La nuova statua per Gabriele d’Annunzio a Trieste
Il ruolo del Poeta Soldato nella storia giuliano-dalmata: riflessioni nel centenario dell’Impresa fiumana

Al pari di quanto è possibile constatare in tutte le città italiane grandi e piccole, Trieste annovera tanti monumenti che insistono nel suo territorio urbano, una ventina dei quali sono dedicati alla memoria di uomini e donne che hanno avuto un ruolo importante nella storia, con particolare riguardo a quella locale. Va da sé che alcuni di questi memoriali, generalmente in forma di statue, si distinguono dalla media, alla luce di riferimenti specifici alle vicende della Città di San Giusto, fortemente italiana per lingua e cultura, ma non altrettanto per appartenenza politica, essendo stata inserita nell’Impero Asburgico per parecchi secoli (1382-1918).

Non a caso, quattro statue, ovviamente fra le più datate, appartengono a Imperatori dell’antica Casa d’Austria-Ungheria, eternati nel bronzo o nel marmo a futura memoria: quelle di Massimiliano e di Elisabetta, rispettivamente fratello e consorte di Francesco Giuseppe, sono fra le più popolari, se non altro per il tragico destino a cui costoro furono destinati, mentre le altre due, dedicate a Leopoldo I e Carlo VI, pur appartenendo all’arredo urbano del centro storico, hanno perduto buona parte dei riferimenti nella coscienza cittadina sebbene si sia trattato di Sovrani importanti nello sviluppo di Trieste, con particolare riguardo a Carlo VI, che le concesse il privilegio di porto franco (assieme a quello per Fiume).

Altre statue triestine molto note sono quelle per gli Eroi dell’irredentismo, quali Guglielmo Oberdan e Nazario Sauro, e per i Caduti a causa delle persecuzioni titoiste come Norma Cossetto e i figli di Giuseppe Micheletti cui è dedicata la stele di Piazzale Rosmini, per non dire di altri Eroi nazionali che avevano avuto lunghe frequentazioni con Trieste, come Amedeo di Savoia-Aosta. Non mancano i testimoni di fede, tra cui Santa Eufemia, Martire del primo Evo Cristiano, San Pio da Pietrelcina, e soprattutto, Monsignor Antonio Santin, l’indimenticabile Presule dei tempi bui, colpito a sangue dai partigiani, che aveva invitato sempre a non disperare, anche quando sembrava che «le vie dell’iniquità» potessero prevalere. Tra le altre glorie nazionali e locali, sono da citare le statue per Giuseppe Verdi e Domenico Rossetti.

L’arte plastica delle statue triestine si distingue dalle opzioni massicciamente monumentali prescelte altrove, per la presenza di talune suggestive alternative a misura d’uomo, visibili nei ricordi dedicati sul Faro della Vittoria al Marinaio d’Italia; e soprattutto, in quelli sulle Rive a onore dei Bersaglieri liberatori giunti a bordo del cacciatorpediniere Audace il 3 novembre 1918, e delle «Ragazze di Trieste» che durante la Grande Guerra avevano cucito in segreto le bandiere tricolori da spiegare al vento nel giorno della redenzione. Nella stessa ottica dalle ridotte dimensioni «familiari» si inseriscono le statue «letterarie» erette in vari luoghi cittadini in memoria di scrittori e poeti che ebbero ruoli importanti nella storia culturale di Trieste, come Italo Svevo, James Joyce e Umberto Saba.

Quest’ultima categoria è tornata alla ribalta nello scorcio conclusivo del 2019 quando il Sindaco Roberto Di Piazza si è fatto promotore di analoga statua dedicata a Gabriele d’Annunzio, scoperta in Piazza della Borsa il 12 settembre, in coincidenza col centenario dell’Impresa di Ronchi e della contestuale Marcia su Fiume, che dopo avere dato vita alla Reggenza Italiana del Carnaro si sarebbe conclusa a distanza di sedici mesi con la tragedia del Natale di Sangue e con il celebre Commiato fra le tombe di Cosala (gennaio 1921).

