel testamento spirituale che portava con sé, come la sua decisione fosse stata motivata soltanto dalla protesta nei confronti di chi aveva mostrato una totale incapacità di comprendere il buon diritto italiano.

La commutazione della pena in quella dell’ergastolo sopraggiunse in tempi non rapidi, ma in seguito ad una sospensione sostanzialmente interessata[2] perché gli Alleati sapevano bene di non avere bisogno di una nuova martire, che la sensibilità popolare aveva immediatamente equiparato a Guglielmo Oberdan. Subito dopo, Maria venne affidata alla giustizia italiana che si sarebbe dovuta fare carico degli adempimenti carcerari e la trattenne fino al 1964, quando – col beneplacito inglese – il Presidente Vicario Cesare Merzagora concesse la grazia che il 22 settembre l’avrebbe rimessa in libertà[3]. A quel punto, la Pasquinelli si trovò a più forte ragione sola con la propria coscienza e con un senso di accentuata religiosità già sviluppato nella casa fiorentina di Santa Verdiana grazie ai colloqui con Don Giulio Facibeni, Cappellano della Prima Guerra Mondiale e fondatore dell’Opera Madonnina del Grappa[4], sin da allora in odore di santità: per lui Maria era quasi una figlia perché, come lei avrebbe raccontato in un’intervista concessa nel 1997, l’aveva battezzata nella chiesa di Santo Stefano in Pane, vicino alla casa natale di Via delle Panche, ed era molto amico del suo babbo[5].

Vale la pena di soggiungere che nei lunghi anni della detenzione Maria fu un vero modello, sia per il comportamento irreprensibile sia per il conforto spontaneo e disinteressato offerto ad altre condannate, tra cui Caterina Fort, la «belva di Via San Gregorio» protagonista di un fosco dramma della gelosia che aveva sconvolto, sempre nel 1947, l’Italia del dopoguerra. Donna di fede e di speranza, con queste attenzioni Maria dimostrava di praticare attivamente anche la virtù della carità, impegnandosi, fra l’altro, nell’insegnamento gratuito alle carcerate.

Eppure, è stata quasi dimenticata, come lei stessa aveva desiderato: ciò, sebbene a distanza di oltre 60 anni da un primo opuscolo[6] uscito dopo il processo sull’onda dell’emozione, si sia avuto un imprevedibile ritorno di ricerche sulla sua vicenda: dapprima, con il breve ma lucido saggio di Stefano Zecchi[7] che alla stregua di un’alta esperienza cattedratica di filosofia ha percorso «ex novo» la storia di Maria fino a sottolineare come la sua progressiva «escalation» di esperienze tanto drammatiche abbia dato luogo ad un atto che si potrebbe definire «necessitato»; poi con il contributo di Rosanna Turcinovich Giuricin[8] che muove da una breve e quasi surreale intervista all’ormai novantasettenne Maria per approdare ad una comprensione sia pure contingente, suffragata dal fatto che la Pasquinelli avrebbe ripudiato le antiche fedi di «mistica fascista» coltivate alla scuola «eroica» di Nicolò Giani da cui erano usciti, fra gli altri, Carmelo Borg Pisani, Guido Pallotta e Berto Ricci; ed infine, con l’opera di Carla Carloni Mocavero[9] che ha riveduto il percorso umano e psicologico di Maria in un’ottica di approfondimento motivazionale, anche per quanto riguarda i possibili supporti al suo gesto che tuttavia rimane improntato, secondo logica, al carattere di una scelta propria.

Discutere oggi sulle scelte politiche di Maria, che è mancata a Bergamo il 3 luglio 2013, poco dopo il suo centesimo compleanno[10], appare piuttosto intempestivo se non anche impertinente. Negli anni Trenta, quando pervenne alla laurea, le opzioni di chi aveva senso dello stato ed elevata sensibilità patriottica, come un’ampia maggioranza del popolo italiano, erano scontate, mentre dopo l’8 settembre finirono per essere condizionate, in tanti casi, dalle situazioni individuali: a questo proposito diventa strumentale, oltre che poco significativo, accertare se Maria avesse aderito alla Repubblica Sociale Italiana o se avesse voluto o dovuto decidere altrimenti.

