Rocca di San Leo
Una storia complessa, che parte da lontano... da molto lontano

La rupe di San Leo in Val Marecchia, nell’omonimo comune della provincia di Rimini, è formata da un enorme masso erratico in arenarie, costituite essenzialmente da resti di gusci di organismi marini frantumati (molluschi, echinodermi, alghe calcaree, foraminiferi, briozoi, eccetera). È alta 637 metri e alla base il perimetro è di tre chilometri. Il masso è definito erratico, perché si trova in un luogo diverso da quello di formazione, spostato da agenti tellurici che l’hanno spinto dal Tirreno verso l’Adriatico nel Miocene, insieme con diversi altri massi, dispersi nella valle, molto più ridotti in dimensione. Le sue pendici sono scoscese, pressoché verticali sul territorio sottostante, tanto da poter affermare che la sua conformazione nel passato costituisse per se stessa una sicurezza nei confronti di attacchi nemici, senza che l’uomo dovesse modificarne la struttura. Insomma, il masso si eleva quasi inespugnabile sulla campagna circostante. La sua altezza e le pareti a strapiombo ispirarono Dante Alighieri nell’immaginare il monte del Purgatorio per la sua Divina Commedia. Quel masso ha la parte sommitale estesa e pianeggiante, luogo ideale per la costruzione di un fortilizio; i primi a intuirlo furono i Romani che costruirono sullo sperone una fortificazione.

Nella storia di San Leo s’incontra un episodio molto importante e di buon auspicio. La storia riporta che il giorno 8 maggio del 1213, San Francesco d’Assisi, nei suoi lunghi spostamenti, giunse quasi per caso a San Leo, quando era in atto l’investitura a cavaliere del Conte di Montefeltro Montefeltrano II. Alla cerimonia era presente il Conte Orlando Cattani, Signore di Chiusi nel Cosentino. Alla presenza di tante persone, il Santo, sotto un albero di olmo, tenne una predica accesa e appassionata prendendo a riferimento il motto cavalleresco: «Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto». Si trattò di un sermone che influì favorevolmente sulla Cristianità a livello universale, rendendo reale il detto francescano «dal tuo seme, una foresta». Il Conte Cattani fu talmente toccato dalle parole di quel giovane Francesco, che gli venne spontanea la decisione di regalargli il solitario Monte della Verna. L’offerta era accompagnata dalle parole: «Io ho in Toscana uno monte divotissimo il quale si chiama monte della Vernia, lo quale è molto solitario e salvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza». Prima di accettare il dono, il Santo si riservò di verificare se il luogo fosse adatto per la preghiera, mandando i confratelli a controllare. La risposta fu che «non v’era luogo più adatto di quello». A quel punto, San Francesco si avviò per raggiungere il monte e giunto ai suoi piedi fu ricevuto da uno stormo di uccelli cinguettanti; questo fatto lo convinse a pensare che fosse «volontà del Signore che noi abitiamo in questo monte solitario, perché tant’allegrezza e festa della nostra venuta dimostrano i nostri fratelli uccellini». Proprio su quel monte, il Santo ebbe la trasfigurazione attraverso le stimmate.

Paese e fortezza di San Leo

Il paese dominato dalla fortezza di San Leo (Italia)

Torre della fortezza di San Leo

Veduta di una torre della fortezza di San Leo dalla strada che dal paese sale alla rocca (Italia)

Ci furono diverse vicissitudini, assedi, assalti, finiti bene o male, finché nel 1441 si costruì la fortezza che porta il nome di Forte o Rocca di San Leo. Il giovane Federico da Montefeltro, conscio che le nuove tecniche militari potessero inficiare le difese del forte, fece eseguire opportune, grandi varianti intese ad approntare una struttura in grado di affrontare le tecniche militari moderne, per quei tempi; l’incarico fu affidato all’ingegnere senese Francesco di Giorgio Martini, il quale sistemò le difese in modo da garantire direzioni di tiro incrociate, munendo di artiglieria le parti laterali della fortezza, sì da realizzare un’efficace controffensiva in caso di attacchi; fra l’altro, predispose distaccamenti militari di difesa e controllo che bloccassero le vie d’accesso. La struttura ebbe un commento realistico da parte di Bembo, che la definì «fortissimo propugnacolo e mirabile arnese di guerra».