L’iniziativa dannunziana, che si è svolta d’intesa con la Fondazione del Vittoriale, curatrice della suggestiva rassegna iconografica allestita nel Salone degli Incanti, ha suscitato immotivate opposizioni della minoranza, con vivaci echi sulla stampa locale: le motivazioni di tale ostracismo vanno ricercate nella discutibile presunzione secondo cui la statua avrebbe celebrato un personaggio impresentabile, alla luce di un acceso nazionalismo improntato al superomismo e al culto della personalità, senza dire di pretese collusioni fasciste che, come è stato dimostrato da Giordano Bruno Guerri nel suo Disobbedisco – uscito in concomitanza con l’evento espositivo – non ci furono affatto, anche se l’esperienza politica del Comandante venne prontamente e intelligentemente strumentalizzata.

In effetti, la statua di Gabriele d’Annunzio, al pari di quelle degli altri letterati raffigurati a Trieste, non ha alcunché di militare: modesta nelle dimensioni e pensosa nell’atteggiamento, coglie il Vate nell’atto di leggere un libro, a lato di altri volumi, in un aspetto di sottile malinconia ispirata a quella che non lo avrebbe più abbandonato per il resto della vita, dopo la partenza da Fiume.

L’opposizione aveva eccepito, in aggiunta alle predette considerazioni, che il Vate, diversamente da Svevo e Saba, Triestini di nascita e cultura, e dello stesso Joyce, Triestino di adozione, non avrebbe avuto apprezzabili correlazioni con la storia della città, ma anche in questo caso il paralogismo è stato facilmente smascherato: il Comandante, celebre per il volo su Vienna, si era cimentato anche in quello su Trieste del 7 agosto 1915 e nel lancio di volantini che esortavano alla fede, oltre che alla pazienza, simboli di impegno patriottico; e aveva combattuto sul Carso, partecipando all’episodio di «Quota 28» presso le foci del Timavo, in cui perse la vita quel Giovanni Randaccio (28 maggio 1917) che era stato compagno d’armi del Poeta Soldato e che sarebbe diventato protagonista spirituale delle successive battaglie dannunziane, soprattutto a Fiume, mentre le sue Spoglie mortali vennero poi accolte, per volontà del Comandante, in una delle Arche del Vittoriale.

C’è di più. Durante l’Impresa del Carnaro, il ruolo di Trieste quale punto d’appoggio immediato e contiguo fu di notevole importanza strategica, allo scopo di prendere le opportune distanze dalla resipiscenza dei Governi Nazionali che osteggiarono il «pronunciamento» di Fiume: ciò, nel quadro di una vivace sintonia, non estranea – sia pure con vari distinguo – alle prime aggregazioni triestine del cosiddetto «fascismo di frontiera» (non sempre allineato a quello ancora pragmatico e possibilista di Benito Mussolini).

In definitiva, non si può ragionevolmente affermare che Gabriele d’Annunzio non avesse «diritto» a una statua triestina. Dopo essere stato protagonista della Grande Guerra dall’epoca della vigilia, come nei discorsi di Quarto dei Mille e del Campidoglio, e dopo avere sfidato la morte in terra, in cielo e in mare, il suo ruolo nella liberazione di Trieste e della Venezia Giulia dal giogo dell’«Imperatore degli Impiccati» appare davvero fuori discussione. Con quella statua, Trieste si è arricchita di un monumento importante, tanto più significativo alla luce dello spessore artistico e letterario del Vate, e delle riflessioni che risulta in grado di promuovere.

Vittorio Alfieri, come si ricorda nel celebre carme di Ugo Foscolo, amava ispirarsi davanti alle «urne dei forti» nella basilica fiorentina di Santa Croce. Per Gabriele d’Annunzio accadde qualcosa di analogo nella stagione irripetibile di Fiume, quando si compiaceva di «trarre gli auspici» dalle gesta di chi si era immolato per la «più grande Italia» e di insistere nel suggestivo rituale del dialogo con la folla, dello spiegamento dei vessilli e dei gesti simbolici, non privo di coinvolgenti afflati religiosi, come sarebbe accaduto a Fiume in occasione della festa patronale di San Vito (15 giugno) quando il Cappellano militare Don Reginaldo Giuliani, veterano della Grande Guerra, benedisse il pugnale votivo in oro offerto dalle donne fiumane, in una cerimonia a suo modo anticipatrice della futura donazione di fedi alla Patria, quale risposta alle sanzioni imposte all’Italia.