Ciò che maggiormente conta nel giudizio storico sono i comportamenti che la indussero ad agire nel campo dell’onore, come dimostra la sofferta esperienza di Spalato, quando, come detto, si sottrasse quasi miracolosamente alle violenze partigiane; ed a battersi per sollecitare Alleati, badogliani e fascisti a promuovere un’intesa per la salvezza della Venezia Giulia e dell’Istria, e prima ancora per quella dei loro infelici abitanti, tanto da essere arrestata dai Tedeschi che non potevano condividere la sua attività a tutto campo e la rilasciarono solo per l’intervento personale di Junio Valerio Borghese.

Maria Pasquinelli è stata un esempio significativo perché ha dimostrato di avere compreso fino in fondo quanto fosse essenziale, nei tempi duri dell’emergenza, anteporre l’interesse della Patria a quello delle fazioni, ed a più forte ragione, a quello della persona: in concreto, il principio fondamentale di uno Stato etico nel senso migliore della parola, che trascende ogni forma di pragmatismo e di egocentrismo.

Il comportamento di questa donna, certamente fuori del comune, fu privo di atteggiamenti «fanatici» e non serve che qualcuno abbia scritto il contrario in giudizi di taglio giornalistico quanto meno affrettati. Sempre disponibile, sorridente, idealista fin quasi all’utopia, sarebbe stata un’ottima insegnante ed una cittadina esemplare se non fosse diventata una vittima della guerra al pari di Robert De Winton, la cui consorte, del resto, lo avrebbe ammesso qualche anno dopo come un segno del destino[11] e senza resipiscenze vendicative, pur essendo rimasta sola dopo un anno di matrimonio, e con un figlio in tenerissima età.

Maria fu tragicamente lucida pur avendo vissuto esperienze allucinanti, non soltanto in Dalmazia, come le accadde nella primavera del 1945 quando fu presente a Milano, in modo del tutto casuale, ai preparativi della fucilazione, per mano partigiana, del Capitano Walter Jonna, un ufficiale reduce da terribili esperienze in Russia, suo vecchio compagno di fede e di preparazione politica: egli riuscì a salvarsi in maniera rocambolesca, e nella sua testimonianza non ha mancato di fare riferimento all’episodio ed all’impressione indelebile che ebbe anche su Maria[12].

Nel 1956 un fatto parzialmente analogo venne discusso in un altro celebre procedimento giudiziario a carico di Alfa Giubelli. Questa giovane signora, all’epoca ventunenne, aveva ucciso, evidentemente dopo lunga premeditazione, un partigiano comunista che nel frattempo aveva fatto carriera fino a diventare sindaco di Crevacuore, un Comune del Cusio-Ossola: 11 anni prima, costui aveva «liquidato» la mamma di Alfa (accusata di essere una «spia» al servizio dei fascisti) davanti agli occhi della bambina, traumatizzata per tutta la vita da un’esperienza così terribile. Il processo, che suscitò grandi attenzioni nell’opinione pubblica e nei media, si concluse con una condanna relativamente mite (cinque anni di reclusione): i tempi non erano molto cambiati sul piano politico, ma Alfa ebbe il «vantaggio» procedurale di essere giudicata da una Corte Italiana, diversamente dalla Pasquinelli, nel cui caso, giova ripeterlo, si potrebbe discutere sulla legittimità di quella britannica. Nel febbraio 1947 Pola era tuttora soggetta alla sovranità italiana, che sarebbe venuta meno soltanto il successivo 15 settembre con l’entrata in vigore del trattato di pace, ed il fatto che la vittima appartenesse alle forze armate di occupazione non elide il quesito in materia di competenza.

Sorsero dubbi sul possesso dell’arma, che Maria asserì di avere acquisito casualmente nelle concitate vicissitudini degli ultimi giorni di guerra, e si parlò di possibili complici. Tra l’altro, ebbe momenti di notorietà la supposizione secondo cui la Pasquinelli avrebbe agito al posto di un concittadino la cui mano sarebbe stata bloccata dalla paura, ma si tratta di ipotesi non confermate in istruttoria né durante il dibattito, né tanto meno dalla storiografia. Ancora meno credibile è l’ipotesi, obiettivamente fantastica, che dietro Maria operasse «un certo Giuliano» nella persona del noto fuorilegge.

