Rapporto Pasquinelli
Una pagina drammatica dell’ultima Pola italiana

A Maria Pasquinelli la storiografia dell’esodo istriano, giuliano e dalmata, e non solo quella, ha dedicato parecchi contributi perché si tratta di una protagonista spesso discussa, ma soprattutto assai commovente, e in grado di parlare alla mente e all’anima di tanti Italiani. Il 10 febbraio 1947, quando la giovane patriota fiorentina (all’epoca trentaquattrenne) decise, come da celebre espressione machiavelliana, di «spegnere» la vita del Governatore Militare Britannico della piazzaforte di Pola, Generale Robert De Winton, in segno di estrema protesta contro le statuizioni degli Alleati formalizzate nel «diktat» che l’Italia doveva controfirmare quello stesso giorno, Maria sapeva di compiere un gesto che avrebbe sacrificato la sua vita, al pari di quanto era accaduto a Guglielmo Oberdan poco più di 60 anni prima, in altre circostanze e con diverse motivazioni.

Non accadde così perché la condanna a morte pronunciata dalla Corte Inglese di Trieste in breve volgere di tempo venne successivamente commutata in quella dell’ergastolo grazie a un «motu proprio» della Regina Elisabetta d’Inghilterra, cui avrebbe fatto seguito la grazia 17 anni più tardi, seguita da un lungo silenzio. A concedere la grazia fu il Presidente Vicario Cesare Merzagora (momentaneo sostituto di Antonio Segni) in quanto la gestione della pena era stata affidata all’Italia che tuttavia venne a trovarsi nelle condizioni di dover chiedere il «nihil obstat» britannico durante la procedura di competenza, con un ulteriore affievolimento della propria sovranità.

Quello di Maria resta un esempio emozionante: in fondo la Pasquinelli fu l’unica Italiana a imbracciare un’arma per esprimere il dissenso nei confronti del trattato di pace ben oltre il raccoglimento che, a mezzogiorno di quel lugubre 10 febbraio, vide chiudersi tutto il Paese in uno spirito unitario tanto sorprendente quanto effimero. Indirettamente, il suo gesto avrebbe trovato un’eco, qualche mese più tardi, nelle nobili parole pronunciate da Benedetto Croce e da Vittorio Emanuele Orlando all’Assemblea Costituente, durante il dibattito parlamentare per la ratifica del trattato, approvata non senza una sessantina di voti contrari, ma altamente significativi sul piano etico-politico. Non meno importante fu la palese solidarietà espressa dalle donne triestine all’apertura del processo quando affermarono «coram populo» che nel «pantano» dell’Italia ufficiale era sbocciato un fiore col nome di Maria Pasquinelli.

La sua azione disperatamente isolata (le illazioni sull’esistenza di qualche complice caddero subito durante l’istruttoria antecedente il giudizio penale) è stata di tale impatto nella coscienza degli Italiani, e «in primis» degli esuli giuliani e dalmati, da far passare ingiustamente in secondo piano quanto aveva già fatto nel suo pervicace entusiasmo in difesa della Patria, dapprima in Africa, poi a Spalato dove si distinse nell’esumazione di tante Vittime italiane della «prima ondata» di esecuzioni sommarie immediatamente successiva all’8 settembre; e infine a Pola, dove prestò la propria opera nel Comitato per l’Assistenza ai Profughi durante i concitati mesi antecedenti l’esodo (alcuni profughi ne hanno lungamente testimoniato le doti di cortesia e di costante disponibilità).

Dell’opera compiuta da Maria Pasquinelli per quanto concerne l’attività svolta tra settembre 1943 e ottobre 1944, è rimasto il cosiddetto Rapporto in cui vennero elencati a futura memoria i nomi dei primi esuli mentre più tardi l’accavallarsi di avvenimenti sempre più drammatici avrebbe travolto ogni adempimento formale dando luogo a iniziative di sostanziale emergenza: tra di esse, all’inizio del 1945, l’impegno di Maria per un improbabile fronte comune di Regno del Sud e Repubblica Sociale Italiana in funzione antislava, che le valse l’arresto da parte tedesca e una fortunosa salvezza dovuta all’intervento personale del Comandante Junio Valerio Borghese.