Nonostante le sue formidabili opere di difesa, tuttavia, nel 1502 dovette cedere alle orde di Cesare Borgia, appoggiato dal padre, il Papa Alessandro VI, che riuscì a impadronirsene. Con la morte del Papa, però, venne a mancare a Cesare il necessario appoggio militare, per cui appena un anno dopo Guidobaldo da Montefeltro ritornò in possesso di ciò che gli era stato tolto. Non durò molto, giacché nel 1516 le truppe di Firenze, con l’appoggio del Papa Leone X, penetrarono nella città e occuparono la fortezza, sotto il comando di Antonio Ricasoli. Restò sotto il dominio dei Della Rovere fino a 1631, quando San Leo fu devoluta allo Stato Vaticano. Dal 1791 la Rocca divenne un carcere, con i necessari interventi per trasformare gli alloggiamenti dei soldati in celle. Oggi, la Rocca si San Leo è frequentata da tanti visitatori desiderosi di visitare il museo delle armi e ammirare le pitture della pinacoteca, che vi sono stati costituiti.

Corridoio del forte di San Leo

Un corridoio del forte di San Leo (Italia)

Nomi famosi figurano fra gli ospiti del penitenziario: tra questi emersero Cagliostro, vissuto nel XVIII secolo, e il Forlivese Orso Teobaldo Felice Orsini, esistito nella prima metà del secolo XIX.

Il Conte di Cagliostro, al secolo Giuseppe Balsamo di Palermo, nacque il 2 giugno 1743 da una famiglia povera. Ebbe una vita complessa, variegata, errabonda, durante la quale, con sotterfugi, trucchi, inganni, imbrogli, espedienti vari, era riuscito a entrare in molte Corti Europee, facendo fessi anche personaggi di alto livello, mettendo in pratica le sue attitudini preferite (magia, alchimia, eccetera). Fu un avventuriero che riuscì quasi a oscurare la fama dell’autentico Conte di Cagliostro, un Portoghese, che nulla ebbe in comune con lui. Nella sua movimentata vita, infine, nel 1789 giunse a Roma, dove chiese un’udienza al Papa Pio VI, senza ottenerla. Comunque, fu incarcerato in Castel Sant’Angelo e subì un pesante processo con imputazioni gravissime: attività massonica, magia, bestemmie contro Dio, Gesù, la Madonna, i Santi, lenocinio, falso, truffa, calunnia, pubblicazioni di scritti faziosi e altro ancora e – già che ci siamo – anche eresia. Tutte imputazioni, di cui fu reo confesso e che non potevano che portare alla sentenza di condanna alla pena di morte, comminata dal Sant’Uffizio; tale condanna fu poi commutata nella pena a vita da scontare nella Rocca di San Leo. Il 13 aprile 1791 partì da Roma per giungere alla sua destinazione il 20 dello stesso mese dove fu incarcerato in una cella normale, ma l’11 settembre dello stesso anno fu precipitato nella cella peggiore che esisteva nella Rocca: si trattava del cosiddetto Pozzetto, un bugigattolo di 10 metri quadrati, privo di porta, per cui, per entrarvi, bisognava essere calati attraverso una botola praticata nel soffitto. Unica apertura di ricambio dell’aria era una finestrella, delle dimensioni di una feritoia o poco più, dalla quale gli unici contatti con il mondo esterno erano la vista parziale delle chiese del paese e di un brandello di cielo. In quella buca umida, scura e malsana, arredata solamente con un tavolaccio, visse – o meglio sopravvisse – alternando preghiere, monologhi e fame, scarsamente nutrito due volte al giorno attraverso la botola, da guardiani sicuramente insensibili alle sue reali condizioni. Talora, andava in escandescenze e si guadagnava le loro percosse. Il 23 agosto del 1795 fu trovato in uno stato pietoso, di semiparalisi. Fu portato all’aperto dove, però, tre giorni dopo morì. Fu seppellito ai margini della spianata della Fortezza, senza cassa e con un fazzoletto pietosamente steso sul suo volto.

Quando i Polacchi, alleati dei Francesi, conquistarono la Rocca, liberarono i prigionieri e, nelle loro sistemazioni del luogo, trovarono il cadavere, cui essi diedero una più decorosa sepoltura.

L’enigmatica, proteiforme personalità di Cagliostro e la sua movimentata vita ispirarono la stesura di molti scritti (Dumas, Tolstoj), la composizione di opere musicali (Pizzetti, Strauss) e la realizzazione di diverse pellicole cinematografiche. Del resto, com’era possibile che un personaggio del genere potesse passare ignorato, senza destare la minima curiosità?