Al di là di possibili suggestioni ambientali, è ragionevole ribadire che Maria agì da sola, assumendo consapevolmente la tremenda responsabilità del suo gesto: l’unico ad avere trasferito la protesta istriana, giuliana e dalmata, a guerra finita, in una vera e propria «scelta armata». Ciò conferma la realtà di un Esodo tanto più amaro e doloroso perché compiuto all’insegna di una triste rassegnazione, peraltro ben comprensibile in un popolo di forte osservanza religiosa che era stato offeso, tradito, umiliato.

La storia deve ripudiare le congiunzioni avversative e dubitative, e le proposizioni che ne sono sorrette. Tuttavia, non è infondato chiedersi, a livello di mera ipotesi, cosa poteva accadere se Maria, invece di essere verosimilmente unica, fosse stata imitata da 100, 1.000, 10.000 patrioti: nel caso di specie, la disperazione non ebbe modo di tradursi in prassi, ma divenne accettazione passiva di un’enorme tragedia epocale[13] in cui la fuga appariva la sola possibilità di salvezza. Altrimenti, non troverebbe spiegazione il grande Esodo che coinvolse 350.000 profughi, vale a dire nove decimi della popolazione.

A proposito dell’arma con cui De Winton venne ucciso, è stata adombrata l’ipotesi che, diversamente da quanto sostenne Maria, fosse in suo possesso da parecchio tempo e che lei si allenasse al tiro, sparando all’interno di un cortile. Ciò suffragherebbe la tesi della premeditazione, anche se l’aggravante, comunque non dimostrata, non ebbe un ruolo effettivo nella decisione di comminare il massimo della pena.

Maria aveva fatto parte della «struttura segreta della Decima» e la Polizia alleata di Pola aveva ricevuto la direttiva di «non arrestarla per alcun motivo»[14]. Pertanto, non sono prive di fondamento le testimonianze circa la tesi espressa da James Angleton dell’Unità «Z» (Servizi Segreti Statunitensi), quando sostenne che il gesto di Maria, le cui intenzioni erano state per lo meno intuite dall’Intelligence, avrebbe dovuto concretizzare la speranza di una «rivolta contro la Jugoslavia». Al riguardo va aggiunto che, a fronte della domanda circa le ragioni per cui «gli Istriani non si difesero con le armi», si è già rilevato come i motivi essenziali siano da ricercare nella paura, nelle indecisioni, nel rifiuto del plebiscito, nel disimpegno degli Alleati e, prima ancora, nell’atteggiamento pilatesco del Governo Italiano[15].

A due terzi di secolo dai fatti, è doveroso chiedersi cosa rimanga di quel gesto e quale messaggio possa esserne tratto ad uso degli immemori e degli ignari, se non altro attraverso il documento predisposto da Maria prima del dramma in cui riteneva di dover perdere la sua stessa vita: una sorta di memento spirituale proposto alla meditazione comune alla stregua di un grido di dolore sempre credibile e pertinente, in una prospettiva storica a cui lo scorrere del tempo e la chiusura della sua vicenda terrena conferiscono ulteriori motivi di obiettività e di valutazione morale.

Maria Pasquinelli, nei rarissimi contatti informali con l’esterno intercorsi dalla sua liberazione in poi non ha mai voluto indulgere ad espressioni di conclamato pentimento spettacolare[16], pur essendosi fatta premura di promuovere preghiere per la vittima. In carcere non le mancarono visite di significativo spessore morale: oltre agli incontri con Monsignor Giulio Facibeni e Don Luigi Stefani, Esule da Zara, Cappellano della Misericordia di Firenze e promotore di importanti iniziative del volontariato, avrebbe avuto contatti di grande rilievo spirituale con il Vescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin, esaurientemente testimoniati da Don Ettore Malnati, che ne diresse la Segreteria[17]. Non a caso, dopo il primo colloquio con lo stesso Santin, riceveva ogni mattina il Sacramento dell’Eucarestia.

Non fu estraneo alla vicenda di Maria nemmeno un fratello del Generale De Winton, anch’egli sacerdote, che ebbe modo di visitarla negli anni del carcere, e di avere con lei un colloquio i cui contenuti, al pari degli altri ora citati, rimasero improntati ad ovvia riservatezza[18].

