Palmiro Togliatti e la questione giuliana
Dalla stretta osservanza moscovita alle raccomandazioni per la cessione di Venezia Giulia e Dalmazia alla Jugoslavia

Segretario del Partito Comunista Italiano dagli anni Venti fino alla morte, avvenuta nel 1964 all’età di 71 anni (era nato a Genova nel 1893), Palmiro Togliatti fu personaggio di notevole cultura classica ma di forte e pervicace esperienza marxista, maturata in Italia durante il primo fascismo, e poi soprattutto nell’Unione Sovietica, dove si trasferì nel 1926 per rientrare soltanto nel 1944 dopo la «svolta di Salerno», con un avventuroso viaggio attraverso Teheran, Il Cairo e Algeri. Nel frattempo, aveva avuto modo di partecipare anche alla Guerra Civile Spagnola, che nella seconda metà degli anni Trenta lo vide combattere, naturalmente, nelle file repubblicane (ma sarebbe più pertinente dire: in quelle rosse).

Il suo pragmatismo si era già manifestato durante il Regno del Sud quando preferì abbandonare le pregiudiziali repubblicane care ad altre forze politiche, a cominciare dagli azionisti di Ferruccio Parri, rinviando la soluzione del problema istituzionale a conflitto concluso: il referendum, com’è noto, si sarebbe tenuto il 2 giugno 1946 assieme alle elezioni dell’Assemblea Costituente[1]. Poi, trovò conferma nella grande amnistia varata dal «migliore» – secondo la definizione che venne coniata per lui da amici e avversari – quando fu Ministro di Grazia e Giustizia: ne fruirono molti fascisti, ma soprattutto i comunisti. Parve un atto di clemenza nei confronti dei vinti, ma non era tale: in realtà, valse a evitare la possibilità di chiamare in giudizio i partigiani che avevano commesso tanti delitti efferati, anche dopo la fine della guerra (Giorgio Pisanò ha calcolato in non meno di 45.000 i Caduti di quella stagione plumbea) passando un comodo e generoso «colpo di spugna» sugli eventi degli anni Quaranta.

Questo carattere pragmatico della prassi togliattiana in cui si possono riconoscere spunti hegeliani assieme a reminiscenze della «Realpolitik» è verificabile, in particolare, nell’atteggiamento circa il problema giuliano e dalmata, impermeabile a ogni suggestione e legittimo interesse nazionale, seppure naturalmente ondivago in funzione del complesso rapporto fra Belgrado e Mosca (il Maresciallo Tito fu di stretta osservanza cominformista fino al 1948, anno della «scomunica» da parte del Cremlino, e poi notevolmente critico – ma non eretico – fino al 1956, quando Tito rientrò sostanzialmente nei ranghi).

Togliatti non mancò di dichiararsi pienamente favorevole all’annessione di Istria e Dalmazia alla Jugoslavia, e in un primo momento, anche all’ipotesi di cedere Trieste, in contrasto con lo stesso Segretario Comunista del capoluogo giuliano, Vittorio Vidali. In particolare, il 7 novembre 1946 Togliatti si recò a Belgrado dove le profferte di grande amicizia per Tito e di comune allineamento alle posizioni di Mosca furono totali e sostanzialmente acritiche; ma come scrisse Italo de Feo, che in quel periodo fu molto vicino al «migliore», al cospetto dell’astuto Maresciallo finì per «scadere al ruolo di giornalista».

Vale la pena di rammentare che, proprio quel 7 novembre, l’Ambasciatore Alberto Tarchiani chiese a nome del Governo Italiano che «la questione dell’Istria venisse decisa da un plebiscito»: un’ipotesi ragionevole cui non fu dato seguito anche a causa delle perplessità espresse nel comportamento di Alcide De Gasperi, preoccupato per le sorti del Trentino e dell’Alto Adige. Togliatti, al contrario, non avrebbe sollevato obiezioni qualora l’ipotesi del plebiscito fosse stata accolta, «convinto» che, oltre all’Istria, persino Gorizia fosse una «città prevalentemente slava» (probabilmente confidava nella forza coercitiva del suo partito e nella mera supposizione popolare, peraltro ancora pervicace, che la Jugoslavia titoista fosse davvero un Paradiso Terrestre). In effetti, il suo rapporto con De Gasperi fu sempre difficile, fino ad affermare che le notizie governative sulle foibe fossero «menzogne»; e fino a imputare «il mancato rientro dei prigionieri italiani dalla Jugoslavia» proprio a responsabilità dello statista trentino. Era un’insolenza, perché molti di costoro non sarebbero mai rimpatriati per una ragione molto semplice: avevano perso la vita nelle voragini carsiche o nei campi di prigionia o, per meglio dire, di sterminio.

