Minoranza slovena in Italia: questioni demografiche e problemi attuali
Una normativa di tutela senza riferimenti statistici: l’ultima rilevazione ufficiale è vecchia di mezzo secolo e lascia spazio a presunzioni prive di reale fondamento scientifico nell’ambito di una consapevole disinformazione programmata

L’undicesimo censimento generale della popolazione italiana, effettuato a cura dell’Istat alla data del 24 ottobre 1971, è l’ultimo dal quale sia stato possibile evincere la consistenza della minoranza slovena in provincia di Trieste e nei suoi Comuni. Come emerge dal volume a suo tempo pubblicato dall’Istituto Nazionale di Statistica[1] quella rilevazione permise di accertare che in tutta la provincia risiedevano poco più di 300.000 persone, che appartenevano al gruppo linguistico sloveno nella misura di 24.706 unità, con un’incidenza dell’8,2% e meno di sei punti nel solo capoluogo, per non dire dei quattro punti nel più ampio ambito regionale (comprensivo delle presenze nelle alte valli del Natisone oltre a quelle di maggiore importanza stanziate sull’Altipiano Carsico).

Dopo quella data, l’Istat ha provveduto a effettuare gli ulteriori censimenti decennali fino a quello del 2011, da cui la rilevazione del gruppo di appartenenza è stata cassata. Ne consegue che la minoranza slovena usufruisce di interventi finalizzati alla sua tutela senza che il legislatore italiano abbia potuto avere informazioni probanti circa la sua quantificazione: cosa che Italo Gabrielli, anche nella storica qualità di Presidente dell’Unione Istriana e del Gruppo «Memorandum 88», si compiacque di denunziare più volte[2] alla luce di precisi riferimenti normativi, compresi quelli a carattere internazionale.

In effetti, è quanto meno opinabile che uno Stato sovrano predisponga un sistema di tutela delle minoranze, nella fattispecie specifica molto apprezzabile, senza verificare l’esistenza e soprattutto la consistenza delle medesime minoranze in misura da giustificare la tutela in parola e da definirne dimensioni e impatto, tanto più che la questione ha costituito un nervo scoperto nella storia locale (e non solo) difficile da esorcizzare anche in tempi di ordinaria amministrazione, e a più forte motivo, in quelli di ricorrenti contrapposizioni.

Ciò, a prescindere dalla determinazione della quota necessaria ad avallare provvedimenti come quelli a favore del gruppo linguistico sloveno, che – allora come ora – è stato oggetto di protezioni certamente superiori a quanto statuito nella Convenzione quadro sottoscritta dall’Italia il 4 febbraio 1995. A questo proposito è da porre in evidenza come nell’articolo 5 dello Statuto speciale messo a punto nelle apposite intese (Londra 1954) fosse già stato previsto che la tutela delle minoranze (italiana in Jugoslavia e slovena in Italia) costituisse un diritto riconosciuto a fronte di una presenza «rilevante» dei gruppi interessati, definita subito dopo in «almeno un quarto» (cosa oggettivamente vaga e comunque tale da rendere altrettanto indefinibili, stante la loro imprecisa quantificazione, i legittimi interessi del gruppo italiano ancor prima di quello sloveno).

Tale indicazione ha costituito un riferimento inattuale sin dall’inizio, e oggi largamente superato (in specie per la minoranza italiana ridotta a meno di 20.000 unità nella somma delle presenze in Slovenia e Croazia, e quindi lontanissima dalla presunzione del quarto) alla luce di interpretazioni forzatamente estensive che peraltro nulla tolgono all’opportunità, o meglio alla necessità politica, prima ancora che giuridica, di un adeguato supporto statistico. Tale strumento, assente da mezzo secolo per chiare motivazioni strumentali, sarebbe tanto più auspicabile in un contesto come quello giuliano in cui, diversamente dalla minoranza di espressione italiana rimasta in Istria, gli Sloveni di Trieste e provincia «non hanno subito foibe e altre violenze ma hanno ottenuto leggi e misure amministrativamente crescenti e a volte sovradimensionate»[3], tanto che la loro minoranza è stata definita «la più protetta del mondo».

Anni or sono, un noto esponente della cultura slovena appartenente al gruppo stanziato in Italia, Samo Pahor, giunse al punto di chiedere che l’uso della sua lingua madre venisse consentito anche «nella Camera dei Deputati e nel Senato della Repubblica»[4]: cosa che, in mancanza delle successive rilevazioni quantitative, avrebbe potuto consentire, in prospettiva, l’estensione di tale «beneficio» ad Albanesi, Catalani, Ladini e via dicendo, le cui comunità linguistiche presenti sul territorio nazionale non sono di troppo inferiori a quella slovena della Venezia Giulia; senza dire degli aggregati certamente maggiori di espressione tedesca o francese, dislocati rispettivamente in Alto Adige e nella Valle d’Aosta.