Il dovuto rispetto nei confronti della «fede ai trionfi avvezza» esime da ogni tentativo di andare più a fondo in merito a questi rapporti, che equivarrebbe a voler indagare i segreti più intimi della personalità; nondimeno, si può affermare senza tema di smentite che Maria ha pagato duramente e lungamente per il suo gesto, ed in definitiva, per un amore di Patria che si pone oltre i limiti estremi del disinteresse, della gratuità, dell’onestà, dell’altruismo.

È stato detto con felice sintesi che quella di Maria fu l’azione di «un combattente politico pur consapevole della sua inutilità» ma non per questo priva di fede; ed un atto paradossalmente capace di riservare a Robert De Winton una fama postuma che ne trascende il ruolo militare e le funzioni effettive[19].

Ogni giudizio sull’esperienza etica e spirituale della Pasquinelli, e se si vuole, anche sulla sua vicenda politica, rischia di non essere esauriente, e di restare comunque soggettivo, tanto più che durante i 17 anni di detenzione e lungo il mezzo secolo successivo, i suoi contatti con il mondo furono ridotti al minimo ed in buona parte formali. Come emerge dalle testimonianze di coloro che la conobbero, è verosimile che non abbia avvertito l’esigenza di un «pentimento» nel senso tradizionale del termine, perché la sua scelta religiosa e civile era iniziata e proseguita ben prima di quel fatale 10 febbraio: Maria amava Dio e la Patria, e quindi la terra istriana e dalmata che considerava naturalmente sua, assieme a tutti coloro che furono costretti a scegliere l’Esodo per salvare la vita, salvo rimanere incredula, ancor prima che delusa, al cospetto di un’abulia in cui non ravvisava la virtù cristiana della pazienza ma il segno diabolico del nichilismo.

Un politologo di chiara fama come Giovanni Sartori, commentando la gloriosa Rivoluzione Ungherese del 1956, ne diede una definizione emblematica: sublime follia. Si potrebbe dire lo stesso per la scelta di Maria Pasquinelli, ma in entrambi i casi il giudizio è da condividere soltanto nell’ottica riduttiva di valutazione delle conseguenze personali, da una parte a carico dei patrioti che si immolarono nell’impari lotta contro i carri armati sovietici, e dall’altra a danno della giovane professoressa fiorentina. In realtà, il suo «biglietto» è ben lungi dalla follia, ma lucidamente consapevole nella ferma ribellione a chi aveva fatto strame dei «sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica» consegnando alla Jugoslavia «le terre più sacre d’Italia» e condannando le sue genti «indomabilmente» italiane alle foibe, alla deportazione, o nella migliore delle ipotesi, all’esilio.

Il difensore d’ufficio, Avvocato Luigi Giannini, un decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare sensibile ai richiami patriottici, aveva chiesto il minimo della pena senza farsi soverchie illusioni, ma oggi la rilettura della sua arringa, come quella dell’interrogatorio di Maria, suscita spunti di sincera commozione. Nell’Italia consumista e materialista dove si uccide impunemente per i motivi più futili, quello del 10 febbraio 1947 è un «delitto» non certo comparabile con le gesta di assassini che ignorano il valore unico della vita umana, ma neppure con l’indifferenza di chi – come il Governo Militare Alleato – aveva ceduto in varie occasioni alle pretese dell’invasore senza la benché minima copertura di un qualsivoglia «fumus boni juris».

Nella lettera che Nicolò Machiavelli scrisse nel 1527 all’amico e confidente Francesco Vettori, il Segretario Fiorentino afferma di avere amato la Patria «più dell’anima»[20]. Una dichiarazione praticamente e sorprendentemente uguale fu quella resa da Maria durante il processo: non è motivo di sorpresa perché lei conosceva bene il pensiero politico del Machiavelli, con cui aveva avuto familiarità durante gli studi traendone conferma della sua convinzione che non potesse «esservi salvezza per un’Italia comunque divisa».

Anche in questa ottica, è motivo di opportuna condivisione il fatto che all’inizio del nuovo millennio la storia di Maria sia stata oggetto di significative attenzioni, sia nell’ambito storiografico sia a livello giornalistico. Ciò vuol dire che il suo dramma è sempre attuale, e che lo sforzo di comprenderne le motivazioni profonde è diventato apprezzabile, anche alla luce delle motivazioni che suffragano la legge istitutiva del «Ricordo», citata in premessa.

