Nel segno del Gattopardo
Come prima e come sempre

Qualora si voglia «che tutto rimanga com’è» secondo la classica affermazione del Principe di Salina, il Gattopardo dell’omonimo romanzo del Tomasi di Lampedusa, «bisogna che tutto cambi». Questo tagliente aforisma non esprimeva il pensiero di una nobile ma vecchia aristocrazia logorata dalla legge del tempo come quella dell’Ottocento siciliano: caso mai, esternava un sentimento popolare tuttora diffuso e convalidato dall’esperienza, specialmente in Italia. In effetti, quanto vi accade da tempi ormai lontani ne costituisce una dimostrazione probante.

In campo politico, i Governi della «solidarietà nazionale» o della «non sfiducia» andarono a sostituire quelli del «progresso senza avventure» o delle «convergenze parallele» con esclusione contestuale di innovazioni che non fossero sostanzialmente formali; più tardi, con la stagione di «mani pulite» parve giunto il momento di tornare ad un’antica e mai dimenticata pregiudiziale etica, ma alla resa dei conti il sistema ha finito per avvitarsi in un contesto da avanspettacolo (come in talune esternazioni di Beppe Grillo) se non anche da nichilismo elevato a sistema, con il codicillo finale della «rottamazione».

Sono soltanto esempi di un politichese fine a se stesso, e sostanzialmente conservatore, a prescindere dal colore dei Governi che si sono alternati alla guida del Bel Paese; ma parecchio significativi nell’illustrare la realtà di una retorica strumentale, e sempre «magniloquente».

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Il debito pubblico italiano ha raggiunto un’incidenza sul prodotto interno lordo largamente superiore alla media europea e risulta pari ad oltre il doppio di quanto statuito nel trattato di Maastricht, cosicché ogni cittadino è indebitato in misura tale che, se ognuno dovesse destinare il proprio reddito alla copertura dello sbilancio senza nemmeno provvedere ai bisogni primari, sarebbe costretto ad un impegno di sedici mesi. Al di là del paradosso metaforico, non si può negare che i tempi di Quintino Sella, o quelli della famigerata «quota novanta» rispetto alla sterlina, siano una pallida reminiscenza riservata agli specialisti.

La recessione morale è ancora più grave di quella economica: oggi troppi giovani coltivano soltanto sogni di facile successo nel mondo dei calciatori, dei cantanti o delle «veline» mentre diverse persone più «mature» trovano un impegno a tutto campo nella finanza d’assalto e qualche volta nell’usura. Intanto, l’uso della droga seguita a crescere alimentando quote sempre più ampie di delinquenza organizzata, e non solo di quella proveniente dall’immigrazione clandestina. La «dittatura del consumismo» cui si fanno autorevoli critiche e diffusi riferimenti, induce modelli di comportamento che hanno «gradualmente conquistato l’aspetto intellettuale della vita psichica» con l’apporto decisivo della «seduzione pubblicitaria trasmessa dai mezzi di comunicazione di massa».

Ciò posto, sembra congruo affermare che tutto stia cambiando ma chi consideri la realtà dei fatti e prescinda dalle apparenze dovrà convenire che oltre le etichette esteriori nulla è mutato, e che i conclamati «valori non negoziabili» restano nell’Iperuranio ed in qualche rara coscienza sensibile all’Imperativo categorico di kantiana memoria.

Basti dire che l’Italia ha ripudiato la guerra nella solenne affermazione della sua Carta costituzionale, ma partecipa di buon grado ad operazioni belliche dell’Occidente «civile» come quelle già svolte in Afghanistan, in Iraq, in Libia, nella ex Jugoslavia, e via dicendo, alla ricerca di un’improbabile «esportazione» di democrazia (o presunta tale) e, quel che è peggio, con palese rischio della vita per i suoi figli migliori. Basti aggiungere che gli Istituti di credito, compresi quelli a matrice pubblica, continuano a perseguire strategie avulse dalla logica dello sviluppo a supporto degli investimenti, che sarebbe di loro conclamata competenza, quando non soccombono alla prassi politica dell’unzione agli «amici degli amici». Basti concludere rammentando che i Sindacati, lungi dall’impegnarsi in programmi di occupazione, sono arroccati su posizioni di tutela del privilegio e sostanzialmente inclini proprio alla conservazione, che un acuto osservatore della realtà storica e della psicologia umana come Gaetano Salvemini aveva definito, già da tempi remoti ed insospettabili, come comportamento tipico di chi «si trova benone come sta».