La posizione rinunciataria di Togliatti era già stata espressa a chiare note in un articolo del 1945 pubblicato da «Rinascita», organo di stretta osservanza politica, dove il Segretario Comunista aveva ribadito la tesi dell’aggressione italiana, senza ricordare che nella fattispecie la causa scatenante era stato il colpo di Stato del 1941 con cui Belgrado aveva abbandonato l’Asse per gli Alleati; e aveva insistito sulle grandi prove di «patriottismo, eroismo e spirito democratico» che avrebbero caratterizzato il comportamento della Jugoslavia, assicurandole «la simpatia e l’appoggio di tutti i popoli civili». Era un’altra tesi quanto meno ardita, ma coincideva con la visita di Milovan Gilas e di Edvard Kardelj, già allora tra i massimi collaboratori di Tito, che non mancarono di insistere presso la dirigenza di Botteghe Oscure perché il Partito Comunista Italiano dichiarasse di rinunciare alla Venezia Giulia: e Togliatti, come ebbe a testimoniare lo stesso de Feo, «non seppe o non volle resistere». Anzi, quando espresse pubblicamente la famosa esortazione ai Triestini affinché accogliessero come «liberatori» i partigiani jugoslavi e collaborassero totalmente con loro, non fece che allinearsi a chi sosteneva essere meglio che la città di San Giusto venisse occupata «dai titini che erano comunisti» anziché dagli Anglo-Americani che erano «capitalisti». Era un appiattimento davvero amorale sulle posizioni che sarebbero state confermate «apertis verbis» dagli stessi Gilas e Kardelj quando dichiararono che la pulizia etnica (precedente a quella politica) era stata oggetto di precise direttive titoiste, «e che così fu fatto».

Dopo la lunga parentesi «critica» dovuta all’atteggiamento autonomista assunto da Tito nei confronti di Mosca, Togliatti sarebbe ritornato a Belgrado il 28 maggio 1956 per partecipare alla «riabilitazione» del Maresciallo da parte del sistema comunista. Corollario spregiudicato di questa ritrovata intesa sarebbe stato, di lì a poco, il comune avallo dato da Tito e Togliatti alla repressione della Rivoluzione Ungherese e alla conseguente condanna a morte dei suoi massimi esponenti, Imre Nagy e Pàl Maleter, che vennero consegnati al Governo di Janos Kadar, di stretta osservanza comunista, con una decisione chiaramente opinabile sia sul piano etico che su quello giuridico, perché avevano cercato scampo nell’Ambasciata Jugoslava di Budapest, con un errore di presunzione circa l’atteggiamento di Tito, rivelatosi davvero macroscopico: a Belgrado, «ethos» e diritto vennero calpestati ancora una volta.

Nelle opzioni di Togliatti circa la vicenda istriana e dalmata non vi furono altre apprezzabili interferenze di natura internazionale, all’infuori della stretta osservanza del Partito Comunista Italiano nei confronti del verbo moscovita, cui furono subordinate le relazioni con Tito. Non deve quindi sorprendere che alla fine della guerra Togliatti avesse esortato gli Italiani di Trieste e della regione Giulia ad accogliere i partigiani slavi in maniera ottimale e a schierarsi con loro nonostante tutte le efferatezze di cui si erano macchiati e continuavano a macchiarsi (non senza la collaborazione dei loro corifei italiani); e che, in vista del trattato di pace (1947), avesse condiviso la soluzione maggiormente punitiva per l’Italia, propugnata alla Conferenza di Parigi dal Ministro degli Esteri Sovietico Vjaceslav Molotov a tutto favore di Tito, nell’intento di portare il confine addirittura sull’Isonzo (poi avrebbe prevalso la soluzione francese, meno iugulatoria ma molto penalizzante per l’Italia rispetto a quelle anglo-americane).