Caso mai, bisogna dire che quelle comunità, salvo talune eccezioni pervicaci ma oramai sostanzialmente minoritarie, si sono integrate nel contesto nazionale italiano con diverse aperture e disponibilità al confronto, mentre quella slovena non manca di sollevare polemiche strumentali ricorrenti e generalmente immotivate, come è accaduto nella recente «lettera aperta» che l’ex Senatore Stojan Spetic[5] ha indirizzato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (dicembre 2019) riproponendo – non senza qualche sorpresa e qualche conclusione irrituale come l’invito a «riflettere» rivolto al Capo dello Stato Italiano – l’ormai logora teoria secondo cui le foibe sarebbero una risposta alle violenze del periodo bellico e a quelle di epoche precedenti.

Tra l’altro, nel documento in parola Spetic ha affermato, in aderenza alle vulgate, che nel 1941 «l’Italia fascista aveva aggredito la Jugoslavia» senza far menzione del colpo di Stato con cui Belgrado aveva cambiato improvvisamente campo; ha proseguito sostenendo che «il 10 febbraio dovrebbe essere una festa per ricordare la firma del trattato di pace» fra l’Italia e i «21 Paesi della vittoriosa alleanza antifascista»; e ha concluso dichiarando che il trattato di Osimo del 1975 diede luogo a «prospettive di sviluppo inattese, che il rivangare dei sentimenti di revanscismo e di odio possono inficiare» (sic!). Affermazioni e presunzioni infondate che si commentano da sole.

Tornando alla questione demografica, a cui la «lettera aperta» di Spetic non è ovviamente estranea, si deve aggiungere che le nuove Repubbliche ex Jugoslave di Croazia e Slovenia hanno continuato a effettuare le proprie rilevazioni senza preclusioni di fondo per l’accertamento del fattore linguistico, sia pure con criteri spesso opinabili e difformi dalla prassi europea; e più generalmente, che non si hanno notizie di Stati modernamente organizzati in cui vigano trattamenti di tutela delle rispettive minoranze senza informazioni statistiche discutibili quanto si voglia, ma certamente più attendibili di quella presente nella sola Italia, che si potrebbe motivatamente definire come una vera e propria «disinformazione programmata».

Non è necessario richiamarsi a un superiore Stato etico di hegeliana memoria per auspicare maggiore aderenza fra realtà effettuale e interventi di tutela: a ben vedere, è sufficiente esigere che le misure a favore delle minoranze vengano gestite con la diligenza del buon padre di famiglia, e soprattutto che non si traducano in discriminazioni penalizzanti a danno di una stragrande maggioranza: nel caso di specie, quella italiana.


Note

1 ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica), XI Censimento generale della popolazione italiana, volume II – Dati per Comune sulle caratteristiche strutturali della popolazione e delle abitazioni – fascicolo 29 (Provincia di Trieste). L’occasione è utile per rammentare che dopo il censimento del 1971 la popolazione provinciale ha fatto registrare forti decrementi, muovendo dalle 300.304 unità del medesimo 1971 per scendere alle 261.825 unità del 1991 e alle 232.601 del 2011, con una perdita consolidata di oltre 22 punti: segno oggettivo di crisi, indipendentemente dalla quota slovena, che a ogni buon conto ha ascritto flessioni più contenute: non a caso, quella del 1981 si tradusse in una diminuzione del 7,2% a Trieste e del 5,5% in tutta la provincia, senza dire che quella del capoluogo ebbe una consistenza proporzionalmente maggiore dopo il trattato di Osimo del 1975.

2 Italo Gabrielli (Gruppo Memorandum 88), Minoranza slovena e mentalità europea, in «Il Piccolo» – Giornale di Trieste, 19 marzo 1999. Patriota esule da Pirano, di antica e nobile fede, Gabrielli è stato tra i massimi oppositori del trattato di Osimo e Presidente dell’Unione degli Istriani nella seconda metà degli anni Settanta. Tra le sue opere maggiori è d’uopo ricordare, quale originale e pertinente sintesi storico-giuridica: Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, Luglio Editore, seconda edizione ampliata, Trieste 2018.

3 Marcello Cherini, La minoranza etnica italiana in Jugoslavia: analisi e prospettive, Università degli Studi, Trieste 1983, pagina 65. Contestualmente, l’Autore ha posto in evidenza, alla luce dei censimenti, il forte «regresso di tutte le nazionalità, confermando un principio di assimilazione contrario alle dichiarazioni delle Carte costituzionali jugoslave» (Ibidem, pagina 60). Nondimeno, questa tendenza ha fatto registrare un importante riflusso dopo lo sfascio della Jugoslavia e l’avvento delle nuove Repubbliche indipendenti, caratterizzate da frequenti ritorni di velleità nazionaliste, mai sopite.

4 Atti della Conferenza Internazionale sulle minoranze (10-14 luglio 1974), Provincia di Trieste 1980, pagina 106, citata in «Il Piccolo» – Giornale di Trieste, 27 ottobre 1998.

5 Stojan Spetic, giornalista e docente nato a Trieste nel 1945, venne eletto Senatore del Partito Comunista Italiano nel 1987, per poi aderire a Rifondazione Comunista. Nel 1998, assieme ad Armando Cossutta e Oliviero Diliberto, fu tra i fondatori del nuovo Partito dei Comunisti Italiani. È tornato recentemente alla ribalta con la lettera aperta scritta al Presidente Mattarella nel febbraio 2019, e riproposta con maggiore enfasi nella seconda versione del successivo dicembre.

(aprile 2020)

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