Il Rapporto è un documento parziale ma ugualmente significativo che riguarda 325 nominativi dai quali emerge, sebbene si tratti di un primo contingente minoritario, una significativa realtà interclassista: nella misura di due quinti si trattava di professionisti, impiegati e commercianti; per altri due quinti, di operai, artigiani e contadini; e per il residuo quinto di militari, studenti e persone in condizioni non lavorative.

Interrotta, sebbene in parte, la prima ondata di persecuzioni che aveva fatto seguito all’8 settembre, e che si era conclusa con la rapida riconquista dei maggiori centri di Istria e Dalmazia da parte dell’Asse italo-tedesca, furono piuttosto pochi coloro che optarono subito per l’esodo: pur essendo evidente che le sorti della guerra erano segnate, si nutriva qualche superstite illusione di salvare il salvabile confidando erroneamente nel buon senso degli Alleati Occidentali e nella conservazione della sovranità italiana, almeno a Pola e nelle altre città costiere dell’Istria.

La storia si sarebbe orientata assai diversamente ma proprio a Pola, che dal giugno 1945 era diventata una «enclave» ad amministrazione anglo-americana in territorio occupato dall’Armata Popolare Jugoslava, le speranze sarebbero riprese per cadere definitivamente un anno più tardi, quando – ai primi di luglio – si diffusero notizie ufficiose sugli orientamenti della Conferenza di Pace in corso a Parigi, e soprattutto col 18 agosto, quando la terribile strage di Vergarolla perpetrata a iniziativa dell’OZNA, la polizia politica di Tito, convinse anche i più indecisi, alla luce delle sue 110 Vittime innocenti, tutte italiane (in maggioranza donne e bambini).

L’ultimo quadrimestre del 1946, come si diceva, vide Maria Pasquinelli indefessa protagonista nell’organizzazione dell’esodo polese che si sarebbe materialmente concentrato tra gennaio e marzo dell’anno successivo con i viaggi tristemente noti del piroscafo Toscana per Venezia e Ancona, uno dei quali, come ha raccontato Lino Vivoda (poi Sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio) non si risolse in una strage ancora più agghiacciante, visto che analogo attentato alla nave, e con essa, alla vita di 2.000 profughi, venne sventato soltanto «in extremis».

È verosimile che la tragica decisione di Maria, di cui il Generale De Winton fu vittima simbolica, sia venuta a maturazione proprio in quei mesi, di fronte allo spettacolo di dolore e disperazione di una città da cui sarebbe partito il 92% degli abitanti, abbandonando forzatamente quanto aveva di più caro, a cominciare dalle tombe avite. Non c’era più tempo per il Rapporto ma urgeva risolvere problemi più impellenti, a cominciare da quelli delle casse e dei chiodi destinati agli imballaggi, dello scaglionamento delle partenze, e laddove possibile, delle destinazioni in Italia. Il 10 febbraio ogni residua illusione era venuta meno, ormai da tempo. Sette mesi dopo, partiti gli ultimi «indispensabili», non furono gli Italiani, bensì gli Alleati – in persona dell’ineffabile Colonnello Alfred Bowman – a consegnare le chiavi di una città spettrale a Ivan Motika, il «ras» titoista che parecchi anni più tardi sarebbe salito agli onori delle cronache in occasione del cosiddetto processo agli infoibatori concluso con una surreale dichiarazione di non luogo a procedere. Era la mezzanotte del 15 settembre, ora dell’effettivo trasferimento di sovranità.

Maria Pasquinelli, una volta conosciute le vessatorie e inique condizioni di pace, non attese oltre: senz’altro bagaglio all’infuori del suo testamento spirituale e della sua rivoltella, il 10 febbraio mosse incontro alle «magnifiche sorti e progressive».

Maria è scomparsa nel luglio 2013 quando aveva appena compiuto un secolo di vita ma non è scomparso il ricordo del suo generoso patriottismo che vive sempre nel cuore degli Italiani non immemori, mentre il Generale De Winton riposa, assieme a oltre 400 Caduti britannici, nel Cimitero Militare di Adegliacco (Udine) dove il suo sepolcro si differenzia dagli altri, tutti uguali, perché ai piedi del monumento funerario insiste una piccola croce di marmo bianco fatta installare da Maria durante un lungo percorso di espiazione e di fede.

(giugno 2020)

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