Fu sicuramente un limite di Togliatti non avere compreso che molti comunisti, anche se impegnati militarmente, non erano favorevoli alla perdita della sovranità italiana su Trieste e Istria, tanto che alcuni di essi, come nei casi particolarmente significativi di Pino Budicin e Lelio Zustovich, vennero uccisi dai partigiani per essersi opposti all’annessione della loro terra da parte jugoslava: destino tristemente analogo a quello che aveva visto la celebre strage di Malga Porzus[2] perpetrata dai «rossi» di stretta osservanza cominformista a danno dei «bianchi».

Nell’ultima fase, conclusa con il testamento politico di Jalta, la cittadina ucraina dove Togliatti sarebbe scomparso a causa di un’emorragia cerebrale (e probabilmente dell’impossibilità di trovare sul posto un farmaco salvavita) che paradossalmente ne fece una nuova vittima del sistema sovietico[3], il Segretario del Partito Comunista Italiano, al di là di alcuni contrasti di ordine formale avuti con Nikita Kruscev, mise in guardia il suo partito richiamandone l’attenzione sugli «errori» che erano stati commessi nell’Unione Sovietica e diede nuove autorevoli credenziali alla teoria del «socialismo nazionale»: per l’appunto, la stessa a suo tempo propugnata da Tito! Fu un avvertimento significativo, sebbene emerso «in extremis» e privo di qualsiasi riconsiderazione circa le vecchie scelte sulla Venezia Giulia e sull’Istria; ma soprattutto, non certo idoneo a impedire la prosecuzione di quella «marcia verso il nulla» che, secondo la pertinente definizione di Jean F. Revel, avrebbe portato il comunismo alla disfatta dell’Ottantanove.


Note

1 La consultazione referendaria si concluse con la vittoria della forma repubblicana, e un vantaggio nell’ordine di due milioni di voti. Non mancarono resipiscenze di parte monarchica, alla luce di presunti brogli elettorali che peraltro non vennero mai dimostrati, ma prima ancora, perché molti Italiani – come i prigionieri di guerra ancora detenuti e i Giuliani – non avevano potuto esprimere il proprio voto; nondimeno, il «Re di maggio» Umberto II di Savoia decise di partire subito per l’esilio in Portogallo senza raccogliere le ipotesi revansciste di alcuni esponenti monarchici. Resta il fatto che anche in quell’occasione, di fondamentale importanza nella storia italiana, il Paese si trovò spaccato, avendo espresso una maggioranza repubblicana spesso consistente nelle Regioni del Centro-Nord, mentre quelle meridionali votarono per la monarchia.

2 L’eccidio di Porzus (febbraio 1945) è passato alla storia come un episodio particolarmente significativo della guerra civile in Italia, in cui persero la vita 16 partigiani «bianchi» delle «Brigate Osoppo» e una loro ex prigioniera: ciò, a opera di una formazione gappista, di stretta fedeltà al Partito Comunista Italiano e alla sua opzione favorevole al trasferimento di Venezia Giulia e Dalmazia sotto la sovranità della Jugoslavia, già auspicato da Togliatti. Tra le vittime più note, cadde il fratello di Pier Paolo Pasolini.

1 Il leader comunista italiano scomparve nelle prime ore pomeridiane del 21 agosto 1964: due ore dopo, a testimonianza della considerazione che gli era riservata nelle più alte sfere sovietiche, il feretro venne visitato dallo stesso Nikita Kruscev, giunto in volo da Mosca. Successivamente venne trasportato a Roma, dove – dopo l’omaggio popolare alla camera ardente allestita nella sede del Partito Comunista Italiano in Via delle Botteghe Oscure – fu sepolto nel cimitero del Testaccio accanto alla tomba di Antonio Gramsci.

(settembre 2018; ripubblicato: maggio 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, Palmiro Togliatti, Partito Comunista Italiano, Ferruccio Parri, Giorgio Pisanò, Josip Broz detto Tito, Vittorio Vidali, Italo de Feo, Alberto Tarchiani, Alcide De Gasperi, Milovan Gilas, questione giuliana, Edvard Kardelj, Imre Nagy, Pal Maleter, Janos Kadar, Vjaceslav Molotov, Pino Budicin, Lelio Zustovich, Nikita Kruscev, Jean Fr. Revel, Umberto II di Savoia, Antonio Gramsci, Brigate Osoppo, Pier Paolo Pasolini, Palmiro Togliatti e la questione giuliana, svolta di Salerno, cessione di Venezia Giulia e Dalmazia alla Jugoslavia, eccidio di Porzus.