Quindi, è ragionevole concludere affermando che Maria Pasquinelli può essere tuttora impopolare perché scomoda sul piano politico, e su quello di un’interpretazione meramente «positiva» del diritto, ma che diventa a più forte ragione «contemporanea» – come avrebbe detto Croce – in quanto paladina di una Giustizia superiore a quella umana; e soprattutto di valori perenni, destinati a vivere nei cuori e nelle menti degli uomini di buona volontà.


Note

1 Bruno Coceani, Mussolini, Hitler, Tito alle porte orientali d’Italia, Istituto Italiano di storia, cultura e documentazione, Gorizia 2010, pagina 78 (ristampa della prima edizione uscita nel 1948).

2 L’opinione pubblica italiana si mobilitò rapidamente in favore della grazia: al riguardo, si deve registrare, fra gli altri, l’impegno di Padre Agostino Gemelli che, nella sua qualità di Rettore dell’Università Cattolica di Milano, intervenne con solerte tempestività subito dopo la condanna a morte da parte della Corte Inglese. Questa mobilitazione spontanea ebbe un ruolo certamente notevole, come nella successiva decisione di dare mandato alla giustizia italiana per la gestione esecutiva della pena commutata in quella dell’ergastolo.

3 Le vicende connesse alla «seconda» grazia non sono chiare perché la relativa istruttoria, conservata nel carcere di Firenze dove Maria Pasquinelli scontava la sua pena, è andata distrutta nell’alluvione del 4 novembre 1966, mentre negli Archivi del Quirinale si trova il solo decreto di concessione da cui emerge che la domanda, su probabile iniziativa del collegio di difesa, era stata presentata circa tre mesi prima, anche a fronte delle precarie condizioni in cui versava la sorella Benedetta. Va aggiunto che, già nel 1953, era stato rivolto un appello alla Regina Elisabetta teso a promuovere la liberazione di due donne che languivano nelle carceri italiane a fronte di sentenze pronunciate da una Corte Britannica: si trattava di Anna Cattani, condannata per avere torturato un prigioniero di Sua Maestà, e di Maria Pasquinelli. È inutile precisare che l’iniziativa, dovuta ad un religioso italiano, Padre Blandino, non ebbe seguito.

4 Giulio Facibeni (1884-1958), Medaglia d’Argento al Valor Militare e «Giusto fra le Nazioni», si distinse sull’Isonzo e sul Grappa per l’assistenza ai combattenti di entrambe le parti, feriti o moribondi, e ne trasse la prima ispirazione per la sua grande Opera, il cui valore morale fu riconosciuto universalmente, anche dal Governo Austriaco. Prima, si era già distinto a Firenze per l’assistenza ai poveri, ai carcerati ed ai loro figli: un’esperienza di lunga data che durante la maturità avrebbe avuto ulteriore seguito, fino all’affettuoso incontro con la giovane detenuta Pasquinelli, improntato ad una sommessa e commossa partecipazione destinata a lasciare un segno importante nell’animo di Maria, se non altro nel ricordo del Battesimo ricevuto nel 1913 da Don Giulio.

5 Giovanni Morandi, Intervista a Maria Pasquinelli, in «La Nazione», Firenze, 5 febbraio 1997. Don Facibeni (nomen omen!) rimase in contatto con Maria fino alla morte: l’ultima visita alla detenuta di Santa Verdiana ebbe luogo il 25 aprile 1958, due mesi prima della scomparsa che avrebbe lasciato nel dolore tutta la città, senza distinzioni di parte. Solo il giorno prima del loro incontro, come ha ricordato la stessa Maria, il «Padre» aveva compiuto l’ultimo pellegrinaggio sul Grappa.

6 Processo di Maria Pasquinelli: il dramma della Venezia Giulia, Del Bianco Editore, Udine 1947, 79 pagine. L’opuscolo, che si deve all’iniziativa di un «gruppo di donne istriane» firmatarie della premessa, si apre con un omaggio alla patriota (quale «fiore nato nel pantano» di un’Italia allo sbando), contiene gli Atti dell’interrogatorio di Maria durante il processo, l’arringa del difensore Avvocato Luigi Giannini, e si conclude con la copia autografa del biglietto scritto dalla Pasquinelli per motivare le ragioni del suo gesto.

7 Stefano Zecchi, Maria: una storia d’altri tempi, Edizioni Corriere della Sera (Collana Corti di carta), Milano 2008, 59 pagine. Alla vicenda della Pasquinelli il Professor Zecchi si è ispirato, inoltre, in un romanzo storico di grande successo (Quando ci batteva forte il cuore), la cui protagonista è una patriota istriana di forte tempra e di grande impegno.