In questo clima da basso Impero, reso effervescente da spettacoli televisivi di bassa lega e da vicende di «gossip» che hanno funzioni analoghe a quelle degli antichi giochi del circo rivolti a tenere buona la plebe, non sorprende che nulla cambi e che discriminazioni e prevaricazioni siano sempre all’ordine del giorno. Per citarne qualcuna, gli infoibatori ex Jugoslavi hanno continuato a percepire la pensione dell’INPS e a farsi beffe di una giustizia italiana mai tanto latitante come quella applicata (si fa per dire) nei loro confronti quando si è dichiarato il non luogo a procedere per una fantomatica incompetenza territoriale; e gli ultimi veterani della Repubblica Sociale Italiana, in spregio agli auspici ricorrenti di conciliazione, continuano a vedersi negare qualsiasi riconoscimento morale, giuridico ed economico da parte di una volontà politica legata tuttora alla tesi «partigiana» secondo cui avrebbero combattuto sul fronte «sbagliato».

L’Italia è fedele al rango di stato a sovranità limitata acquisito 70 anni or sono e pervicacemente mantenuto con dimostrazioni talvolta surreali come quella del 1975, quando la stipula del trattato di Osimo coincise con la rinuncia senza contropartite ad una quota importante di territorio nazionale: la zona «B» del mai costituito Territorio Libero di Trieste. In proposito, è appena il caso di rammentare che, se avesse avuto fondamento giuridico la tesi di quanti sostennero che la cessione aveva avuto già luogo col Memorandum di Londra del 1954 (con particolare riferimento alle forze della Sinistra – ivi compresa quella democristiana che faceva capo al Presidente del Consiglio Aldo Moro) non ci sarebbe stato bisogno di sottoscrivere un patto infausto come quello firmato a Villa Leopardi, in un contesto carbonaro, dal Ministro degli Esteri Mariano Rumor.

Si potrebbe pensare che l’affievolimento della sovranità sia stato un effetto della resa incondizionata pretesa dagli Alleati nel 1943 in modo obiettivamente miope, perché il risultato – come Andreas Hillgruber ha posto in ottima evidenza – avrebbe potuto essere «ottenuto anche senza una simile esasperazione degli obiettivi di guerra»; ma non sfugge a chicchessia come ben diversa sia stata la capacità reattiva a medio e lungo termine degli altri stati che subirono la stessa sorte, quali Germania e Giappone. Del resto, il Generale Eisenhower affermò che l’armistizio, per il modo in cui venne gestito dal Governo Badoglio, fu uno «sporco affare», ed il suo collega Alexander aggiunse che l’Italia lo aveva chiesto non già per avere esaurito la sua capacità bellica ma per affrettarsi a «salire sul carro del vincitore».

Anche Bettino Craxi, il solo premier che pur seppe confrontarsi duramente con gli Stati Uniti in occasione della vicenda di Sigonella, si rese responsabile di scelte opinabili sul piano della «Realpolitik» (a parte il contributo decisivo che il suo Governo diede al disastro economico italiano) quando fece riparare a Belgrado il terrorista Abul Abbas, responsabile del dirottamento della nave da crociera Achille Lauro e della proditoria uccisione di un turista americano per giunta invalido, non senza avere dichiarato «partner di assoluta preferenza» una Jugoslavia già allo sfascio, che nel giro di pochi anni sarebbe crollata come un castello di carte.

Il resto è storia recente, come il «bacio della morte» che secondo un’immaginifica ma pertinente definizione giornalistica è stato ricevuto da Matteo Renzi in occasione della cena alla Casa Bianca offerta dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, alla vigilia della sua uscita di scena, e prontamente scontata col referendum del 4 dicembre, dall’esito davvero clamoroso e traumatico.

Gridare allo scandalo sarebbe corretto ma inutile, essendo di solare evidenza che in Italia prospera come non mai il «particulare» di Francesco Guicciardini e che la «salvezza dello stato» – fine ultimo dell’azione politica teorizzata nel pensiero di Nicolò Machiavelli – vive nella sfera dell’utopia, a prescindere dai dubbi sull’esistenza stessa dello stato. Nondimeno, chi «rifletta con mente pura» e faccia proprio il grande sogno del Vico ha tutte le buone ragioni per dissociarsi da quanti sostengono che esisterebbero cambiamenti di grande spessore all’insegna di un presunto ma indimostrabile progresso etico, politico e spirituale che si vorrebbe indefinito, al pari di quello tecnologico, l’unico certamente vero.

L’attualità del Principe di Salina e della sua realistica interpretazione di uomini e cose è destinata ad avere un lungo futuro.

(aprile 2017)

Tag: Carlo Cesare Montani, Principe di Salina, Tomasi di Lampedusa, Beppe Grillo, Trattato di Maastricht, Quintino Sella, Gaetano Salvemini, Afghanistan, Irak, Libia, Jugoslavia, Trattato di Osimo, Territorio Libero di Trieste, Aldo Moro, Mariano Rumor, Andreas Hillgruber, Dwight Eisenhower, Harold Alexander, Pietro Badoglio, Bettino Craxi, Abul Abbas, Matteo Renzi, Barack Obama, Francesco Guicciardini, Nicolò Machiavelli, Giambattista Vico.