Oggi, il semplice accenno a questi valori costituisce, nella migliore delle ipotesi, motivo di stupore e di incomprensioni; nella peggiore, di negazionismi assoluti, motivati dal rifiuto incondizionato dell’imperativo categorico fatto proprio dagli Avi: quello di essere fedeli al dovere e di onorare, nella Patria, la «madre benigna e pia che copre l’uno e l’altro mio parente» cara alla simbologia non soltanto spirituale di Francesco Petrarca.

Ciò significa che è sempre tempo di riflettere e di approfondire, se del caso anche per mezzo di una statua, che d’altro canto, come avrebbe scritto lo stesso Gabriele d’Annunzio in una lirica per le Alpi Apuane in onore del marmo e dei suoi valori non soltanto estetici, assume la dignità e il ruolo di «sostanza delle forme eterne» e in quanto tale, di rappresentazione dell’umanità, sia nei momenti di benemerenza e di gloria, sia in quelli di «insania e dolore». A ben vedere, si tratta della traduzione pratica della filosofia idealistica secondo cui l’arte deve esprimere la bellezza, ma prima ancora il pensiero dell’uomo creato «a immagine e somiglianza di Dio».

Il Comandante di Fiume fu personaggio affascinante e complesso, nonché precursore di tante istanze del costituzionalismo contemporaneo, come avrebbe dimostrato con la Carta del Carnaro (8 agosto 1920) che doveva essere il documento fondamentale della Reggenza, ispirato a principi di eguaglianza, di accoglienza, di cooperazione e di progresso civile, compreso quello nella cultura e nelle arti; e non senza un palese affievolimento del diritto di proprietà, laddove si affermava che i titolari di rendite parassitarie e «infingardi» nei confronti dell’investimento produttivo avrebbero dovuto essere espropriati per ragioni di pubblico interesse.

La Carta, scritta assieme al sindacalista «rivoluzionario» Alceste De Ambris, prevedeva anche l’istituto del Comandante, munito di pieni poteri, da nominare nei casi di emergenza sulla falsariga di quanto era accaduto per la figura del dittatore a termine durante l’antica Repubblica Romana; ma in regime ordinario affidava le sorti dello Stato a un sistema democratico basato sulla separazione dei poteri e sul suffragio universale, ivi compreso quello femminile, che in Italia avrebbe visto la luce soltanto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.

Da questo punto di vista, non è azzardato affermare che la «piccola» statua di Gabriele d’Annunzio in abiti borghesi eretta in Piazza della Borsa – con buona pace delle minoranze comunali – esprime un atto dovuto, non meno significativo di quelli con cui erano stati onorati i Martiri dell’Irredentismo, e quelli delle Foibe. Ciò, senza dire della miriade di memorie nominative e collettive che insistono, sempre a Trieste, nella Zona Sacra di San Giusto, perpetuando la nobile tradizione dei Parchi della Rimembranza, altrove quasi scomparsi, sebbene sempre idonei a promuovere nei cittadini e nei visitatori una meditazione non effimera in tema di «egregie cose» e di condivisi valori patriottici e nazionali, proposti quale impegno etico.

In realtà, tutti quei monumenti, a prescindere dalla dimensione generalmente ridotta, non hanno il solo scopo di ricordare, peraltro meritorio, ma prima ancora quello di indurre valutazioni mature sulla storia e sulle ragioni che indussero un immenso sacrificio collettivo nel segno di valori condivisi, come quelli degli Esuli Giuliani e Dalmati che scelsero la diaspora non solo per il terrore della foiba e delle persecuzioni etniche, ma nello stesso tempo per il rifiuto della collettivizzazione forzosa e dell’ateismo di Stato.

«Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna». Il felice ammonimento del Poeta, tanto più coinvolgente in quanto sottintende l’esistenza di un’altra Vita oltre la morte, può essere ragionevolmente esteso anche alle statue; e quella di Gabriele d’Annunzio a Trieste non fa eccezione.

(dicembre 2019)

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