8 Rosanna Turcinovich Giuricin, La giustizia secondo Maria: la donna che sparò al generale brigadiere Robert W. De Winton, Del Bianco Editore (Collana Civiltà del Risorgimento), Udine 2009, 136 pagine. Il volume contiene la ristampa integrale dell’opuscolo edito nel 1947, senza gli Atti dell’istruttoria precedente il processo, tuttora subordinato ad un vincolo che, essendo intervenuta la scomparsa di Maria, è auspicabile possa essere rimosso.

9 Carla Carloni Mocavero, La donna che uccise il Generale (Pola, 10 febbraio 1947), Ibiskos Editrice Risolo, Empoli 2012, 242 pagine (con documenti dell’epoca e con una valutazione grafologica della personalità di Maria): opera poliedrica e per quanto possibile esaustiva, che conclude per una sostanziale «assoluzione» metagiuridica della Pasquinelli. Ulteriori attenzioni all’attività della patriota fiorentina nel periodo di Pola sono state riservate nella storiografia più recente, con particolare riguardo all’opera di Gaetano Dato scritta per incarico del Circolo Istria (Vergarolla: 18 agosto 1946: gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda, Edizioni LEG, Gorizia 2014, pagine176-191), dove si pone l’accento sui rapporti di «perversa complicità fra alcuni ambienti alleati e la giovane attentatrice» decisamente improbabili, non senza riferimenti ad alcune carte di fonte italiana, mutuate dai Servizi Britannici, in cui la Pasquinelli viene descritta quale «elemento spregiudicato, di liberi costumi»: affermazione francamente surreale visto il lungo percorso fideistico e patriottico di tutta una vita. La lunga digressione del giovane storico si conclude con il ricordo personale di Maria relativo alla strage, mutuato dalla cosiddetta «intervista» della Turcinovich Giuricin, dove si rammenta che doveva esserci anche lei, salvata dall’avere scelto «una spiaggia diversa proprio quel giorno»: quasi una sottile insinuazione per adombrare la possibilità di matrici diverse da quella ormai ufficiale dell’OZNA, la polizia politica di Tito: ipotesi non esclusa dal Dato. In realtà, furono tantissimi i cittadini di Pola che avrebbero potuto essere a Vergarolla ma optarono per una domenica diversa. Tutti potenziali attentatori?

10 Rimasta da tempo sola, Maria ha trascorso gli ultimi anni di vita in una casa di riposo, dove continuava a ricevere l’affettuoso omaggio del mondo giuliano ed istriano; da rammentare che il 16 marzo 2013, in occasione del suo centesimo genetliaco, ebbe l’ultima visita della carissima amica Licia Cossetto (a sua volta mancata dopo pochi mesi), sorella della martire Norma infoibata nell’ottobre 1943 assieme al padre, diventando simbolo del martirologio di un intero popolo. Ad ulteriore attestazione della sua notorietà, non soltanto in Italia, si può aggiungere che subito dopo la scomparsa Maria venne fatta oggetto di ricordi molto equilibrati, ed a più forte ragione significativi, anche da parte della stampa estera: tra gli altri, i giornali britannici «Times» e «Telegraph» e lo spagnolo «El Pais»).

11 Il padre della signora De Winton, Maggiore William Robert Gregory, era caduto sul fronte italiano nel 1918, durante la Prima Guerra Mondiale, quasi a sottolineare la continuità di un destino che ne coinvolse tristemente la famiglia anche a Pola, una trentina d’anni più tardi. Si può aggiungere che Anna De Winton Gregory sopravvisse sino alla tardissima età di 98 anni, quasi come Maria, mantenendo un analogo atteggiamento di costante riservatezza.

12 Per la singolare vicenda di questo ufficiale (recentemente scomparso) «sfuggito a due fucilazioni» perché aveva già vissuto in Russia la stessa esperienza occorsagli a Milano appena finita la guerra, confronta Walter Jonna, Inseguendo un sogno: noi, i Ragazzi della Decima, Casa Editrice Ritter, Milano 2006. L’amicizia e la frequentazione con la Pasquinelli sono documentate anche in monografie dello stesso Autore, tra cui quella dedicata specificamente a Maria.