Tutt’altra cosa fu Orsini, vissuto nel secolo successivo. Egli fu un anticlericale convinto e un rivoluzionario seguace delle idee mazziniane, oltre che uno scrittore, che passò alla storia per le sue idee d’indipendenza della sua terra, la Romagna, contro il dominio del Papa, ma più di tutto per il suo tentativo, fallito, di assassinare l’Imperatore Francese Napoleone III, purtroppo compiendo una strage che si dimostrò inutile. Per quale motivo era così infuriato contro l’Imperatore Francese? Da sempre, chi è al comando di qualsiasi istituzione si trova a dover combattere con individui avversi alla sua autorità e al suo potere, e quando il conflitto raggiunge l’esasperazione, l’eliminazione sembra essere l’unica soluzione. È ciò che capitò anche nel caso di Felice Orsini. Secondo lui, Napoleone III era la causa del fallimento dei moti rivoluzionari dei patrioti italiani del biennio 1848-1849, per cui non meritava che di essere eliminato. L’Imperatore, conscio dei pericoli in cui poteva imbattersi, aveva la carrozza blindata, cioè al sicuro da attacchi sovversivi esterni. La sera del 14 gennaio 1858, mentre la carrozza transitava davanti all’Opera in Rue Le Peletier a Parigi, ci fu contro la stessa il lancio di tre bombe, con innesco al fulminato di mercurio e ripiene di chiodi e minutaglie metalliche (quegli ordigni passarono alla storia come «Bombe all’Orsini») che, scoppiando, fecero una strage: sul pavimento stradale rimasero 12 persone massacrate (c’è chi dice che i morti furono 8), mentre i feriti furono 156. Napoleone III e la consorte, all’interno della carrozza, rimasero illesi, protetti dalla blindatura della stessa. Orsini e i corresponsabili dell’iniziativa riuscirono a dileguarsi, ma la fuga non durò a lungo e poco più tardi furono arrestati. I complici dell’impresa dinamitarda erano stati Antonio Gomez di Napoli, Carlo di Rudio di Belluno e Giovanni Andrea Pieri di Lucca: in pratica, i tre rappresentavano tutto il suolo italiano.

Il Conte Camillo Benso di Cavour, che non concordava con le tendenze eversive alle quali Orsini voleva che egli partecipasse, giacché non corrispondevano ai suoi intenti, e che, pertanto, aveva ignorato i suoi solleciti per incontrarlo, approfittò dell’attentato per insistere affinché Napoleone III si alleasse con il Piemonte contro la dominazione austriaca.

L’Orsini, catturato a Pesaro, fu accompagnato alla Rocca di San Leo insieme con due Riminesi, Andrea Borzatti ed Enrico Serpieri. Considerata la loro pericolosità, si è detto che giunsero alla fortezza «posti a cavallo e bene incatenati» e scortati addirittura da 24 soldati. Il comandante della fortezza li rinchiuse in una delle celle migliori. Durante la sua prigionia, Orsini tenne un diario, nel quale tra l’altro descrisse l’ambiente in cui era trattenuto; così, lasciò scritto che le celle erano «orribili, anguste, con mura spesse più di un metro, e con finestre su tre decimetri di lato». Del resto, che cosa avrebbe preteso? Si trattava di celle di una cittadella, non di appartamenti di un palazzo di rappresentanza. Orsini dal carcere scrisse una lettera a Napoleone III, di cui la parte più importante è quella di seguito riportata: «Sino a che l’Italia non sarà indipendente, la tranquillità dell’Europa e quella Vostra non saranno che una chimera.» Questa lettera e la difesa dell’avvocato Jules Favre, famoso all’epoca, destarono una grandissima impressione in tutta l’Italia, ma il ricorso fu respinto e Orsini fu condannato a morte.

Portato a Parigi, il 13 marzo dello stesso anno, Felice Orsini fu ghigliottinato in Piazza della Roquette subito dopo il Pieri; si dice che morì da eroe, al grido di «Viva l’Italia! Viva la Francia!» Copie della lettera al Sovrano Francese e delle sue fotografie furono distribuite a Bologna a migliaia.

Tornando al comune di San Leo, forse i suoi abitanti, i Leontini, che da un paio di millenni vivono attorno a quel masso erratico, ritengono che probabilmente una volta o l’altra la Rocca, cioè il loro castello fortificato, slittando sul letto d’argilla su cui poggia e che lo tiene agganciato alla roccia, rompendo gli indugi, finirà nell’Adriatico. Comunque, finora non ci sono state avvisaglie in tal senso e tiene duro: ancora una volta il sole è sorto su un comune tranquillo.

(marzo 2021)

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