13 Circa le matrici di questo atteggiamento, riconducibili alle profonde tradizioni cristiane, alla carenza di esperienze politiche sovrane, ed alla vocazione in prevalenza artigiana e mercantile, oltre che alla sindrome di una sconfitta oggettivamente totale, confronta Carlo Montani, Venezia Giulia e Dalmazia: Sommario storico, Ades/Regione Friuli Venezia Giulia, terza edizione, Trieste 2002, 190 pagine.

14 Achille Scalabrin, La Pasionaria dell’Istria: Maria Pasquinelli maestra omicida per amore di Patria, in «Quotidiano nazionale», «Il Giorno», «Il Resto del Carlino», «La Nazione», Milano/Bologna/Firenze, 24 marzo 2012, pagine 38-39.

15 Pietro Spirito, Il ritorno di Maria Pasquinelli, in «Il Piccolo», Trieste, 14 settembre 2008. Nell’articolo si afferma, tra l’altro, che la Curia Triestina aveva riconosciuto in Maria una persona di «alta spiritualità» anticipando un’ulteriore testimonianza dello stesso Spirito in data 13 novembre 2012, dove si rammenta che l’Archivio Pasquinelli era stato affidato alla custodia dell’attuale Vescovo Emerito, Monsignor Eugenio Ravignani.

16 Il pentimento autentico non ha carattere esteriore prevalente perché costituisce, in primo luogo, un «cambiamento nella mente e nel cuore» che instaura un rapporto nuovo con Dio e con il mondo nel ripudio del peccato. Maria, pur senza mutazioni radicali che non avevano bisogno di sussistere in un’anima già dedita tangibilmente al bene comune, ha compiuto, caso mai, un percorso di affinamento e perfezionamento nel silenzio raccolto dell’introspezione cristiana, in guisa da poter coesistere, come la stessa Pasquinelli aveva affermato durante il processo, con un amore per la Patria non dissimile da quello per la propria anima.

17 Nel Cimitero Militare Britannico di Adegliacco (Udine), dove si trova il sepolcro del Generale De Winton, il monumento funebre è integrato da una piccola croce di marmo bianco posta per volontà di Maria Pasquinelli (come da testimonianza di Licia Cossetto). Inoltre, è noto che per parecchio tempo, ad ogni cadenza mensile del dramma consumato a Pola il 10 febbraio 1947, una Santa Messa in memoria veniva celebrata, sempre per iniziativa della stessa Maria, le cui frequentazioni con il mondo religioso – giova ribadirlo – furono costanti, come nel caso del lungo rapporto con Sua Eminenza Antonio Santin, l’eroico Vescovo di Trieste e Capodistria, già dalla visita dal Presule nel carcere triestino del Coroneo, dopo la condanna a morte, e fino alla maturità, quando era tornata libera: Maria andava a trovarlo spesso in Curia, come racconta Monsignor Malnati, cui apparve «persona determinata, intelligente e schiva, non certo un’esaltata ma donna riflessiva, formata nella cultura del suo tempo e segnata da una vicenda che non esibiva e per la quale non chiedeva né esaltazione né commiserazione» inducendo nell’interlocutore «stima e profondo rispetto per la sua dignità e modestia» (la testimonianza è riportata in Carla Carloni Mocavero, opera citata, pagina 139).

18 Secondo Don Dina, parroco di Castelfiorentino e già Segretario del Vescovo di Pola Monsignor Giovanni Radossi (di cui alla citata intervista di Giovanni Morandi), il fratello del Generale De Winton, sacerdote a Friburgo, avrebbe confermato che a sua cognata, vedova della vittima, «rincresceva che Maria stesse in carcere».

19 Donne in Grigioverde in Istria e Dalmazia: Maria Pasquinelli, in AA.VV., Foibe: la storia in cammino verso la verità, Edizioni ISSES, Napoli 2001, pagine 105-111. Tra le altre fonti integrative, comunque di buon interesse specifico, confronta Giovanni Miccolis, 1943: Orrori in Jugoslavia, Città Nostra, Mola di Bari 2011, pagina 37 e seguenti.

20 Plinio Carli ed Augusto Sainati, Storia della letteratura italiana, Edizione Le Monnier, Firenze 1953, pagina 267.

(marzo 2013; ripubblicato: luglio 2017)

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